LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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Educare all'umanità, custodire la speranza. Resistenza, diritto e memoria nell'opera di Romain Gary (di Marco Fioravanti, Università di Roma “Tor Vergata” / Collège International de Philosophie di Parigi)


Il saggio vuole riflettere su un autore che, sebbene negli ultimi anni abbia conosciuto una riscoperta sia in Francia che in Europa, rimane, soprattutto in Italia, poco noto e sottovalutato. L’opera di Romain Gary invece si presta più di altre a essere esaminata con la lente del giurista e dello storico, attenta a scrutare nelle pagine romanzesche istanze legate al diritto, alla libertà e alla giustizia. La Resistenza vissuta e narrata da Gary attraverso i suoi numerosi alter ego letterari rappresenta un momento etico e pedagogico, mai retorico, di lotta per il diritto e per la memoria.

DOI: 10.17473/LAWART-2021-2-5

Educate for Humanity, Keep the Hope. Resistance, Law and Memory in the Work of Romain Gary

The essay wants to reflect on an author who, although in recent years he has experienced a rediscovery both in France and in Europe, remains, especially in Italy, little known and underestimated. The work of Romain Gary, on the other hand, lends itself more than others to being examined through the lens of the jurist and historian, careful to scrutinize in the fictional pages issues related to law, freedom and justice. The Resistance lived and narrated by Gary through his numerous literary alter egos represents an ethical and pedagogical moment, never rhetorical, of struggle for the right and for memory.

«Il leur restait encore à acquérir une autre éducation, que ni les écoles, ni les lycées, ni les universités ne pouvaient donner – il leur restait à faire leur éducation humaine»

Romain Gary, Les Racines du ciel

Sommario:

1. L’autore e il suo doppio - 2. Musica e Liberazione - 3. Chi dice umanità - 4. Una cittadinanza per gli apolidi - 5. Diritto e natura - 6. Femminilità, dignità e diritti dell’uomo - 7. L’impossibile oblio - Bibliografia - NOTE


1. L’autore e il suo doppio

Gli aquiloni con le immagini di Rabelais, Montaigne, Erasmo, Rousseau, Diderot, Voltaire che volteggiano nel cielo cupo della Normandia all’alba dell’occupazione nazista, rappresentano il momento eticamente e letterariamente più alto dell’opera di Romain Gary [1]. Essi, che danno il nome al suo ultimo romanzo, sono il simbolo più incisivo e poetico di quella Resistenza che Gary ha esaltato, come partigiano e come narratore, nel corso di tutta la sua vita. Attraverso i suoi scritti che affrontano o incrociano il momento resistenziale [2] si vogliono restituire le tante forme e i tanti nomi del diritto, della memoria e della Resistenza.

Nato in Wilno, in Lituania, nel 1914 con il nome di Roman Kacew da una famiglia di ebrei ashkenaziti, si trasferì con la madre prima nel 1921 in Polonia poi nel 1928 in Francia dove ottenne la cittadinanza nel 1935, per poi iniziare gli studi giuridici a Aix-en-Provence e terminarli nel 1938 a Parigi. Divenuto aviatore dell’esercito francese, si unì subito a coloro che rifiutarono l’armistizio del 22 giugno 1940 e raggiunse la Francia libera in Inghilterra e poi in Africa del nord. Coinvolto nei bombardamenti aerei contro i nazisti nel 1944 assunse lo pseudonimo di “Gary” (“brucia”, l’imperativo di bruciare, in russo) [3]. Resistente e ufficiale dell’esercito di liberazione di Charles De Gaulle, uomo politico al quale rimase fedele per tutta la vita, dopo la guerra fu decorato con la Legion d’onore e intraprese la carriera diplomatica senza mai interrompere la sua proficua attività letteraria [4].

L’opera di Gary intercetta le grandi tematiche resistenziali, così come quelle legate allo sterminio degli ebrei [5], da una posizione quasi marginale, che sfugge a classificazioni. Affrancato, iconoclasta, meticcio, cosacco e saltimbanco (caratteristiche che contribuiranno alla sua originalità di scrittore), considerato estraneo alla tradizione resistenziale di sinistra in quanto membro del fronte gaullista, fortemente legato ad André Malraux, seppe abolire, con una certa dose di provocazione, le frontiere tra la vita e l’opera, tra l’autore e il suo doppio [6], lui che era riuscito a ingannare il pubblico dei lettori e dei critici, inventando pseudonimi quali René Deville, Fosco Sinibaldi (ispirato a Garibaldi), Shatan Bogat, Lucien Brûlard (preso in prestito, ovviamente, da Stendhal) [7] e, soprattutto, Émile Ajar, il suo alter ego con cui vinse, violandone come è noto il regolamento, per la seconda volta il premio Goncourt con La vita davanti a sé.

Il titolo di un giornale letterario della metà degli anni Sessanta, L’inadmissible Romain Gary, restituisce simbolicamente la sua estraneità al mondo culturale dominante dell’epoca [8]. Per lo strutturalismo e i seguaci del Nouveau roman la trama e i personaggi erano morti, mentre per Gary, che procedeva in direzione ostinata e contraria, la narrazione incontrava un ordito invischiato nella Storia [9]. Tuttavia i romanzi di Gary non sono romanzi storici in senso stretto, anche quelli più marcatamente legati alle vicende vissute dall’autore [10], ma una riflessione sulla condizione umana tra storia, memoria e transizione [11]. Si tratta di opere in cui traspare il suo proprio io immaginario, la sua realtà illustrata, l’avventura intellettuale della sua esistenza, in cui emergono, per dirla con Michel Foucault, i frammenti della sua vita. Così la Resistenza combattuta si affianca a quella narrata, la Resistenza coincide con il romanzo della Resistenza.

La peculiarità (e la grandezza) di Gary sta nell’aver saputo fondere (e a volte confondere) la grande Storia con la sua storia personale – un’avventura intellettuale originale ed esuberante che attraversa tutto il Secolo breve e i suoi conflitti [12] – tramite un genere letterario non identificabile che ha utilizzato l’ironia, il sarcasmo, la psicologia e, non ultimo, l’armamentario giuridico che, sebbene mai esplicitamente, è stato a più riprese azionato nella sua produzione artistica. Si assiste sia al fecondo paradosso che un uomo nato in Lituania, cresciuto tra Russia e Polonia nel mito della tradizione francese a e dei suoi principi universali, poi vissuto in Francia e negli Stati Uniti, regista e diplomatico in varie sedi del mondo, abbia tracciato il più vivido omaggio all’Europa che mantiene inalterato il suo messaggio di speranza e di umanità [13], così come all’apparente incongruenza che uno scrittore lontano dallo stereotipo dell’intellettuale engagé tipico della sua generazione (Gary si definiva un clown lyrique), abbia illustrato in quasi tutta la sua produzione artistica (e militante, malgré lui) un elogio della lotta partigiana e della battaglia contro le discriminazioni razziali.


2. Musica e Liberazione

La sua vocazione d’insoumis [14] emerge già nel primo libro [15]Educazione europea – redatto durante la guerra e pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1944 con il titolo Forest of Anger [16]. L’espressione inglese tuttavia, seppur efficace, non restituisce il vero senso del volume: si tratta infatti di una riflessione non precisamente sulla rabbia ma sull’attesa, vicino alle atmosfere sospese del quasi coevo Deserto dei tartari di Dino Buzzati, e sull’angoscia che essa comporta, elemento che avrebbe caratterizzato tutta la scrittura di Gary degli anni successivi [17]. In questo affresco sui partigiani – «un saldo antidoto contro le interpretazioni ideologiche della Resistenza» [18] – emergono già tutti gli aspetti che poi sarebbero stati recuperati nella sua monumentale produzione letteraria dei successivi quarant’anni: la difesa dell’idea di patria in opposizione a quella di nazione, l’amore per la giustizia e il disprezzo per la vendetta, l’elogio dei diritti dell’uomo, la dignità umana, l’educazione, l’idiosincrasia verso le ideologie “forti” del Novecento, il sarcasmo verso la società borghese con la denuncia dei suoi simboli e dei suoi valori, la critica del comunismo che non sfociò mai in un anticomunismo viscerale e, in sintesi, la Resistenza come momento imperativo etico assoluto [19].

In Educazione europea, la storia di Janek, un giovane polacco che si unisce alla Resistenza scoprendo il dolore, l’amore e la passione politica, si intreccia con quella di altri ragazzi e ragazze che nella lotta contro i nazisti diventano adulti e si scoprono indifesi e forti allo stesso tempo. Ma i protagonisti ombra che fanno da sottofondo a questo omaggio corale alla purezza della libertà, sono la poesia, la letteratura e, soprattutto, la musica che assume il valore, non solo simbolico, di strumento di liberazione e di civilizzazione, di antidoto contro la barbarie, di risposta all’orrore.

Il valore performativo della musica, così come quello del diritto [20], è sempre presente nell’opera di Gary (in Educazione europea, ne Le radici del cielo, ne Gli aquiloni) fino ad assurgere a funzione liberatoria e salvifica: la forza dei vinti e degli oppressi, reclusi nelle carceri naziste o nascosti nelle grotte dell’Europa centrale, passa attraverso il suono degli strumenti [21]. Quando una ragazza mise sul fonografo La polonaise di Chopin, in modo che la musica facesse da sottofondo alla poesia, i partigiani in un rifugio, stanchi e affamati, celebrarono la loro fede, scrive Gary, confidando in una dignità che nessuna bruttura, nessun crimine potevano intaccare. Il tempo storico – quello lineare della modernità trionfante – sembra imbattersi in un’interruzione quando l’incontro con l’arte, la musica o l’amore fa scartare dall’epoca individuale e cronologica per proiettarla, per lo meno simbolicamente, verso una temporalità altra, un altro mondo, un universo che non coincide più con quello del presente [22].

pendant plus d’une heure, les partisans, dont certains avaient marché plus de dix kilomètres pour venir, écoutèrent la voix, ce qu’il y a de meilleur dans l’homme, comme pour se rassurer – pendant plus d’une heure, des hommes fatigués, blessés, affamés, traqués, célébrèrent ainsi leur foi, confiants dans une dignité qu’aucune laideur, aucun crime, ne pouvaient entamer [23].

La musica dunque come risposta alla dittatura [24]. Non a caso un personaggio tedesco del romanzo, Augustus, lontano dal cliché del brutale nazista, si occupa di costruire giocattoli musicali.

Janek non avrebbe mai dimenticato quel momento: i volti duri e virili, il piccolo fonografo in una buca di nuda terra, le mitragliette e i fucili posati sulle ginocchia, la ragazza con gli occhi chiusi e lo studente dal baschetto bianco e lo sguardo fiero che le teneva la mano; la stranezza di quegli istanti, la speranza, la musica, l’infinito. Il rifugio in cui si nascondono i partigiani prende la forma di una canzone, di una poesia, di una melodia, di un libro: «je voudrais que mon livre soit un de ces refuges, qu’en l’ouvrant, après la guerre, quand tout sera fini, les hommes retrouvent leur bien intact, qu’ils sachent qu’on a pu nous forcer à vivre comme des bêtes, mais qu’on n’a pas pu nous forcer à désespérer» [25]. La disperazione è, per Gary e i suoi giovani eroi, solo una mancanza di talento.

E un ragazzo ebreo, i cui genitori erano stati massacrati in un ghetto, in piedi in mezzo alla cantina maleodorante, vestito di stracci sporchi, suonando il violino per i partigiani, riabilitava il mondo e gli uomini, riabilitava Dio.

Il jouait. Son visage n’était plus laid, son corps maladroit n’était plus ridicule, et, dans sa main menue, l’archet était devenu une baguette enchantée. La tête rejetée en arrière à la manière de vainqueur, les lèvres entrouverte dans son souris de triomphe. Il jouait. Le monde était sorti du chaos. Il avait pris une forme harmonieuse et pure. Au commencement, moru la haiene et aux premiers accords, la faim, le mépris et la laideur avaient fui, pareils à des larves obscures que la lumière aveugle et tue. Dans tous les cœurs vivait la chaleur de l’amour. Toutes les mains étaient tendues, toutes les poitrines fraternelles… [26].

Educazione europea rappresenta il programma dell’Europa che verrà, una sorta di Manifesto di Ventotene dei fanciulli, un incunabolo della dichiarazione universale dei diritti: un’Europa senza confini, nazioni e bombe, dove le capitali diventeranno province. Tuttavia lo spazio europeo è inteso in una duplice accezione: come orizzonte di libertà, al di là degli stati nazione e della sovranità, e come teatro di sangue, di violenze e di guerra che trasforma tutti in esseri peggiori. I contadini, provati dal freddo, dalla miseria e dalle requisizioni dei tedeschi iniziavano a non voler più aiutare i partigiani che si abbandonavano a frequenti saccheggi. Ma vi era di peggio. Una bambina, di quindici anni, veniva utilizzata dai partigiani per soddisfare il piacere dei tedeschi e così carpire informazioni utili. Proprio Zosia, il cui amore per Janek è immortalato in pagine sensibilissime, rappresenta allo stesso tempo il fondo dell’abominio e la possibilità di ricominciare. Cosa sono i partigiani nascosti nella foresta polacca, ci fa intuire Gary, se non i primi cristiani delle catacombe in attesa della resurrezione.


3. Chi dice umanità

La questione del binomio umanità-barbarie è centrale nella riflessione di Gary e tornerà in tutta la sua produzione, soprattutto quella che intreccia le tematiche (anche biografiche) resistenziali, fino a culminare nella profonda riflessione sulla disumanità che alberga in ogni uomo ne Gli aquiloni. Gary, accettando fin dal primo romanzo la sfida, non indietreggia di fronte al dirupo della depravazione umana che la guerra e l’occupazione tedesca hanno provocato. Sebbene non si nasconda dietro una facile retorica dei diritti umani, allo stesso tempo non accetta l’idea che essi siano nient’altro che una favola per bambini. In Educazione europea, uno sconsolato partigiano, afferma, con amarezza: «les hommes se racontent de jolies histoires, et puis il se font tuer pour elles – ils s’imaginent qu’ainsi le mythe se fera réalité. Liberté, dignité, fraternité… honneur d’être un homme. Nous aussi, dans cette forêt, on se fait tuer pour un conte de nourrice». Ma il giovane studente ribatte con convinzione che queste “favole” un giorno verranno insegnate nelle scuole. La Resistenza e il suo spirito umanitario sono strettamente imbricati.

Gary, nelle vesti del giovane partigiano polacco de l’Educazione europea, dell’adolescente normanno de Gli aquiloni o del romantico difensore degli elefanti ne Le Radici del cielo, non demorde: prendere i diritti sul serio, si sarebbe detto qualche decennio dopo [27]. La libertà, la dignità, l’onore non sono, per i ragazzi di Gary un racconto per l’infanzia, ma rappresentano ciò che permette loro di andare avanti, di non perdere la speranza, di continuare a resistere in un buio e malsano nascondiglio. Alla domanda esistenziale posta, in Educazione europea, da Janek, al suo amico, «Tu aimes les Russes, toi?» la risposta rappresenta il manifesto del pensiero di Gary, il quale distingue nazionalismo da patriottismo. Infatti Dobranski risponde: «J’aime tous les peuples, mais je n’aime aucune nation. Je suis patriote, je ne suis pas nationaliste. – Quelle est la différence? – Le patriotisme, c’est l’amour des siens. Le nationalisme, c’est la haine des autres» [28]. Molti anni dopo, uno dei più grandi giuristi e intellettuali europei, Jürgen Habermas, all’indomani della riunificazione tedesca, avrebbe utilizzato la formula, discutibile ma efficace, di patriottismo costituzionale [29].

Ma a volte, l’incapacità di disperare di Gary e dei suoi eroi [30], nei momenti più bui, viene meno e lascia spazio alla disperazione, un sentimento atroce che si nasconde in ogni uomo e che può trasformarlo in … tedesco anche se è un patriota polacco: «La question est de savoir si l’homme est allemand ou non … s’il lui arrive seulement de l’être parfois. C’est ce que j’essaie de mettre dans mon livre. Tu ne me demandes pas le titre? Dis-le-moi. Ça s’appelle Éducation européenne» [31]. Ed è proprio sull’etichetta di tedesco o di polacco che il libro si sofferma in un altro toccante passaggio dove un disertore dell’esercito nazista, che vuole unirsi ai partigiani, viene fucilato perché aveva proprio come una specie di marchio, tedesco, nemico, e “noi” ne avevamo un altro, polacchi [32].

Il conflitto tra due educazioni europee, quella della giustizia e della libertà e quella della schiavitù e dell’oppressione, o, in altri termini, quella dell’umanità e quella della barbarie, si annida nella trama del libro fino a emergere esplicitamente in un colloquio che ricorda una sorta di Montagna incantata sommersa e capovolta, in senso sia metaforico che reale. Dal canto del cigno della borghesia europea che trovava nei dibattiti serrati in un sanatorio svizzero la sua consacrazione portata a un altissimo livello morale e stilistico da Thomas Mann, si passa a una nuova epifania di quella che sarebbe stata l’età dei diritti, nei bassifondi di una “tana” nella montagna, non più magica, dove un giovane studioso di storia e uno di diritto si appassionavano in discussioni sul futuro.

Janek, sorpreso nello scoprire che un suo compagno, lo studente universitario Tadek Chmura, in quelle condizioni estreme, passasse ore sui libri di giurisprudenza, notò un voluminoso libro di diritto costituzionale e lo aprì alla pagina che riportava la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, per poi richiuderlo con un sorrisetto canzonatorio.

Oui, je sais, dit Tadeck Chmura, doucement. Il est très difficile de prendre cela au sérieux, n’est-pas? L’Europe a toujours eu les meilleures et les plus belles universités du monde. C’est là que sont nées nos plus belles idées, celles qui ont inspiré nos plus grandes œuvres: les notions de liberté, de dignité humaine, de fraternité. Les universités européennes ont été le berceau de la civilisation. Mais il y a aussi une autre éducation européenne, celle que nous recevons en ce moment: les plotons d’exécution, l’esclavage, la torture, le viol – la destruction de tout ce qui rend la vie belle. C’est l’heure de ténèbres [33].

La stessa relazione d’amore di Janek con Zosia nasconde una struggente lotta per la libertà e per la sopravvivenza alla barbarie, maturata da due adolescenti che si trovano al loro precoce appuntamento con la Storia. Ed è proprio all’educazione, nel senso illuministico e rivoluzionario del termine – tra il Rousseau dell’Émile e il Condorcet dei progetti di democratizzazione della scuola – che Gary pensa, non per ricordare una società scomparsa, ma per costruirne una migliore. Quest’idea nobile di emancipazione e di costruzione di un mondo nuovo viene restituita attraverso il dialogo toccante tra i due innamorati:

Comment sera-t-il ce monde nouveau? – Il sera sans haine. – Il faudra tuer beaucoup de gens, alors… – Il faudra tuer beaucoup de gens. – Et la haine sera toujours là … Il y en aura encore plus qu’avant… – On ne les tuera pas, alors. On les guérira. On leur donnera à manger. On leur construira des maison. On leur donnera de la musique et des livres. On leur apprendra la bonté. Ils sont appris la haine, ils peuvent bien apprendre la bonté. […] Quand nous aurons des enfants, nous leur apprendrons à aimer et non à haïr. – Nous leur apprendrons à haïr aussi. Nous leur apprendrons à haïr la laideur, l’envie, la force, le fascisme. – Qu’est-ce que c’est, le fascisme? – Je ne sais pas exactement. C’est une façon de haïr [34].

A poco più di un anno dalla stampa di Educazione europea Gary pubblica un romanzo, Tulipe, dove le discriminazioni degli ebrei vengono affiancate, e lette in controluce, a quelle dei neri: due forme di persecuzione che sarebbero state riprese più avanti quando il razzismo, in tutte le sue declinazioni, sarebbe entrato prepotentemente nei suoi scritti [35]. Mentre il tema della Resistenza sarebbe riapparso in maniera esplicita in un altro romanzo, pessimista e malinconico, come Le grand vestiaire di pochi anni successivo. La disperazione e il cinismo (che saranno sempre presenti, seppure in forma latente, nei suoi testi) si palesano più apertamente con quest’opera del 1948, che ancora attende una traduzione italiana [36]. Gary, attraverso la figura di un adolescente, Luc Martin, fa i conti, come tutti i grandi scrittori europei della sua generazione [37], con la Resistenza tradita e una Francia tornata chiusa nell’avidità e nel conformismo. Temi che avrebbe sviluppato nei decenni successivi ma in forme e fisionomie meno cupe e più gioiose. Le grand vestiaire rappresentò il suo primo significativo successo negli Stati Uniti mentre in Francia, come Tulipe del resto, venne accolto in maniera glaciale. Pour cause. Luc, il cui padre era stato ucciso durante la Resistenza, vive a Parigi presso un anziano e ambiguo uomo di nome Vanderputte, che si scoprirà essere antisemita e delatore di partigiani, e cresce con il mito dei film hollywoodiani dedicandosi a piccoli furti insieme a compagni di sventure con i quali condivide un’esistenza ai margini di una città che vuole dimenticare guerra e collaborazionismo. Nel romanzo è presente la sua idea di umanità che rifiutando il manicheismo, l’autentico nemico di Gary [38], evita sempre di giudicare, anche di fronte ai crimini più disumani come quelli dei nazisti, senza tuttavia confondere carnefici e vittime. È assente invece quell’ironia e quell’ottimismo, mai ingenuo, che avrebbe caratterizzato le opere successive.

L’adolescente vuole crescere in fretta per capire ciò che suo padre, partigiano e maestro elementare, aveva cercato di insegnargli nella sua breve esistenza: la natura di «questi famosi uomini di cui tutti parlano tanto … piccole isole che non credono ai continenti» [39]. Ma l’orfano constata con amarezza che il padre gli aveva mentito, gli uomini non esistevano, esisteva solo il loro vestiaire, il mondo era un grande Gestard-Felouche, il nome che Vanderputte aveva dato alla sua stravagante vestaglia. La strada non era attraversata da individui ma dai loro abiti: vestiti e pantaloni, scarpe e cappelli, un immenso guardaroba abbandonato che cercava di ingannare il mondo, di adornarsi di un nome, di un indirizzo, di un’idea: «j’avais beau appuyer mon front brûlant contre le vitre, chercher ceux pour qui mon père était mort, je ne voyais que le vestiaire dérisoire et les milles visages qui imitaient, en la calomniant, la figure humaine» [40].

La vena ironica qui volge al sarcasmo amaro quando, in una rappresentazione dell’anti-alterità [41], Vanderputte accetta le sue responsabilità di delatore non provando il minimo rimorso per le conseguenze del suo gesto [42] e quando, in un capovolgimento di prospettive, vengono denunciati gli eccessi dell’epurazione: «la leçon du Grand Vestiaire doit être lue au miroir des excès de l’épuration: l’égoïsme et la solitude ont conduit Vanderputte, durant la guerre, à ne pas reconnaître dans l’altérité un autre soi-même, tandis qu’à la Libération les hommes eux-mêmes n’ont pas voulu voir en Vanderputte un semblable» [43]. A vent’anni dalla pubblicazione di questo tragico racconto, Gary avrebbe maturato e rafforzato l’idea che il male non sia esclusivo appannaggio di qualcuno e il bene di qualcun altro, al punto da sostenere che il personaggio di Vanderputte rappresentava per lui l’umanità intera [44].


4. Una cittadinanza per gli apolidi

Gary, che non a caso abbiamo definito cosacco e meticcio, corsaro e apolide, avrebbe dedicato pochi ma incisivi riferimenti a una questione giuridica e diplomatica tanto rilevante quanto misconosciuta. Si tratta dell’omaggio che ne Le Radici del cielo rende all’esploratore norvegese, premio Nobel per la pace, Fridtjof Nansen e alla sua idea, affermatasi in Europa con un certo seguito, tra il 1922 e il 1945, di un “passaporto per senza patria” [45]. Istituito dall’Alto Commissariato per i rifugiati della Società delle Nazioni, fu un documento riconosciuto da 52 paesi che permise a rifugiati e apolidi di avere un’identità giuridica e soprattutto di poter viaggiare. Uno dei pochi occidentali a visitare le condizioni della popolazione nella Russia in preda alla guerra civile e martoriata dalla carestia, Nansen ne tornerà con un sentimento di sconforto e di impotenza e si rivolgerà alle organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa Internazionale.

Alla fine del 1920 un milione e 200 mila russi lasciarono il loro paese per dirigersi in differenti zone d’Europa, in particolare in Francia e Germania. Ma per coloro, numerosissimi, che si fermarono a Costantinopoli, iniziò un destino ancora più tragico in quanto si incontrarono con la rivoluzione di Ataturk e la progressiva cacciata degli ortodossi dalla Turchia moderna: i russi, in quanto ortodossi essi stessi, non erano i benvenuti. La Croce Rossa Internazionale si prese cura dei rifugiati russi ma da sola non riuscì ad affrontare il problema: la situazione degli esuli in Turchia, molti appartenenti all’armata bianca, divenne sempre più critica. Arrivato a Costantinopoli, su mandato della Società delle Nazioni, Nansen rimase colpito dalla miseria, dal degrado e dall’abbandono degli esuli, ponendosi subito il problema non solo della loro ripartizione nei vari paesi europei ma soprattutto del loro statuto giuridico. Nel frattempo Lenin, nel 1921, stabilì che i russi fuggiti all’estero per poter rientrare in patria dovessero accettare il nuovo regime, ultimatum che la gran parte degli esiliati rifiutò, divenendo in tal modo privati della nazionalità, un’anomalia nell’ordine giuridico internazionale e il primo caso di sans papier di massa in Europa.

Sorte simile toccò agli armeni in Turchia che, in seguito al genocidio perpetrato nel 1915 dall’Impero ottomano, si ritrovarono senza nazionalità e mezzi di sussistenza. Successivamente alla legge di confisca dei beni degli “assenti” del 15 aprile 1927, la Turchia aveva rifiutato di considerare “fuoriusciti” gli armeni rifugiatisi in Europa, operando di fatto la loro denazionalizzazione. Il passaporto Nansen permise a 80 mila armeni di essere ricollocati in 45 nazioni diverse.

È in questa drammatica situazione che nacque l’idea di Nansen di creare un certificato che permettesse ai profughi di muoversi attraverso le numerose e nuove frontiere di un’Europa terremotata dai nazionalismi. Con l’aiuto di giuristi e grazie alle sue capacità diplomatiche (benché l’alto commissariato per i rifugiati avesse un budget molto limitato), Nansen riuscì a dotare i rifugiati russi e armeni di un documento valido un anno e rinnovabile a vita (ne furono emessi circa 450 mila) che permettesse loro di avere un’identità giuridica e di viaggiare, sebbene fosse vietato il rientro in patria. Nella voce nazionalità era indicato: indeterminata [46].

L’omaggio di Gary – anche lui come Nansen diplomatico e umanista – a questo passaporto che diede la cittadinanza a milioni di profughi, tra i quali grandi personalità delle arti come Igor Stravinsky, Sergej Prokof’ev, Marc Chagall, Nicolas De Staël, Vladimir Nabokov – sebbene nascosto nelle pieghe delle sue numerosissime pagine romanzesche, rappresenta una delle chiavi per comprendere il suo profilo intellettuale.


5. Diritto e natura

Il tema della Resistenza muta forma e luogo, mantenendo inalterata la medesima tensione morale, ne Le Radici del cielo, romanzo con cui vinse, per la prima volta, il premio Goncourt. L’eroico personaggio del libro – Morel – ecologista ante-litteram (quando il termine era quasi sconosciuto), avventuriero romantico, forse infantile, che non ha ancora corrotto l’idealismo con l’ideologia, rimanda in filigrana al profilo dell’autore. Ex partigiano, Morel, deportato durante la Guerra nei campi di prigionia in Germania, raggiunge l’Africa centrale per una nuova battaglia di libertà: sensibilizzare gli amministratori e i politici coloniali dell’Africa Equatoriale francese a porre fine allo sterminio di elefanti che avveniva nella regione. Dopo svariati e fallimentari tentativi, decide di passare di nuovo in clandestinità, questa volta però non contro i nazisti e per la libertà della patria, ma per gli elefanti e i diritti della natura. E l’identificazione tra l’autore e il suo doppio verrà in qualche modo svelata ne La promessa dell’alba in cui Gary confessa di aver imparato fin da bambino a non disperare mai, proprio come Morel che si impegna in un’opera titanica, rifiutandosi di sottomettersi ai limiti della condizione umana e impegnandosi fino in fondo in qualcosa di più grande di lui: la protezione della natura [47].

Circa trentamila elefanti, infatti, venivano massacrati ogni anno principalmente a fini di divertimento per i trofei di caccia e a scopo di lucro, permettendo la vendita dell’avorio e di altre parti del corpo dell’elefante, orribilmente trasformate in porta ombrelli, ferma carte e altri utensili. Fallito il tentativo di sensibilizzare sia i Francesi dell’Africa equatoriale sia gli autoctoni alla sua causa ecologista, abbandonato da tutti, trattato con sufficienza e considerato seguace di un ideale anacronistico, Morel decide di passare alla clandestinità e attivare una serie di azioni di sabotaggio e punizioni esemplari (senza uccisioni) nei confronti dei più spregiudicati cacciatori di elefanti o commercianti di avorio. Non si tratta di politica – apostrofava i suoi interlocutori Morel, distribuendo petizioni al governo contro lo sterminio degli animali nel Ciad – si tratta di umanità. La petizione prevedeva “semplicemente” l’abolizione della caccia agli elefanti e in particolare la più ignobile, quella per i trofei.

Per l’uomo bianco l’elefante aveva da sempre rappresentato l’avorio, per quello nero la carne. Tuttavia l’usanza degli Africani di uccidere gli elefanti rispondeva a una necessità vitale come quella di alimentarsi, mentre la caccia per il trofeo rappresentava la sua forma più spregevole. L’uccisione di elefanti per procurarsi le proteine necessarie alla sopravvivenza comportava in Morel la necessità di innalzare la sua battaglia non solo a favore degli elefanti ma degli Africani stessi, affinché raggiungessero un livello di alimentazione tale da non rendere più necessario lo sterminio degli animali.

E il mito della Resistenza, nel senso di possibilità di resistere all’abominio e alle più disumane restrizioni, torna attraverso le memorie di prigionia in Germania di Morel, che ricorda come con i suoi compagni di cella avesse pensato, per sopravvivere a quella condizione, proprio alle mandrie di elefanti che correvano, irresistibili e indistruttibili, per le distese della savana. Non solo, ma un personaggio del romanzo, Laurençot, un romantico collaboratore del governo coloniale, solidale con Morel, si spinse a dire che lo avrebbe raggiunto nel suo maquis, nel suo nucleo di resistenza a difesa della libertà degli animali. Morel/Gary, di nuovo “alla macchia”, ma questa volta nell’entroterra africano e non nell’aviazione della Francia libera, arriva a proporre un progetto di Costituzione in cui siano presenti i diritti della natura [48]. La lungimiranza e la visionarietà di questa proposta non hanno bisogno di ulteriori commenti.

Il gruppo eterogeno di sostenitori di Morel che si nascondono nella foresta – composto da idealisti, fiancheggiatori dell’indipendenza africana, naturalisti, ma anche banditi e fuggitivi – non rappresentava altro che «un vrai maquis; des hommes de bonne volonté et la crapule, une indignation généreuse et des calculs habiles, des éléphants à l’horizon, mais aussi la fin qui justifie les moyens» [49]. La lotta europea e quella africana sono agli occhi di Morel così simili che arriva a sostenere di aver lottato nella Resistenza non solamente contro i tedeschi ma soprattutto contro i cacciatori di elefanti [50]. Il suo idealismo veniva tuttavia sbeffeggiato come fuori moda, di retroguardia, superato dalla storia, anacronistico come i grandi pachidermi che lui voleva difendere.

Semmai Morel, che si avvicina ai movimenti indipendentisti africani al crepuscolo del colonialismo occidentale (che viveva le sue ultime ore, ma si rifiutava di accettarlo), in piena sintonia con il suo doppio, in un continuo gioco di specchi (o meglio in una continua fuga dagli specchi), prende le distanze da ogni deriva nazionalista: «personnellement, bien entendu je me fous de tous les nationalistes, quels qu’ils soient: les Blancs comme les Noirs, les Rouges comme les Jaunes, les nouveaux comme les anciens. Tout ce qui m’intéresse, c’est l’essentiel: la protection de la nature». Anche ne Le Radici del cielo, come in Educazione europea, la critica al nazionalismo è onnipresente, al punto che in un passaggio Morel afferma che non dovrebbe più esistere da molto tempo, se non per le partite di calcio.

Emblematica in tal senso la figura di Waïtari, espressione del nazionalismo africano, intriso, per paradossale che possa apparire, di cultura occidentale, che si occuperà di sterminare più elefanti possibili per attirare Morel in una trappola: agli occhi dello spregiudicato leader indipendentista nero, gli elefanti rappresentavano un residuo arcaico e premoderno, che gli occidentali borghesi e benestanti si potevano permettere il lusso di esaltare, mentre la rivoluzione africana verso l’industrializzazione, l’elettrificazione e l’uscita dal suo passato tribale doveva passare sopra gli elefanti e se necessario sterminarli. In un ribaltamento di posizioni, in cui gli interessi degli uni si confondono con quelli degli altri, colonialisti e indipendentisti individuano in Morel il loro principale nemico: per i primi un uomo al soldo delle potenze straniere comuniste, per gli altri di quelle occidentali, ma per entrambi Morel utilizzava l’alibi degli elefanti per altri scopi.

Quanto queste accuse fossero infondate ce lo dimostra Gary sempre attraverso la personalità fuori dal comune di Morel. Di fronte alla sconfitta e alla cattura non perde la sagacia e l’ironia: il colpo di fucile con il quale aveva ferito un cacciatore di elefanti dava un senso alla sua stessa esistenza.

Non mancano poi nel romanzo le taglienti rappresentazioni del decadente regime parlamentare francese, che si vedeva minacciato nei suoi privilegi e nel suo immobile status quo: cos’è questo ridicolo difensore dei diritti degli elefanti – declamava un deputato in un caffè parigino di boulevard Saint-Germain – se non la quinta colonna di un regime totalitario? cos’è la metafora degli elefanti che corrono liberi se non la volontà di calpestare il parlamento francese? L’isterismo della politica e della stampa francese non riusciva ad accettare l’idealismo e il disinteresse, portato certo fino all’estremo, di Morel il quale reclamava un rispetto elementare dei diritti della natura.

Il suo afflato ecologista troverà, a più di dieci anni dalla pubblicazione de Le Radici del cielo, un momento provocatorio anche con la Lettre à l’éléphant apparsa su Le Figaro Littéraire nel marzo del 1968 [51]. Monsieur et cher éléphant, così iniziava la missiva indirizzata al grande pachiderma, simbolo di tutto ciò che vi è di sacro e di prezioso nella natura, minacciato di estinzione in nome del progresso, del materialismo e di un’ideologia razionale che persegue un uso della ragione astratto e inumano. «Il semble évident aujourd’hui que nous nous sommes comportés tout simplement envers d’autres espèces, et la vôtre en particulier, comme nous sommes sur le point de le faire envers nous-mêmes». Dal ricordo di un pelouche a forma di elefante con il quale dormiva da bambino, fino all’incontro con un vero esemplare durante la campagna d’Africa contro i nazisti, Gary conserva l’eco della marcia irresistibile degli elefanti verso la libertà: «Il résonne triomphalement comme la fin de la soumission et de la servitude, comme un écho de cette liberté infinie qui hante notre âme depuis qu’elle fut opprimée pour la première fois».

Di fronte all’obiezione dei benpensanti che vi sono cose più considerevoli della difesa degli elefanti e che l’umanità ha fin troppi problemi che occuparsi di loro, Gary risponde che si tratta di un’argomentazione cara ai regimi totalitari, da quello di Stalin a quello di Mao, passando per Hitler (ma si intravede anche la critica al “totalitarismo nascosto” della società dei consumi), i quali sostengono che la difesa della natura sia un privilegio che non ci si può permettere. Una società veramente razionale, continua provocatoriamente Gary, non si può concedere il lusso della libertà individuale.

Les droits de l’homme sont, eux aussi, des espèces d’éléphants. Le droit d’être d’un avis contraire, de penser librement, le droit de résister au pouvoir et de le contester, ce sont là des valeurs qu’on peut très facilement juguler et réprimer au nom du rendement, de l’efficacité, des « intérêts supérieurs » et du rationalisme intégral.

Il diritto di resistenza e di contestazione del potere, sono quei diritti che più facilmente possono essere calpestati in nome di interessi superiori: la dignità dell’uomo è messa in discussione ogni volta che si violano i diritti degli animali: «Pour moi, je sens profondément que le sort de l’homme, et sa dignité, sont en jeu chaque fois que nos splendeurs naturelles, océans, forêts ou éléphants, sont menacées de destruction». E più avanti in maniera profetica aggiungeva: «Mais laissez-moi vous dire ceci, mon vieil ami : dans un monde entièrement fait pour l’homme, il se pourrait bien qu’il n’y eût pas non plus place pour l’homme. Tout ce qui restera de nous, ce seront des robots». Prendendo le distanze dalle “mode” filosofiche del momento (siamo a pochi mesi dal maggio Sessantotto) e correndo il rischio di essere considerato conservatore, reazionario o liberale, Gary non demorde nella sua battaglia contro quello che ha definito, con una certa dose di ambiguità semantica ma con efficacia discorsiva, “materialismo integrale” e in difesa in un nuovo umanesimo. Ergendosi al ruolo di intellettuale engagé – lui che non aveva mai firmato un appello o aderito a una manifestazione sostenendo che vi erano i suoi libri a manifestare per lui – concludeva la Lettre à l’éléphant con queste parole: «dans une société, vraiment matérialiste et réaliste, poètes, écrivains, artistes, rêveurs et éléphants ne sont plus que des gêneurs».

Gli elefanti equivalgono dunque ai diritti dell’uomo: rischiando lo sterminio vanno difesi a ogni costo.


6. Femminilità, dignità e diritti dell’uomo

Nell’opera di Gary la donna è collocata in una posizione centrale, quasi “strategica”, sia per la trama romanzesca che per il senso del suo ruolo. Dalla ricostruzione rocambolesca della vita di sua madre che ne La promessa dell’alba impegna tutta se stessa per il futuro del figlio, passando alle personalità individuate ai margini della società borghese, come Madame Rosa de La vita davanti a sé, Mlle Drèyfus di Gros-Câlin o Julie Espinoza de Gli aquiloni. Emarginate, prostitute, tenutarie di case di appuntamenti o belles de jour, sono tutte eroiche salvatrici dell’umanità, al punto che Gary sosterrà che «le monde sera sauvé par la féminité» [52].

Nell’intervista rilasciata a Radio-Canada poco prima della morte, un’ultima breve tappa della sua biografia, esplicita l’elogio della femminilità nella sua incarnazione letteraria e filosofica, quasi rimproverando la critica letteraria per non aver colto questo aspetto macroscopico della sua produzione artistica: «je trouve que c’est ce que j’ai fait de plus valable dans ma vie, c’est d’introduire dans tous mes livres, dans tout ce que j’ai écrit, cette passion de la féminité soit dans son incarnation charnelle et affective de la femme, soit dans son incarnation philosophique de l’éloge et de la défense de la faiblesse» [53]. Poiché, continua collegando due aspetti centrali della sua opera, i diritti dell’uomo non sono altro che la difesa del diritto alla debolezza. Tutta la sua opera, avrebbe esplicitato in un altro tassello della sua biografia romanzata, La notte sarà calma, era fatta di rispetto per la debolezza [54].

Ma è con La promessa dell’alba, libro fortemente malinconico, introspettivo e disincantato, che, attraverso l’appassionato omaggio alla madre, Gary ci offre in maniera più compiuta la sua idea di femminilità. In quest’opera della maturità ricostruisce, in forma romanzata spesso allontanandosi dal reale, la sua infanzia, prima a Wilno, poi nella Francia mediterranea, infine nelle file dell’esercito di liberazione gaullista, e le sproporzionate ambizioni materne nei suoi confronti. Dal primo amore adolescenziale, che avrebbe ispirato, per sua stessa ammissione, quello de L’educazione europea [55], ai ranghi della Francia libera di De Gaulle, è sempre intorno alla figura materna che ruota la storia. Gli appelli alla dignità e alla giustizia sono costanti nell’opera di Gary e riconducibili anch’essi, oltre che alla sua biografia di partigiano, alla forte impronta lasciata dalla madre: «si tous mes livres sont pleins d’appel à la dignité, à la justice, si l’on y parle tellement et si haut de l’honneur d’être un homme, c’est peut-être parce que j’ai vécu, jusqu’à l’âge de vingt-deux ans, du travail d’une femme malade et surmenée» [56].

Ritornano sempre nei romanzi di Gary i nemici che un uomo degno di questo nome deve combattere, quelli che, ne La promessa dell’alba, prenderanno la forma di Totoche, il dio della stupidità, di Merzavka, il dio delle certezze assolute, e di Filoche, il dio della meschinità, dei pregiudizi, del disprezzo, dell’odio che, affacciato alla guardiola della portineria, all’ingresso del mondo abitato, grida: «sporco americano, sporco arabo, sporco ebreo, sporco russo, sporco cinese, sporco negro». Filoche, il dio della stupidità, è un meraviglioso organizzatore di movimenti di massa:

de guerres, de lynchages, de persécutions, habile dialecticien, père de toute formation idéologiques, grand inquisiteur, grand amateur de guerres saintes, malgré son poil alleux, sa tête d’hyène et ses petites pattes tordues, c’est un des dieux les plus puissants et les plus écoutés, que l’on trouve toujours dans tous les camps, un des plus zélés gardiens de notre terre, et qui nous en dispute la possession avec le plus de ruse et le plus d’habilité [57].

Filoche tornerà in azione nella parte centrale del libro quando la meschinità e i pregiudizi impediranno a Gary, naturalizzato da troppo poco per essere considerato un francese come gli altri, di avere i gradi da ufficiale. Anche lui, proprio come i rifugiati cari a Nansen, era un apatride [58]. Egli tuttavia si considerava francese di sangue… versato. L’ironia e il «sarcasmo nichilistico» [59] emergono come strumento di sovversione e «dichiarazione di dignità» [60], come tratto umano e stilistico, come arma personale contro le sventure, un espediente che Gary utilizza proprio contro la tirannia dell’identità.

La réalité est que «je» n’existe pas, que le «moi» n’est jamais visé, mais seulement franchi, lorsque je tourne contre lui mon arme préférée; c’est à la situation humaine que je m’en prends, à travers toutes ses incarnations éphémères, c’est à une condition qui nous fut imposée de l’extérieur, à une loi qui nous fut dictée par des forces obscures [61].

Il tratto del doppio e delle molteplici mutazioni identitarie risulta chiaramente legato all’umorismo, di chiara ispirazione yiddish, anch’esso strumento di resistenza dei deboli sui forti: «l’humor est l’arme blanche des hommes désarmés. Il est une forme de révolution pacifique et passive» [62].

Nell’appassionato e commovente omaggio a sua madre e all’educazione ricevuta, si staglia la lotta di Gary contro i mostri che si nascondono dentro ogni uomo, anche quelli più loschi e difficili da identificare. Per il camaleontico autore che avrebbe fatto della figura del doppio la propria misura umana e della ricerca del superamento di se stesso la sua cifra intellettuale [63], Janek/Tadek, il personaggio e il romanziere, Morel/Gary, l’ecologista e il suo entusiasta narratore, così come l’io narrante de La promessa dell’alba, rappresentano costantemente il rifiuto di disperare e la ricerca dell’ideale [64].

L’impossibilità e l’incapacità di arrendersi le incontriamo anche in un’opera di grande ambizione come Cane bianco, del 1970, che, sempre combinando aspetti biografici e romanzeschi, alterna disperazione e speranza. Il titolo si riferisce a un cane poliziotto addestrato a mordere solo persone di colore, che Gary (e Jean Seberg) vogliono a tutti i costi curare e (ri)educare: la speranza e l’idealismo vacillano di fronte alla profondità del razzismo. Da un lato la società americana degli anni Sessanta con le sue ipocrisie, le profonde diseguaglianze e discriminazioni, da un altro il movimento dei diritti civili che, sebbene visto con sguardo disincantato, trova l’autore partecipe e solidale soprattutto con la figura di Martin Luther King.

L’angoscia esistenziale e l’impotenza di fronte ai soprusi in una certa misura si fondono in Cane bianco, quando ricordando la sua lotta partigiana Gary sostiene: «J’essaie de n’adoucir en fermant les yeux et en faisant le compte de tous les nazis que j’ai tués pendant la guerre, mais cela ne fait que me déprimer: vous voulez tuer l’Injustice, mais vous ne tuez que des hommes» [65]. Anche in quest’opera, in cui la storia volge verso l’incubo [66], emergono gli dei della stupidità e del pregiudizio che assumono le sembianze del male rappresentato dal razzismo, negli Stati Uniti dilaniati dai conflitti tra bianchi e neri, frutto avvelenato della colonizzazione e di quattrocento anni di schiavitù. Capovolgendo però il luogo comune di secoli di sfruttamento che avrebbero inciso profondamente nella coscienza dei neri, il malinconico e ironico osservatore di una classe bianca americana involuta e chiusa in se stessa, nasconde la sua collera dietro l’ironia: i bianchi sono vittime dei propri pregiudizi e delle proprie (false) certezze.

Ils ont des siècles d‘esclavage. Je ne parle pas des Noirs. Je parle de Blancs. Ça fait deux siècles qu’ils sont esclaves des idées récues, des préjugés sacro-saints pieusement transmis de père en fils, et qu’ils ont pieds et poings liés par le grand cérémoniel des idées reçus, moules qui enserrent les cerveaux, pareils à ces sabot qui déformaient jadis de l’enfance les pieds des femmes chinoises [67].

Una critica delle certezze assolute e un elogio del dubbio, di cui oggi si sente, per il diritto e per la società, un grande bisogno [68].

Molteplici aspetti presenti nella sua produzione artistica, da quelli “ecologici” ai temi psicologici e resistenziali, vengono ripresi, seppur con un registro narrativo apparentemente lontano dai precedenti, in Gros-Câlin (tradotto in italiano come Mio caro pitone). Pubblicato nel 1974, per la prima volta con lo pseudonimo di Émile Ajar (che in russo vuol dire “braci”), parla di Pierre Cousin [69], un uomo, apparentemente, senza qualità, che vive con un grosso pitone riportato da un viaggio in Africa. Sullo sfondo si delinea la Parigi successiva agli scontri sociali del Sessantotto, già comparsi seppur fugacemente in Cane bianco, dai quali il solitario contabile (per l’esattezza uno statistico) si tiene a debita distanza. Ma al di là della trama e dello stile (che ricorda un po’ quello ironico, leggero ma tagliente, di Raymond Queneau) sono almeno tre le questioni che intercettano il nostro discorso: il mito della Resistenza (sia con l’iniziale maiuscola che minuscola), la sensibilità per i diritti degli animali (seppure meno esplicita che ne Le Radici del cielo) e l’angoscia esistenziale. La Resistenza è immortalata attraverso le immagini che M. Cousin tiene appese alla parete del suo deux-pièces a Parigi, di Jean Moulin e Pierre Brossolette, due mitici antifascisti francesi, che accompagneranno il riservato impiegato fino alla kafkiana metamorfosi finale in pitone. Quest’uomo solo in una città che si era trasformata repentinamente in un enorme agglomerato urbano, mosso dal bisogno di amare o di prendersi cura di qualcuno o qualcosa, sia essa una collega o un orologio a carica manuale [70], si ispira ai partigiani passando alla clandestinità per trovare la sua vera natura. Anche l’affascinante impiegata Mlle Drèyfus – nome evocativo di un simbolo dell’ingiustizia [71] – si sottrae alle umiliazioni di un lavoro di routine e trova nel dare piacere come prostituta maggiore dignità e soddisfazione.

Come i maquisards si munivano di documenti falsi per agire nascosti, il mite burocrate si finge umano, sebbene si senta (o sia veramente, questo poco cambia) oramai un rettile, violando le leggi della natura [72]. Condurre una vita ordinaria e piccolo borghese per celare la sua vera natura nel proprio foro interno, questa la sfida, anch’essa titanica, di M. Cousin: «J’ai la chance d’avoir beaucoup de place dans mon for intérieur. Il n’y a pas mieux, comme clandestinité». Una sorta di dissimulazione onesta, parafrasando il libello barocco di Torquato Accetto, riscoperto in pieno fascismo da Benedetto Croce.


7. L’impossibile oblio

À la mémoire, questa è la dedica che apre Gli aquiloni, il romanzo testamento di Gary che ha il respiro della storia che soffia tra le pieghe della memoria. Pubblicato nel 1980 poco prima del tragico suicidio, in esso riprende un tema che sembrava fuori dal tempo come quello della Resistenza. L’antieroico eroe del romanzo, Ludovic (detto Ludo), è totalmente sprovvisto della facoltà dell’oblio [73]: orfano di madre e di padre, morto nella prima guerra mondiale, con un bisnonno ucciso nelle barricate della Comune di Parigi, Ludo viene cresciuto dallo zio Ambroise Fleury, facteur rurale, che aveva iniziato a costruire aquiloni prima per gioco poi con passione fino a creare un vero e proprio museo della storia di Francia che sventolava nei cieli normanni. Il romanzo si sviluppa principalmente in Normandia, in un villaggio, inesistente in realtà, denominato Cléry, dove emerge, come è stato scritto per la lotta partigiana ad altre latitudini, il pathos del luogo [74], il legame con la terra, il cielo e il paesaggio. Ma non si tratta di un lieu de mémoire come monumento della rimembranza, secondo la concettualizzazione di Pierre Nora, ma piuttosto di un “non-luogo della memoria”, uno spazio magico del possibile e dell’utopico [75].

Reduce della prima guerra mondiale, il postino Fleury ne aveva sviluppato un fervente pacifismo, un senso di giustizia e di ripulsa della violenza che si associavano all’obiezione di coscienza e al rifiuto delle armi. A tal punto pacifista da essere considerato un po’ folle dai suoi compaesani. Il primo aquilone che compare rappresenta Léon Gambetta, in omaggio alla sua celebre fuga in pallone aerostatico dalla Parigi assediata dai tedeschi nell’ottobre del 1870, per organizzare la resistenza a Tours, poi un altro raffigurante Victor Hugo, ispirato alla foto di Nadar, disegnato come un Dio padre. Ma il preferito di Fleury era il suo Jean-Jacques Rousseau con le ali a forma di libro aperto le cui pagine sbattevano nel vento: «Jean-Jacques Rousseau et la Liberté éclairant le monde» [76]. Vi sono ideali, come quelli raffigurati sugli aquiloni di Gary, da tenere stretti perché non scappino nel cielo ma non troppo ancorati al suolo per non farli schiantare in terra [77].

La memoria, anche se non monumentalizzata, gioca un ruolo centrale nella narrazione e negli interscambi tra grande storia e storie personali, tra l’epopea umana e le “vite minuscole”, per dirla con Pierre Michon [78]. Quelli che nel romanzo sono chiamati “gli eventi” [79] risalgono alla Grande rivoluzione e alla sua Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 che il bisnonno recitava come un testo sacro. Il “vizio” della memoria viene trasmesso a Ludo che è condannato a non dimenticare nulla, dagli orari dei treni alle moltiplicazioni più difficili, al punto che il maestro elementare di fronte alle sue doti invocava, addirittura, qualche malformazione del cervello. Lo zio, invece, fedele “all’insegnamento pubblico obbligatorio”, una delle glorie della (per altri versi meno gloriosa) Terza repubblica francese, confidava nel nipote e nel suo “eccesso di memoria” [80].

Ma lo scoppio della guerra da un lato spinge l’anziano pacifista a momenti di sconforto che lo avrebbero portato a distruggere i suoi adorati aquiloni da un altro conduce suo nipote a cercare di salvarli, ovvero di proteggere la memoria e la speranza, aderendo a un réseau clandestino di partigiani dal nome Espoir. Gli umanisti e gli enciclopedisti rischiavano di venire offuscati dai nuovi Dioscuri dell’Europa anni Trenta: «Nous n’étions ni Rousseau, ni Diderot, ni Voltaire; nous étions Mussolini, Hitler et Staline» [81].

Il nucleo di resistenza che si va affermando tra la Normandia e Parigi, in attesa del mitico sbarco, ruota attorno a una figura femminile, Julie Espinoza, che ricorda quella di Madame Rosa de La vita davanti a sé [82]. Come l’eroina della Parigi multietnica del romanzo-culto di Gary/Ajar, la signora Espinoza (la quale ci tiene a ricordare l’assonanza del proprio cognome con quello del grande filosofo olandese) è un’ebrea tenutaria di una casa di appuntamenti, che però si trasforma nella raffinata contessa Estherazy il cui salotto è frequentato da tutti gli alti papaveri nazisti a cominciare dal capo della Gestapo. Nella Parigi in preda al panico per l’arrivo dei tedeschi, impegnata a trovare documenti per la figlia che la facesse risultare ariana, liquidava sconsolatamente i diritti dell’uomo, questa nobile tradizione francese, paragonandoli alle rose: «C’est des roses. Ça sent bon et c’est tout» [83]. Ma essa non demorde nella sua battaglia personale, inventandosi una identità ariana, e collettiva, organizzando un’efficace rete di partigiani. Mentre Ludo, sposatosi con Lila (che, per sopravvivere, era stata l’amante di alcuni gerarchi nazisti), si opporrà, con coraggio e ironia, ai resistenti dell’ultima ora, quelli che si erano uniti ai partigiani otto giorni dopo lo sbarco in Normandia e che, come accade spesso, si dimostrarono i più spietati verso i collaborazionisti. Rientrato lo zio dai campi di prigionia tedeschi, dove era stato rinchiuso per aver tentato di mettere in salvo più ebrei possibili dalla Francia di Vichy, dopo la Liberazione, il testimone della memoria e della speranza passa nelle mani di Ludo che riprende a costruire gli aquiloni con le grandi icone del passato, per salvare la memoria ma pensando al futuro, aggiungendo un’immagine di De Gaulle [84].

Ultimo romanzo, Gli aquiloni, si ricollega idealmente al primo, Educazione europea, per molteplici aspetti: la Resistenza, la memoria, la giustizia e la dignità. Inoltre come nel primo scritto anche nell’ultimo sono i ragazzi, adolescenti ma a volte bambini, che salvano il mondo con la loro purezza e il loro coraggio. La storia d’amore tra Ludo e Lila Bronicka, una giovane aristocratica polacca, ricorda sicuramente quella tra Janek e Zosia. La dialettica tra classi aristocratiche e popolari è attraversata nell’opera di Gary da un apparente paradosso, che invero si svela in tutta la sua concretezza attraverso la lettura sia dell’opera che della vita dell’autore. Solidale e contiguo alle classi subalterne, ai diseredati e agli umili, nutre in sé un senso dell’aristocrazia tipico di coloro che non vi sono nati. L’aristocrazia chez Gary non è una questione di sangue ma di cuore. In Cane bianco avrebbe scritto a proposito questa superba frase: «Je suis un de ces démocrates qui croient que le but de la démocratie est de faire accéder chaque homme à la noblesse» [85].

Ma ne Gli aquiloni emerge prepotentemente un’altra dialettica, quella dell’Illuminismo (presente proprio nelle immagini dei cerfs-volants), ovvero il duplice volto dei diritti umani: da un lato afflato universalistico per la libertà e l’eguaglianza, dall’altro velo che nasconde soprusi e violenze. La stessa umanità si dimostra capace, spesso al contempo, di grandi atti di eroismo e di ignobili scelte egoistiche. Gary ci ricorda che ciò che vi è di orribile nel nazismo è la sua disumanità, una disumanità che tuttavia fa parte dell’umano: se non riconosciamo che l’inumanità è cosa umana, resteremo sempre nella menzogna [86].

Nel suo breve testamento letterario, Vita e morte di Émile Ajar, pubblicato postumo per volontà dell’autore nel 1981, in cui confessa l’identità tra Gary e Ajar, oltre a fare i conti con la critica salottiera parigina, accusata di provincialismo e corporativismo, esplicita la sua vocazione per le identità multiple [87] e la sua idea di scrittura (e di vita) come metamorfosi [88].

Sebbene siano separati da quasi quarant’anni di trasmutazioni identitarie, il filo rosso che conduce Gary dal suo primo romanzo, Educazione europea, considerato da Jean-Paul Sartre il miglior libro sulla Resistenza francese [89], fino all’ultimo, Gli aquiloni, secondo Eshkol Nevo, il testo più pregevole di Gary, è rappresentato dalla questione etica della scelta, espressione esistenziale della lotta partigiana [90]. Nato dal progetto, mai condotto a termine, di narrare la storia dei compagni della Liberazione attraverso interviste ai protagonisti [91], il suo canto del cigno offre un omaggio alla Resistenza utilizzando l’immagine di grande poesia degli aquiloni – fragili e vulnerabili – che, sventolati da un vecchio postino anarchico e pacifista nei cieli della Francia ottenebrata dalla sconfitta e dall’occupazione tedesca, rappresentano essi stessi una forma di resistenza.

Per questo “gaullista di sinistra” – secondo un’etichetta quanto mai fuorviante per una personalità così inclassificabile e refrattaria a ogni collocazione – sono gli ideali di giustizia e libertà che si trasformano, per dirla con le parole del suo artefice, in una “vera e propria professione di fede”: sopra i boschetti normanni ripresero a fluttuare i Rabelais, i Pascal, gli Erasmo, i Montaigne e, la figura preferita dall’autore, quale immortale simbolo dei Lumi, Rousseau. I partigiani, narrati da un Gary particolarmente malinconico e disincantato che non ha perso tuttavia la fiducia nei confronti dei più giovani, hanno la certezza che la Resistenza non può prescindere dagli ideali umanistici che le forniscono un senso (la dignità, la libertà, l’educazione, la speranza) e che essa rappresenti una forma di riscatto esistenziale.


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Labouret Denis (2019), Notice, in Gary, Romain, Romans et récits, I, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, pp. 1669-1674

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Meccarelli, Massimo, Diritto e letteratura tra storia e memoria. Prime riflessioni a partire da due romanzi sulla transizione, in «LawArt. Rivista di Diritto, Arte, Storia», 1 (2020), pp. 207-223

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Sacotte, Mireille (2019), Chronologie, in Romain Gary, Romans et récits, I, Bibliothèque de la Pléiae, Paris, Gallimard, pp. LIX-LXXX

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Spire, Kerwin (2013), Comment vivre après Auschwitz? Romain Gary et l’écriture de l’après (1946-1956), in «Diasporas. Circulations, migrations, histoire», XXII, pp. 216-225

Tame, Peter (2007), La Nouvelle Europe de Romain Gary: Education européenne, in Apanavičius, Romualdas (dir.), Humanities in New Europe, Kaunas, Vytautas Magnus University, tome 2, pp. 27-33

Todorov, Tzvetan (2019), Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico (I ed. 2000), Milano, Garzanti

Vogliotti Massimo (2020), «Una lacrima nell’occhio della legge». Sul dubbio del giurista tra diritto e letteratura, in «Quaderno di storia del penale e della giustizia», 2, pp. 53-78

 


NOTE

[1] La stesura di questo saggio ha beneficiato del confronto con quattro lettori d’eccezione – Filippo Del Lucchese, Giuseppe Filippetta, Gabriele Pedullà, Massimo Vogliotti – ai quali va la mia profonda riconoscenza.

[2] In particolare, ma non esclusivamente, Educazione europea (1945), Le grand vestiaire (1948), Le radici del cielo (1956), La promessa dell’alba (1960) e Gli aquiloni (1980).

[3] Come spiegato dallo stesso Gary (1970), p. 277.

[4] Cfr. Sacotte/Labouret (2019); per una ricostruzione biografica esaustiva si vedano Bona (2001), Schoolcraft (2002) e, soprattutto, la monumentale opera di Anissimov (2006); interessanti cenni anche in Brokken (2014).

[5] Spire (2013).

[6] Si veda l’eccellente documentario di Kohly (2010).

[7] Come è evidente si tratta del condensato dei titoli di due romanzi di Stendhal, Lucien Leuwen e Henri Brulard; da notare che Gary aggiunge a quest’ultimo nome un accento circonflesso, per rimandare, come sempre, al fuoco.

[8] Boisdeffre (1967).

[9] Come ricordato da Lemaitre (2019).

[10] Cfr. il pregevole volume fotografico curato in maniera impeccabile da Decout (2019).

[11] Percorre con eleganza questo sentiero Meccarelli (2020).

[12] Si veda Larat (1999).

[13] Cavaglion (2021); su questo libro si veda la densa recensione di Bidussa (2021).

[14] «Ma vocation d’insoumis», Gary (1960), p. 620.

[15] Se si eccettua Le vin des morts, scritto nel 1933 a diciannove anni, firmato con il suo vero nome Roman Kacew, ma rimasto inedito fino al 2014; si veda l’edizione curata da Philippe Brenot, per i tipi di Gallimard; la genesi editoriale del libro è ripercorsa anche da Renterghem (2006).

[16] Per informazioni approfondite sull’origine del testo si veda sia il romanzo autobiografico La promesse de l’aube, sia le note a p. 1253 del I volume di Romans et récits.

[17] Come da lui stesso esplicitato: «Car il se trouve que ce roman de l’angoisse [Pseudo], de la panique d’un être jeun face à la vie devant lui, je l’écrivais depuis l’âge de vingt ans, l’abandonnant et le recommençant sans cesse, traînant des pages avec moi à travers guerre, vents, marées et continents, de la toute jeunesse à l’âge mur», Gary (1981), p. 1431.

[18] Così correttamente Greppi (2015).

[19] Schoolcraft (2007); si vedano anche gli atti del convegno parigino del 2014 a cura di Roumette/Schaffner/Simon (2018).

[20] Cfr. Costa (2020).

[21] Cfr. Tame (2007).

[22] Boisen (1994).

[23] Gary (1945), p. 39.

[24] In questi termini si veda l’analisi di Chiodi (2020).

[25] Gary (1945), p. 44.

[26] Gary (1945), pp. 106-107.

[27] Ci si riferisce ovviamente a Dworkin (1978).

[28] Gary (1945), p. 157.

[29] Una lettura critica è offerta da Gatti (2018).

[30] Psicologicamente incapace di disperare, si definiva in Gary (1970), p. 218.

[31] Gary (1945), p. 44.

[32] Gary (1945), p. 46.

[33] Gary (1945), p. 53.

[34] Gary (1945), p. 72.

[35] Gary (1946).

[36] Gary (1948).

[37] Sull’occupazione nazista in Francia, sul conflitto tra gli ex partigiani nel dopoguerra e in generale sullo scontro tra vigliaccheria di alcuni (molti) e coraggio di altri (pochi), è incentrata un’opera, Uranus di Marcel Aymé, pubblicata anch’essa nel 1948; sul punto si veda Lécureur (2001).

[38] In questa prospettiva si veda la lettura offerta nel libro di Todorov (2019), pp. 257 ss., testo, per altri aspetti, discutibile.

[39] Gary (1948), p. 168 (la traduzione è mia).

[40] Gary (1948), pp. 168-169.

[41] Così ha scritto in maniera suggestiva e convincente Spire (2013).

[42] Arrivando a sostenere la minore gravità del suo gesto poiché la maggioranza delle persone che aveva denunciato ai nazisti era ebrea, Gary (1948), p. 259.

[43] Gary (1948).

[44] Jelensky (1967), p. 9.

[45] Gary (1956), p. 408.

[46] Dzovinar (2004).

[47] Spire (2013).

[48] Sul tema ormai la letteratura è assai copiosa; per un’approfondita analisi e per un quadro di teoria del diritto si veda Brunet (2019).

[49] Gary (1956), p. 306.

[50] Gary (1956), p. 479.

[51] Da cui sono tratte le successive citazioni.

[52] Gary (1974), p. 734.

[53] Gary (2014), p. 100.

[54] Gary (1974), p. 102.

[55] Gary (1960), p. 670.

[56] Gary (1960), p. 755.

[57] Gary (1960), p. 621.

[58] «Moi l’apatride», così si definisce in un altro romanzo, Gary (1977), p. 1092.

[59] Armano (2015).

[60] Gary (1960), p. 722.

[61] Gary (1960), p. 722; sul suo sarcasmo e sul suo humour, a volte nero, si veda Roumette (2011).

[62] Gary (2014), p. 74.

[63] Bona (2001); Anissimov (2006).

[64] In Clair de femme, descrivendo due solitudini che si incontrano, scrive: «deux désespoirs qui se rencontrent, cela peut bien faire un espoir, mais cela prouve seulement que l’espoir est capable de tout», Gary (1977), p. 1084.

[65] Gary (1970), p. 329.

[66] Cfr. Roumette (2007).

[67] Gary (1970), p. 236; e più avanti, in termini ancora più espliciti, rincara la dose: «il n’est pas des Noirs aujourd’hui qui hésite à dire tranquillement que sa mère était une pute. La putain, dans ce cas, à été la société blanche», p. 251; ma la stessa critica è rivolta da un lato, con severità, al fanatismo di alcuni militanti del black power, da un altro, con ironia, alle star hollywoodiane, tra le quali anche sua moglie Jean Seberg, sostenitrici delle Black Panthers e di altri movimenti radicali, p. 293.

[68] In tal senso si veda il bel saggio di Vogliotti (2020).

[69] Sebbene il nome proprio, Pierre, compaia solo nel capitolo finale, rifiutato nella prima edizione e pubblicato nel 2007.

[70] Gary (1974), p. 795.

[71] La lotta all’ingiustizia continuerà in uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato sempre con lo pseudonimo di Ajar, L’angoscia del re Salomone, dove, dietro una riflessione sulla vecchiaia, si cela la lotta per la giustizia: l’anziano Salomon Rubinstein, sopravvissuto all’olocausto, e il suo giovane discepolo Jeannot sono lacerati da quell’angoscia che ogni essere sensibile prova di fronte alle ingiustizie; L’angoisse du roi Salomon non è inserito nella silloge della Bibliothèque de la Pléiade; si rimanda pertanto alla prima edizione francese del 1979.

[72] «Les lois de la nature, on est pas là pour les servir, c’est même tout le contraire», Gary (1974), p. 797; numerose ironiche critiche alle cosiddette leggi della natura le troviamo anche in Gary (1975).

[73] Gary (1980), p. 1226.

[74] Così Pedullà (2005), p. XII.

[75] «Plutôt que de lieux de mémoire, il vaudrait mieux parler de non-lieu de mémoire, au sens d’une utopie, un lieu magique qui n’existe nulle part, qui se saurait exister que dans l’imagination d’une France d’autrefois. […] Cléry est justement à inventer», Schoolcraft (2007), p. 147.

[76] Gary (1980), p. 1264.

[77] Così, elegantemente, Cavaglion (2021).

[78] Michon (1984).

[79] Gary (1980), p. 1170.

[80] Sul rapporto tra Resistenza francese e italiana, nella vasta bibliografia, molto utile e approfondito è il quadro storiografico tracciato da Dogliani (2006).

[81] Gary (1980), p. 1262.

[82] Gary (1975).

[83] Gary (1980), p. 1272.

[84] Sulla rinascita democratica in Francia e in Italia, in una prospettiva europea, si veda, da ultimo Guerrieri (2021).

[85] Gary (1970), pp. 274-275.

[86] «Ce qu’il y a d’affreux dans le nazisme, dit-on, c’est son côté inhumain. Oui. Mais il faut bien se rendre à l’évidence: ce côté inhumain fait parti de l’humain. Tant qu’on ne reconnaïtra pas que l’inhumanité c’est chose humain, on restera dans le mensonge pieux. […] Les nazis étaient humains. Et ce qu’il y avait d’humain en eux, c’était leur inhumanité», Gary (1980), pp. 1343 e 1352.

[87] «La vérité est que j’ai été très profondément atteint par la plus vieille tentation protéenne de l’homme: la multiplicité», Gary (1981), p. 1435; cfr. Labouret (2019).

[88] Come già ne Le grand vestiaire: «La vie […] c’est uniquement une question de camouflage», Gary (1948), p. 45 e in Gros-Câlin «La métamorphose est la plus belle chose qui me soit jamais arrivée», Gary (1974), p. 655.

[89] «Dans cent ans on pourra décider pour de bon […] si Éducation européenne était ou non le livre de la Résistance», Sartre (1945); ma fu apprezzato anche da Malraux, Aragon, Kessel, Camus. Cfr. Sacotte (2019), p. LXVII.

[90] Sul rapporto tra la “scelta” e la narrazione della Resistenza in Italia la letteratura è ormai ampia; si veda Pedullà (2005), pp. XXIV-XXXI e soprattutto Filippetta (2018).

[91] La vicenda è ricostruita minuziosamente da Schoolcraft (2007).