Attraverso gli stimoli offerti da alcuni film, l’articolo mette in discussione la retorica corrente che assegna alle donne di culture non occidentali il ruolo di vittime passive di pratiche patriarcali ed oppressive o, a seconda dei casi, di complici nella loro perpetuazione. Concentrandosi sulle azioni di resistenza e di resilienza delle protagoniste, evidenzia come la tensione tra una pluralità di norme giuridiche di diversa natura e origine – statale, religiosa o consuetudinaria – possa creare spazi di lotta per l’emancipazione. Riflette inoltre criticamente sul possibile ruolo delle norme (inter)nazionali in materia di diritti umani nel supportare o innescare spirali di mutamento culturale, sociale e, talvolta, anche giuridico.
The article takes its cue from some films to question the current rhetoric that assigns to women from non-Western cultures the role of either passive victims of patriarchal and oppressive practices or accomplices in their perpetuation. Focusing on the protagonists’ actions of resistance and resilience, it highlights how the tension between a plurality of legal norms of different nature and origin – state, religious or customary – can create spaces of struggle for emancipation. It also critically reflects on the possible role of (inter)national human rights norms in supporting or triggering spirals of cultural, social, and sometimes even legal change.
CONTENUTI CORRELATI: diritti delle donne - lotte per i diritti - interlegalità - cinema e genere - cinema e diritto - women - struggles for rights - interlegality - cinema and gender - cinema and the law
1. Introduzione - 2. Storie di resistenza e di resilienza attraverso lo schermo - 2.1. Diventare donne? Moolaadè e il rifiuto dell’escissione rituale - 2.2. Matrimoni senza scelta: spunti da La sposa bambina e Difret - 2.3. Divorzio e libertà: Viviane e l’odissea delle chained wives - 3. Donne che lottano: l’eccezione che conferma la regola? - 4. Donne al crocevia: l’interlegalità come spazio di lotta per l’emancipazione - 5. Fra tradizione e cambiamento: il ruolo dei diritti umani - Bibliografia - NOTE
L’intento di questo lavoro [1] è riflettere sulla condizione delle donne che vivono in paesi non occidentali [2] – “le Altre” – mediante gli stimoli offerti da alcuni film [3]. L’analisi si articola attraversando questioni complesse e controverse che da tempo sono oggetto di dibattito nella letteratura sul rapporto tra femminismi e multiculturalismi [4]; questioni quali, ad esempio, quella delle alterazioni rituali dei genitali femminili, efficacemente trattata nel film Moolaadé di Ousmane Sembene (2004); quella dei matrimoni forzati, in particolare dei child marriages e dei c.d. marriages by capture [5], al centro, rispettivamente, de La sposa bambina di Khadija Al Salami (2014) e di Difret di Zeresenay Berhane Mehari (2014); o quella dell’asimmetria di poteri e di diritti tra uomini e donne nell’accesso al divorzio religioso e della difficile condizione delle c.d. chained wives, magistralmente rappresentata dal film Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz (2014) (§ 2.).
Per quanto siano eterogenei sotto il profilo delle storie che raccontano, delle questioni che affrontano e dei contesti a cui si riferiscono [6], i film qui richiamati hanno due importanti elementi in comune: in primo luogo, parlano tutti di donne che agiscono all’interno di universi giuridici complessi, al crocevia tra norme di diversa natura e origine; in secondo luogo, offrono esempi di “straordinarie donne comuni” impegnate, ognuna a suo modo, nella lotta per l’emancipazione (di se stesse e/o di altre donne) da contesti discriminatori e pratiche vulnerabilizzanti. Per questo, concentrandosi sulle azioni di resistenza e di resilienza delle protagoniste, si intende innanzitutto problematizzare la retorica che assegna alle “Altre” il ruolo di vittime passive di pratiche patriarcali ed oppressive o, a seconda dei casi, quello di complici colpevoli nella loro perpetuazione (§ 3). Attraverso gli spunti offerti da questi film, si vuole inoltre evidenziare come la tensione tra una pluralità di norme giuridiche di diversa natura e origine – statale, religiosa o consuetudinaria – possa creare spazi di lotta per l’emancipazione (§ 4). Si prova, infine, a riflettere criticamente sul possibile ruolo delle norme (inter)nazionali in materia di diritti umani nel supportare o innescare spirali di mutamento culturale, sociale e, talvolta, anche giuridico (§ 5).
È importante chiarire fin da subito che tutta la riflessione che segue presuppone una nozione ampia di diritto, svincolata non solo dalla sovranità statale ma anche, più in generale, dal concetto kelseniano di ordinamento giuridico [7]. Penso, in particolare, alla nozione proposta e presupposta da Boaventura de Sousa Santos nella sua analisi dell’interlegalità (concetto sul quale fanno perno i §§ 4 e 5 di questo lavoro). Santos intende infatti il diritto come
In questa prospettiva, norme di natura consuetudinaria (come, ad esempio, le norme tribali di alcune comunità africane o mediorientali) e norme di origine religiosa (come, ad esempio, la sharia) sono considerate giuridiche in senso pieno, al pari di quelle statali o internazionali [9].
È opportuno precisare, inoltre, che dei film richiamati non si intende proporre una critica cinematografica, quanto piuttosto sfruttare la capacità evocativa per restituire, plasticamente, un’immagine “viva” della complessità delle esperienze di resistenza e di resilienza delle “Altre” e del ruolo che il diritto può svolgere in queste esperienze. La scelta di affrontare temi così complessi e controversi attraverso pillole cinematografiche si radica infatti nella convinzione che «con l’arte si può esprimere il turbamento di una società che neppure l’analisi sociologica o politologica più documentata possono riuscire a descrivere» [10]. Offrendo un contesto al diritto [11], infatti, il cinema consente di cogliere quelle implicazioni culturali, religiose e sociali dei conflitti giuridici che non sempre un’analisi teorica astratta può cogliere e considerare adeguatamente.
A partire dal celebre articolo del 1997 di Susan Okin [12], la domanda se il rispetto delle tradizioni culturali non occidentali sia «un male per le donne», ha animato un acceso dibattito, suscitando controversie che ancora non accennano a trovare una composizione. Molti degli argomenti addotti dai critici del multiculturalismo hanno infatti a che vedere con tradizioni e pratiche lesive dei diritti delle donne e delle bambine: tra queste, come si è anticipato, le alterazioni rituali dei genitali femminili (§ 2.1), le violazioni della libertà di scegliere se, quando e con chi sposarsi (§ 2.2) e la difficoltà ad ottenere il rispetto della propria volontà di divorziare (§ 2.3).
Quella delle alterazioni rituali dei genitali femminili è senza dubbio una delle questioni che ha ricevuto maggiore attenzione a livello internazionale, non solo nei dibattiti filosofici ma anche da parte di ong e istituzioni [13].
Sotto il profilo antropologico, si tratta di un classico rito di passaggio – più precisamente, un rito di iniziazione – che si inserisce in una complessa rete di significati e di costumi legati al matrimonio [14]. Da un lato, “trasforma” le bambine in donne, legittimandone l’identità di genere, e ne segna l’appartenenza comunitaria. Dall’altro, rappresenta uno strumento potente di controllo della sessualità femminile, concepito per garantire la verginità delle ragazze prima del matrimonio e, più in generale, la castità delle donne [15]. Al netto del loro significato simbolico – che comunque non va sottovalutato, sia perché spiega le difficoltà nello sradicare la pratica sia perché è strumentale a mantenere le donne in una posizione di subordinazione e di oppressione – le forme più gravi di alterazione rituale dei genitali femminili (dall’escissione all’infibulazione) sono considerate dalla comunità internazionale vere e proprie forme di mutilazione: comportano, infatti, lesioni severe e permanenti dell’integrità fisica delle bambine e delle donne [16].
Il film Moolaadé è un ottimo strumento per riflettere su questo tema [17]. In un villaggio del Burkina Faso è in corso il rito della «purificazione» (salindé), durante il quale alcune bambine saranno sottoposte alla pratica dell’escissione [18]: si tratta di un passaggio essenziale della loro vita, necessario se vogliono trovare marito (come si afferma nel corso del film, infatti, «nessun uomo ha mai sposato una bilakoro», ovvero una donna “non purificata”). Sei bambine sfuggono però alle salindana (le donne incaricate di perpetuare la tradizione della “purificazione”): due di loro verranno ritrovate morte pochi giorni dopo in fondo ad un pozzo, mentre le altre quattro riescono a rifugiarsi da Collé Ardo: l’unica donna del villaggio ad essersi rifiutata, qualche anno prima, di far “tagliare” [19] la figlia Amsatou [20]. «Non vogliamo essere tegliate!», gridano le bambine, e Collè decide di accoglierle e di concedere loro protezione secondo la tradizione del moolaadé. Tende quindi una corda colorata sulla soglia del cortile della sua abitazione, dove vive con le altre due mogli di suo marito [21]: da quel momento fino alla fine del moolaadé le bambine non potranno uscire e le salindana non potranno entrare.
La decisione di Collé getta il villaggio nello scompiglio: le salindana, preoccupate della minaccia al proprio potere, si rivolgono al capo del villaggio e agli anziani chiedendo loro di risolvere la situazione. Ma lo spirito del moolaadé è vendicativo e non deve essere provocato: solo Collé può porre fine a tutto pronunciando la parola (mai menzionata nel film) che interrompe la protezione. Gli uomini cercano quindi di fare pressione sul marito di Collé, un uomo di indole mite e tollerante, perché eserciti la propria autorità e la costringa a pronunciare quella parola, con la frusta se necessario. Tuttavia, non solo le frustate infertele nella piazza del villaggio non piegano Collé, ma la sua resistenza scuote altre donne, imprimendo una svolta all’intera vicenda.
Il moolaadé, nel frattempo, è stato interrotto: mentre Collé veniva frustata, infatti, la madre di una delle bambine da lei protette riesce a portare la propria figlia dalle salindana. La bambina, però, muore per le ferite infertele durante l’escissione e anche questa tragedia, unita a quella delle altre due bambine trovate morte nel pozzo, contribuisce ad unire le donne del villaggio – dapprima divise – contro la pratica dell’escissione: «Nessuna bambina sarà mai più mutilata!», gridano all’indirizzo degli uomini schierati dall’altra parte della piazza, mentre costringono le salindana a gettare i coltelli. Nel mezzo, a dividere anche simbolicamente le donne dagli uomini, arde il rogo delle radio che questi ultimi hanno sequestrato in tutto il villaggio, per sottrarre le “loro” donne ai condizionamenti esterni che le avrebbero, a loro avviso, istigate a rivoltarsi contro la tradizione.
Anche il tema dei matrimoni forzati sta divenendo oggetto di crescente attenzione non solo a livello internazionale ma anche nella legislazione di diversi stati [22]. Tra gli aspetti più delicati e controversi c’è indubbiamente la difficoltà di distinguerli dai “semplici” matrimoni combinati. La pratica dei matrimoni combinati è infatti diffusa in molte culture – non a caso è un tema che ritorna, in primo piano o sullo sfondo, in diversi film [23] – e, apparentemente, l’intervento della famiglia nella decisione in merito a chi una donna (o un uomo [24]) debba sposare potrebbe non essere problematico, qualora tutto avvenisse con il consenso degli sposi. Tuttavia, è difficile stabilire quando tale consenso ci sia e, soprattutto, quando si possa considerare davvero libero. Più in generale, si potrebbe obiettare che attribuire eccessiva centralità al consenso è in realtà problematico, perché prescinde da un’attenta considerazione delle condizioni e del contesto nel quale le persone decidono e agiscono [25]. Per queste ragioni, non è azzardato dire che la linea di demarcazione tra matrimoni combinati e matrimoni forzati si rivela, in ultima analisi, a dir poco sfumata e labile.
Il film La promessa sposa di Rama Burshtein (2012) mostra benissimo, ad esempio, come la volontà di compiacere la propria famiglia possa arrivare addirittura a modificare la percezione che una ragazza ha dei propri desideri. Ambientato a Tel Aviv in epoca contemporanea, il film racconta l’evoluzione della volontà di Shira, figlia minore di una famiglia ebrea ortodossa, di sposare il cognato Yochay dopo che sua moglie – cioè la sorella maggiore di Shira stessa – è morta di parto. La madre di Shira è infatti preoccupata che, se il genero si risposasse con un’altra donna, lei potrebbe perdere il nipote; fa quindi pressioni perché sia la figlia minore a prendere il posto della sorella. La ragazza, appena diciottenne, vive inizialmente con profondo disagio l’idea di sposare il cognato, di diversi anni più vecchio. Alla fine, tuttavia, si rassegna: «C’è un compito da svolgere e vorrei che tutti fossero soddisfatti», dice al rabbino che dovrà esprimersi sul suo matrimonio con Yochay. Apparentemente, i sentimenti di Shira hanno un peso per la comunità: il rabbino, infatti, si rifiuta in un primo momento di avallare il matrimonio perché le motivazioni di Shira – compiacere la famiglia – non sembrano quelle giuste. Ma proprio qui inizia il percorso psicologico che porta la protagonista a rimettere in discussione i suoi stessi desideri, fino a quando il matrimonio, in effetti, sarà celebrato.
Accertare l’esistenza di un consenso libero può essere quindi molto difficile. Non c’è dubbio, però, che si possa parlare di matrimoni forzati in almeno due casi: quando la sposa è così giovane da non poter dare un valido consenso rispetto alle scelte dei genitori (sebbene ci si dovrebbe forse chiedere: valido in relazione a quale sistema di norme?) e quando per indurre la donna al matrimonio si ricorre alla violenza. Sfortunatamente, in molti casi le due condizioni si sommano.
Per riflettere sul tema dei matrimoni forzati si rivelano di grande interesse due film, entrambi tratti da vicende realmente accadute: La sposa bambina [26] e Difret [27].
Il primo racconta la storia di Nojood Ali, una bambina yemenita di soli dieci anni che è riuscita ad ottenere il divorzio dopo essere stata concessa in sposa dal padre ad un uomo di trent’anni. Nojood, nasce e vive i primi anni della propria infanzia in un villaggio sulle montagne dello Yemen. Dopo che la sorella maggiore viene violentata, il padre si sente costretto dal disonore a vendere tutto quello che ha e a lasciare il villaggio per trasferirsi a San’a’ con la famiglia (le due mogli e i rispettivi figli). Ma in città la vita è costosa, il lavoro è difficile da trovare e la famiglia si ritrova in gravi ristrettezze economiche, al punto che i bambini e le donne sono costretti a mendicare. Il padre decide quindi di concedere Nojood in sposa ad un uomo di un altro villaggio, pensando in questo modo di poter raggiungere un duplice obiettivo: evitare il ripetersi di quanto avvenuto alla figlia maggiore e alleviare le difficoltà economiche della propria famiglia (ricevendo il dono di nozze [28] di Nojood e non dovendola più mantenere).
Nojood è ancora una bambina: mentre le donne della sua famiglia celebrano i festeggiamenti per il suo matrimonio insieme alle vicine di casa, prima che lei parta con il marito [29], esce di nascosto per giocare con le amiche, vende l’anello nuziale e con il ricavato compra una bambola, che stringe ancora al petto durante la prima notte di nozze. Ciò nonostante, e a dispetto di quanto chiestogli dal suocero, suo marito non attende che lei raggiunga la pubertà per consumare il matrimonio: di notte, la costringe a rapporti sessuali vincendo con le botte la sua resistenza disperata e, durante il giorno, la manda a lavorare nei campi o la lascia a fare da serva all’anziana madre. Nojood però non si rassegna, piange, lotta, si ribella, minaccia di buttarsi dalla rupe del villaggio, sbatte ripetutamente la testa contro una parete fino a perdere i sensi… finché un giorno il marito, esasperato, decide di riportarla dalla sua famiglia a San’a’, affinché suo padre la faccia ragionare. Nojood spera di trovare aiuto nei genitori ma le sue speranze restano deluse: è sposata, ora, e deve onorare le proprie responsabilità di moglie. Così scappa e riesce a raggiungere un tribunale statale, dove avvicina un giovane giudice per chiedere il divorzio.
Sconcertato e incredulo, il giudice – la cui figlia ha solo tre anni in più di Nojood – la porta a casa con sé per il fine settimana in attesa del processo, anche se in realtà non sa bene che fare: la legge dello Yemen, infatti, non fissa un’età minima per il matrimonio. Il lunedì mattina, Nojood conduce la polizia a casa della sua famiglia, dove suo padre e suo marito vengono tratti in arresto. A questo punto, nell’aula del tribunale, si incontrano e si scontrano tre universi giuridici: ordinamento statale, norme consuetudinarie tribali e sharia. In particolare, da un lato, la forza della tradizione irrompe nell’aula con un manipolo di uomini armati guidati dallo sceicco del villaggio del marito di Nojood; dall’altro, un giudice statale quasi impotente cerca di esercitare più che altro una qualche forma di persuasione, e solo appellandosi alla sharia riesce, infine, a persuadere lo sceicco ad ordinare al marito di Nojood di concederle il divorzio.
Sebbene in relazione ad una situazione molto diversa, un altro film utile a riflettere sul tema dei matrimoni forzati è Difret, che ripercorre le vicende (processuali e non solo) di una ragazza etiope accusata di omicidio per aver ucciso il proprio aspirante marito nel corso di un rituale di matrimonio per ratto (marriage by capture). Hirut Assefa, 14 anni, vive con la famiglia in un villaggio a tre ore da Addis Abeba. Va a scuola ed è felice di farlo; ma proprio nel giorno in cui il maestro le comunica che sarà ammessa alla classe superiore, mentre corre a casa euforica con i suoi quaderni, viene circondata da sette uomini armati a cavallo che la rapiscono e la segregano in una capanna. Durante la notte, uno di questi uomini la costringe ad un rapporto sessuale: è Tadele, colui che vuole sposarla e che, dopo averla chiesta in moglie senza esito al padre, ha deciso di seguire l’antica tradizione del matrimonio per ratto, profondamente radicata nel suo villaggio e diffusa in molte parti dell’Etiopia. L’indomani mattina, approfittando di un momento di distrazione dei suoi rapitori, Hirut riesce a prendere un fucile e a scappare. Gli uomini la inseguono e lei, di nuovo braccata, punta il fucile contro Tadele, lo avverte inutilmente di fermarsi e infine gli spara, uccidendolo. Mentre i suoi complici tentano di vendicarlo, arrivano due guardie che salvano Hirut dal linciaggio e la consegnano alla polizia. Ma il suo destino sembra segnato: ha ucciso un uomo e dovrà pagare per questo.
Mentre Hirut è trattenuta in arresto nella prigione locale, la notizia di questi fatti giunge a conoscenza di Meaza Ashenafi, una giovane avvocata che tramite l’associazione Andenet offre assistenza legale gratuita alle donne che non se la possono permettere [30]. Meaza intende far assolvere Hirut dimostrando che ha agito per legittima difesa: ne chiede e ottiene l’affidamento (non senza difficoltà) e la porta con sé ad Addis Abeba, ma il percorso si prospetta difficile. Di nuovo, due universi giuridici, due giustizie, entrano in contatto e si condizionano reciprocamente. Da un lato, c’è il consiglio degli anziani del villaggio, che bandisce per sempre Hirut dal villaggio e condanna suo padre a pagare al padre di Tadele una somma di denaro in compensazione del sangue versato. Dall’altro lato c’è lo stato etiope, che non solo deve giudicare le azioni di Hirut sotto il profilo penale, ma è anche chiamato da Meaza Ashenafi a revocare la decisione tribale che ha bandito Hirut dal villaggio. Alla fine, la battaglia giudiziaria viene vinta sul fronte penale: il tribunale statale riconosce che Hirut ha agito per legittima difesa e la assolve. Ma è una vittoria soltanto parziale perché, in ogni caso, lei non può tornare a casa, dove la famiglia e gli amici di Tadele ancora l’aspettano per ucciderla. E a Meaza che, all’uscita del tribunale, le chiede «Perché piangi? Abbiamo vinto», Hirut risponde «Non sento di aver vinto nulla. Non posso nemmeno proteggere mia sorella [minore]. Le faranno la stessa cosa che hanno fatto a me. Non vede? Non posso salvarla».
La volontà della donna può essere sottoposta a coercizione non solo costringendola a sposarsi ma anche impedendole di porre fine ad un matrimonio non (più) voluto. Particolarmente problematiche, a questo proposito, sono le leggi religiose islamiche [31] ed ebraiche [32] in materia di divorzio, per il loro carattere discriminatorio nei confronti delle donne – nel cristianesimo il divorzio semplicemente non è ammesso in alcun caso. In particolare, l’asimmetria di poteri e di diritti tra donne e uomini è tale che un marito può, negando il proprio consenso al divorzio, impedire alla moglie di andare avanti con la propria vita (ed eventualmente risposarsi) in conformità alle regole della propria comunità religiosa, intrappolandola così nel loro matrimonio e incatenandola a sé contro la sua volontà.
La questione delle c.d. chained wives è estremamente delicata e non può essere liquidata semplicemente rinviando alle norme statali in materia di divorzio: non sempre, infatti, è prevista la possibilità di un matrimonio civile distinto da quello religioso (è questo il caso ad esempio, come si dirà a breve, di Israele); o, quando pure questa possibilità è prevista, alcune coppie si sposano comunque solo religiosamente (come spesso accade, ad esempio, per le persone immigrate in un paese occidentale) [33]. D’altra parte, in tutti i casi in cui i tribunali statali non hanno giurisdizione sul matrimonio religioso, il divorzio civile non sarebbe comunque sufficiente a fare delle chained wives delle donne libere agli occhi della loro comunità [34]. I tribunali religiosi rappresentano quindi, per queste donne, l’unica possibilità di affrancarsi da un matrimonio che le opprime [35]. Ma, anche così, non sempre è facile per loro ottenere quello che vogliono: all’interno di questi tribunali, infatti, possono andare incontro a forme ambigue di mediazione e a pratiche dilatorie volte a ritardare il più possibile il divorzio nel tentativo di convincerle a riconciliarsi col marito.
In particolare, delle difficoltà con le quali si confrontano le donne musulmane che vogliono ottenere il divorzio religioso in assenza del consenso del marito – tanto in paesi in cui i musulmani sono una minoranza quanto nei paesi a maggioranza islamica – ci si può fare un’idea attraverso documentari come Divorce Sharia Style [36] (relativo all’attività dell’Islamic Sharia Council in Inghilterra) o, rispettivamente, Divorce Iranian Style [37]. Rispetto invece agli ostacoli con i quali possono scontrarsi le aguna (termine ebraico per le chained wives) nei tribunali rabbinici, è di straordinaria efficacia il film Viviane [38].
Ambientato nello stato di Israele in epoca contemporanea, Viviane è quello tra i film fin qui richiamati che, per eccellenza, rientra nella categoria del courtroom drama: l’intera vicenda si svolge infatti all’interno dell’aula (e della sala di attesa) di un tribunale rabbinico, nel corso della causa avviata da Viviane Amsalem per divorziare dal marito Elisha. Viviane si è sposata con Elisha quando aveva soltanto quindici anni (un matrimonio combinato secondo la tradizione, pare di capire) e la loro vita insieme è stata sin da subito difficile, fonte di infelicità per entrambi. Dopo 30 anni, decide finalmente di andarsene: si trasferisce a vivere con il fratello e la cognata e chiede il divorzio a Elisha, che però per ben tre anni si rifiuta di concederglielo. Si rivolge allora al tribunale rabbinico, sperando così di poter ottenere presto il divorzio, ma inizia invece una causa interminabile, a tratti surreale, che durerà cinque anni, udienza dopo udienza, rinvio dopo rinvio, a causa dell’ostruzionismo del marito e dell’atteggiamento ambiguo dei rabbini che compongono il tribunale.
Per comprendere il contesto in cui si colloca la vicenda, è necessario ricordare che, in Israele, matrimonio e divorzio non sono disciplinati dal diritto statale e si applicano alle diverse comunità le loro particolari norme religiose [39]. I tribunali rabbinici hanno inoltre competenza esclusiva per le comunità ebraiche in relazione alla regolarità del divorzio e alle azioni per richiederlo [40]: il tribunale al quale Viviane si rivolge è quindi la sola autorità che possa aiutarla. Ora, sebbene i tribunali rabbinici non possano sostituirsi ai coniugi nello sciogliere il matrimonio ma solo accertare l’esistenza di una causa di divorzio, possono tuttavia decretare la sussistenza di un obbligo, in capo al marito, di concedere il divorzio o, in capo alla moglie, di accettarlo. In ipotesi estremamente gravi, inoltre, possono addirittura costringere il marito a concedere il divorzio; tuttavia, questi tribunali tendono ad agire con estrema cautela nel ricorrere a forme di coercizione della volontà del marito che rischiano di rendere il divorzio invalido [41].
Ecco così spiegata l’estenuante odissea che Viviane deve affrontare in un processo nel quale tutta l’attenzione del tribunale sembra essere concentrata sul rispetto della volontà del marito; un marito che non solo rifiuta ostinatamente di concedere il divorzio ma che, in più occasioni, nemmeno si presenta alle udienze, provocando continui rinvii e infiniti ritardi. L’unica attenzione rivolta alla moglie è quella finalizzata ad accertare: a) la moralità della sua condotta negli anni in cui ha vissuto lontano dal marito (con chi ha vissuto, chi l’ha mantenuta, se ha continuato a prendersi cura dei figli, se ha commesso adulterio); e b) se sussista una causa di divorzio tra quelle previste dal diritto ebraico (se il marito era violento con lei, se ha mancato di provvedere ai suoi bisogni, se le è stato infedele, se ha difetti fisici che le provocano disgusto, se l’ha minacciata e la sua vita è in pericolo…). Ad accertare questo servono le testimonianze raccolte e l’audizione dei coniugi; sebbene vada sottolineato che si cominciano a sentire i testimoni solo a partire da due anni dopo l’inizio del processo, e comunque non prima di aver indotto Viviane, per ben due volte, a tornare a vivere con il marito per cercare di salvare l’«armonia domestica».
Elisha, in ogni caso, continua ostinatamente a rifiutarsi di concedere il divorzio, anche quando, dopo anni di causa, il tribunale rabbinico decreta finalmente che ha l’obbligo di farlo; e, anche di fronte a questo suo ennesimo rifiuto, i rabbini non si decidono a costringerlo ma si limitano, invece, a rimandare tutti a casa: «Tornate con una soluzione o non tornate affatto!» [42]. Solo quando Viviane gli prometterà, in privato, che non avrà più nessun altro uomo, Elisha le darà, finalmente, il divorzio.
Collé e le sue protette, Hirut e Meaza, Nojood, Viviane sono bambine e donne che lottano, resistono, si ribellano a pratiche e costumi patriarcali che ne violentano il corpo e la volontà. Le loro storie colpiscono perché queste bambine e queste donne rompono gli schemi: non sono le vittime passive che alcune retoriche paternaliste – superstiti politicamente corrette della dottrina colonialista del white man’s burden? – indicano come i soggetti vulnerabili da salvare; né tantomeno sono le complici colpevoli di cui parla Okin nel suo già richiamato articolo, là dove denuncia che, in molte culture, gli uomini controllano le donne più giovani «con l’intermediazione, o con la complicità, di donne più anziane», e che queste ultime «sono spesso cooptate per avvalorare la disuguaglianza di genere» [43].
Ma le donne che lottano sono davvero l’eccezione che conferma la regola?
Ad un primo sguardo, i personaggi femminili secondari dei film presi in esame sembrano confermare i modelli contrapposti delle vittime, da una parte, e delle complici, dall’altra. In ciascuna situazione, infatti, si possono individuare donne che subiscono passivamente la tradizione adattandosi ad essa o che, rispettivamente, la difendono attivamente.
Nella prima categoria si possono includere, ad esempio, la madre di Hirut in Difret, o Dona Aboukassis (una vicina di casa dei coniugi Amsalem) in Viviane. La prima dice infatti a Meaza Ashenafi, che le sta chiedendo il permesso di assumere la difesa di Hirut: «è colpa di suo padre, ha insistito perché andasse a scuola… non sarebbe successo nulla se fosse rimasta a casa ad aiutare la sua famiglia, come me da piccola». Dal canto suo, poi, anche Dona Aboukassis ha indubbiamente optato per l’accettazione del ruolo che la sua cultura le assegna in quanto donna. Entrando nell’aula del tribunale, esordisce infatti chiedendo che il marito – che ha appena concluso la propria testimonianza – possa rimanere in aula con lei: «senza di lui non faccio niente», dice. Dona sembra inoltre intimorita, quasi intimidita, dal marito, che anticipa – e così guida – le sue risposte. All’avvocato di Viviane che le chiede cosa, secondo lei, renda felice il suo matrimonio, lei risponde: «Secondo me, ognuno ha il suo ruolo […] io faccio quello che devo fare, tutto qui». E aggiunge, tra le lacrime:
Tra le donne che difendono attivamente la tradizione si possono invece includere, ad esempio, la suocera di Nojood ne La sposa bambina, così come, in Moolaadé, non solo le salindana ma anche le madri delle bambine protette da Collé (in particolare, quella tra loro che prende con l’inganno la propria figlia perché le sia praticata l’escissione). In queste figure femminili, sembrano trovare conferma alcune delle spiegazioni fornite da Okin riguardo alla minor propensione al cambiamento da parte delle donne più anziane. In particolare, il comportamento della suocera di Nojood rispecchia la considerazione secondo la quale «in alcune culture, la principale esperienza di potere che una donna possa acquisire quando invecchia è il potere sulle nuore» [44]. Quanto alle salindana, d’altra parte, è evidente come la loro posizione sociale dipenda proprio dal fatto di essere custodi della tradizione, perché è il rito della «purificazione» a conferire loro quel potere che la resistenza di Collé minaccia.
Ad uno sguardo più attento, tuttavia, questi film aiutano anche a sfumare gli accenti e a confondere i contorni della dicotomia “vittime sottomesse v. complici colpevoli”, mostrando tutta la complessità degli universi femminili presenti all’interno di ogni cultura. Non solo, infatti, come si è detto, questa dicotomia non consente di render conto delle azioni di lotta, di resistenza e di resilienza delle protagoniste, ma non descrive nemmeno in modo preciso e univoco la maggior parte delle altre donne che svolgono un qualche ruolo in questi film. Alcune di loro, infatti, vanno incontro ad un cambiamento che ne modifica l’atteggiamento e il comportamento: così, ad esempio, le madri delle bambine protette da Collé e le altre donne del villaggio, che all’inizio accusano e insultano Collé («Vuoi che le nostre figlie siano bilakoro come Amsatou?»; «Chi te le ha affidate?»; «Durante la nostra escissione tu sei stata l’unica a piangere, e te la sei anche fatta addosso») ma poi finiscono col far propria la sua lotta contro l’escissione. Altre donne, inoltre, presentano sfumature e contraddizioni. Si pensi, ad esempio, a Dona Aboukassis, la cui indole tendenzialmente remissiva e sottomessa non le impedisce di portare a termine la propria testimonianza anche quando suo marito, resosi conto che la situazione stava prendendo una piega imprevista e sfavorevole ad Elisha [45], le chiede insistentemente di tacere e di andar via con lui. Non è forse anche questo, nel suo piccolo, un gesto di ribellione?
I film richiamati mostrano quindi che, così come non tutte le (giovani) donne sono sottomesse alle tradizioni, non tutte le donne (più mature) sono asservite alla loro conservazione. Ma soprattutto, mostrano come il coraggio di chi si ribella alle tradizioni possa scuotere tanto coloro che le subivano passivamente quanto coloro che contribuivano attivamente a mantenerle in vita.
Nelle lotte per l’emancipazione condotte dalle protagoniste, il diritto svolge un ruolo importante. Le loro vicende si dipanano tutte, infatti, all’intersezione tra una pluralità di norme giuridiche di diversa natura e origine – statale, religiosa, consuetudinaria – che talvolta confliggono e talvolta, invece, si sovrappongono e si confondono. Il contesto giuridico di queste vicende consiste, in altre parole, in ciò che in letteratura è sempre più diffusamente conosciuto come interlegalità [46]. A quali norme e istituzioni le parti contrapposte si appellano, e quali invece contestano, dipende dall’obiettivo che si prefiggono: del resto, il forum shopping è uno dei tratti caratterizzanti dei contesti di interlegalità. Ma, in ogni caso, è spesso dalla tensione tra diverse norme ed istituzioni che si sprigiona l’energia necessaria a produrre il cambiamento.
Per comprendere la complessità giuridica delle vicende oggetto dei film presi in esame, quindi, il diritto non può e non deve essere inteso restrittivamente, soltanto come emanazione diretta o indiretta della sovranità statale. Talvolta, anzi, il diritto statale spicca proprio per la sua “assenza”. Così ad esempio in Viviane, dal momento che, come si è detto, sono le leggi ebraiche, e non quelle dello stato, a regolare matrimonio e divorzio in Israele. Così anche ne La sposa bambina, dove il giudice non trova sostegno nel diritto statale per annullare il matrimonio precoce di Nojood. E così, infine, in maniera ancora più eclatante, in Moolaadé, dove il diritto e le istituzioni statali non entrano mai in campo, in alcun modo. Inoltre, anche quando lo stato gioca un ruolo importante, come in Difret, non è detto che questo ruolo non presenti ombre e ambiguità, come si vedrà a breve.
In ciascuno di questi film ci sono momenti in cui la questione dell’interlegalità viene in primo piano.
In Moolaadé, ad esempio, la scena più rilevante a questo proposito è senza dubbio quella in cui, durante il consiglio degli anziani convocato dalle salindana, si discute di quale tradizione – il moolaadé o la “purificazione” – sia più antica e debba prevalere. Alle salindana che si lamentano di non poter prendere le bambine protette da Collé, uno degli anziani replica infatti raccontando le lontane origini del moolaadé, che precede la conversione del loro popolo all’Islam, e conclude perentoriamente: «Nessuno può violare il moolaadé. […] Se Collé Ardo non pronuncerà la parola, nessuno potrà portare via le bambine da casa sua». Mi pare tuttavia interessante menzionare almeno un altro passaggio di questo film, la cui rilevanza è centrale in relazione alla questione, importante, del rapporto tra sharia e norme consuetudinarie: spesso, infatti, si cerca (inconsapevolmente) di rafforzare l’autorevolezza di una norma riconducendo alla sharia ciò che in realtà è frutto di una consuetudine affermatesi in un determinato contesto culturale [47]. Mostrare l’erronea natura di questa sovrapposizione può allora rivelarsi la chiave per contestare o delegittimare rivendicazioni altrui. È quanto avviene quando uno degli anziani ricorda con rimprovero a Collé che l’escissione è una tradizione indicata dall’Islam, e lei controbatte con fermezza: «La purificazione non è richiesta dall’Islam. Il Grande Imam ha detto alla radio che ogni anno milioni di donne vanno in pellegrinaggio alla Mecca, ma non tutte sono state mutilate».
In Difret, d’altra parte, al centro della scena c’è la difficile interazione e la reciproca influenza tra ordinamento statale e ordini tribali; una tensione che emerge sia nella decisione del consiglio degli anziani di bandire Hirut dal villaggio, sia in relazione alla causa intentata da Meaza contro il Ministero della Giustizia per chiedere che tale decisione venga revocata. Da un lato, infatti, il consiglio degli anziani si trova a giudicare Hirut in una situazione inusuale: le norme consuetudinarie imporrebbero che venisse uccisa e seppellita con il suo aspirante marito ma, dal momento che lei è in custodia ad Addis Abeba, questo non è possibile. Per questo gli anziani decidono di bandirla per sempre dal villaggio – con grande disappunto del padre di Tadele, che giura di vendicare da sé la morte del figlio. Dall’altro lato, però, anche lo stato subisce condizionamenti dalla presenza degli ordini tribali, nelle cui leggi tradizionali tende a non intromettersi. Quando infatti Meaza si rivolge dapprima al sostituto procuratore e poi al Ministro della Giustizia per chiedere di revocare la decisione del consiglio degli anziani, riceve da entrambi un secco no. E quando, decisa a portare il Ministro di fronte alla Corte suprema, chiede consiglio sul da farsi al suo mentore (un ex giudice in pensione), questi la sconsiglia, dicendo:
Le preoccupazioni del vecchio mentore, del resto, non sono infondate: in risposta all’iniziativa di Meaza, infatti, il Ministro della Giustizia revoca la licenza alla sua associazione (che potrà tornare ad operare solo dopo che il Ministro sarà costretto a dimettersi a causa dello scandalo provocato dalla risonanza mediatica della vicenda).
Anche ne La sposa bambina la situazione si rivela complessa, come spiega il giudice a Nojood subito dopo aver ascoltato la sua storia: «Il tuo caso è difficile non so cosa può venirne fuori… tante si sposano giovani, è vero, ma nessuna si era mai presentata a chiedere di divorziare. Ci sono di mezzo le tradizioni, l’onore della famiglia… È un caso complicato». In particolare, è alle tradizioni – ancora una volta, sovrapposte e confuse con la sharia – che si appellano il padre e il marito di Nojood, e sono le tradizioni ciò di cui si fa minacciosamente difensore lo sceicco quando irrompe nell’aula del tribunale urlando contro il giudice:
Ma il giudice non contrappone a questa dimostrazione di forza altrettanta forza, bensì parole di persuasione; parole che, di fatto, implicitamente riconoscono al tempo stesso l’autorità dello sceicco e la propria assenza di autorità nel decidere il caso: come si è anticipato (§ 2.2), infatti, non è alla legge statale che si richiama il giudice nel proprio discorso, ma alla (propria interpretazione della) sharia:
Ed è a questo punto che lo sceicco intima al marito di Nojood di divorziare da lei e che quest’ultimo (con una certa ritrosia) adempie l’ordine [48], mentre la Corte si limita di fatto ad attestare l’avvenuto divorzio. Di nuovo, inoltre, come si è già visto in relazione a Moolaadé, la critica alle norme consuetudinarie passa anche attraverso la loro dissociazione dalle leggi religiose: il giudice rimprovera infatti al padre e al marito di Nojood – che si difendono sostenendo che il matrimonio è stato celebrato secondo la Sunna del Profeta – la loro ignoranza di ciò che la sharia in effetti stabilisce.
Per concludere, solo una considerazione su Viviane. Si potrebbe forse obiettare che, a differenza che negli altri film, il tema dell’interazione tra ordini giuridici differenti rimane qui quanto meno sottotraccia: in effetti, tutto è riferito soltanto al diritto ebraico e ai tribunali rabbinici. Tuttavia, questo non significa che l’interlegalità non rappresenti lo sfondo in relazione al quale acquista senso l’intera vicenda. La rilevanza della questione può essere colta, in particolare, in una frase che Viviane rivolge ai rabbini mentre li accusa di aver trascinato la causa di divorzio senza curarsi di lei e dei suoi diritti: «Un giorno – dice – qualcuno vi toglierà questo potere dalle mani, e allora che farete?». Questa affermazione potrebbe infatti essere intesa come un riferimento ai delicati equilibri istituzionali legati al riparto di competenze tra giurisdizioni e, in particolare, alle tensioni che alcuni orientamenti ultraconservatori dei tribunali rabbinici stanno determinando con la Corte suprema israeliana [49]. A questo proposito, Daphna Hacker evidenzia come le corti rabbiniche in Israele abbiano un atteggiamento più elastico e sensibile alla questione dell’eguaglianza di genere nelle materie in cui sono in competizione con le corti civili, come ad esempio nel campo delle successioni [50]. In questi ambiti, infatti, le corti rabbiniche appaiono totalmente consapevoli della possibilità che i propri “potenziali clienti” pratichino forme di forum shopping e della conseguente necessità di enfatizzare i vantaggi che essi possono offrire rispetto ai concorrenti [51]. In questa prospettiva, allora, il film Viviane diviene uno strumento per riflettere sulle implicazioni che la giurisdizione esclusiva dei tribunali rabbinici in materia di divorzio può avere per i diritti delle donne.
In relazione alle dinamiche dell’interlegalità, il tema dei diritti umani merita un’attenzione specifica. Sono diverse, infatti, le questioni da tempo oggetto di acceso dibattito in letteratura. In particolare, anche tra coloro che rifiutano l’accusa secondo la quale i diritti umani sarebbero un’espressione di etnocentrismo e di imperialismo occidentale [52], è controverso se e in che termini la cultura dei diritti possa essere imposta “dall’alto” o se, invece, l’abbandono delle pratiche lesive di tali diritti debba avvenire “dal basso”, come frutto di un processo di cambiamento culturale e sociale, prima ancora che giuridico. In questo secondo caso, ci si chiede inoltre quale ruolo possano giocare le norme costituzionali e internazionali nello stimolare il cambiamento. Nello specifico del dibattito sulle tensioni tra multiculturalismo e diritti delle donne, inoltre, la questione si ripropone nella contrapposizione tra chi, come Okin, si fa portavoce del punto di vista del femminismo liberale e chi invece, come alcune esponenti del femminismo postcoloniale, contesta che le donne di altre culture abbiano davvero «bisogno di essere salvate» [53].
Le ricerche compiute negli ultimi vent’anni nell’ambito dell’antropologia dei diritti umani mostrano, in realtà, che molte di queste questioni sono malposte e fuorvianti. Come per ogni altra dimensione dell’interlegalità, infatti, anche l’interazione tra sistema (inter)nazionale di tutela dei diritti umani, da un lato, e norme di origine religiosa o consuetudinaria, dall’altro, si articola in un rapporto dinamico di condizionamento reciproco che può assumere molte forme [54]. I film in commento ne mostrano alcune, senza alcuna pretesa di esaustività.
In Difret, ad esempio, il ruolo dell’attivismo dei diritti umani – che si alimenta anche attraverso una rete di rapporti transnazionali [55] – si mostra in veste positiva attraverso l’azione dell’associazione Andenet. In questo caso, inoltre, la Costituzione dell’Etiopia è il punto di riferimento sul quale fa perno la battaglia legale di Meaza Ashenafi [56]; un’azione che, nell’immediato, porta il sistema giudiziario statale ad assolvere Hirut – svincolandosi, almeno in parte, da una reverenza ancora radicata nei confronti delle consuetudini tribali – e che, in seguito, porterà all’introduzione nel diritto penale etiope del reato di rapimento a scopo di matrimonio. Allo stesso tempo, tuttavia, si potrebbe anche obiettare che la via dello scontro frontale non si sia rilevata la migliore sotto tutti gli aspetti, dal momento che ha esasperato il desiderio di vendetta degli uomini del villaggio di Hirut, impedendole così di tornare a casa anche dopo che il tribunale statale l’ha assolta dall’accusa di omicidio. Ne La sposa bambina, d’altra parte, il buon esito della vicenda sembra assicurato proprio dall’atteggiamento “di mediazione” del giudice, grazie al quale sono gli stessi difensori della tradizione a fare, infine, un passo indietro anche senza che esista un reale appiglio nelle norme statali che consenta di obbligarli a farlo.
Ma il film che più mi fa riflettere, sotto questo profilo, rimane Moolaadè. Qui, infatti, come si è già rimarcato, lo stato è totalmente assente. Il cambiamento in favore della tutela dell’integrità fisica delle donne fa leva su una tradizione ancestrale che precede la pratica dell’escissione, e non sulle norme – o sull’attivismo – (inter)nazionali in materia di diritti umani. E vale la pena sottolineare che questo non dipende dalla mancanza di norme e di politiche contro le alterazioni rituali dei genitali femminili, che sono in realtà numerose nel continente africano tanto a livello internazionale come all’interno di singoli stati (incluso il Burkina Faso, dove il film è ambientato).
Nel complesso, quindi, i film presi in esame consentono di evidenziare come non sempre né necessariamente il rispetto dei diritti umani dipenda dall’applicazione delle norme (inter)nazionali attraverso l’esercizio legittimo della forza da parte delle istituzioni statali. Ciò che trova conferma, caso mai, è che le tensioni e i conflitti che si determinano in contesti di interlegalità possono essere fonte e strumento di cambiamento, creando spazio per l’agency degli attori sociali. La volontà di resistenza e la capacità di resilienza delle donne trovano sempre, per esprimersi, strumenti diversi e percorsi imprevisti.
Prima di concludere, ci sono però almeno altri due aspetti che emergono nei film e che ritengo valga la pena sottolineare; aspetti che spesso sono, in realtà, strettamente connessi.
Il primo è l’importanza dell’istruzione e, più in generale, della conoscenza nel processo di emancipazione femminile. Come la storia di Malala Yousafzai ha (ri)portato al centro dell’attenzione pochi anni fa [57], infatti, è indubbio che l’ignoranza sia uno degli strumenti più efficaci che gli uomini da sempre usano per mantenere le donne in una condizione di docile sottomissione. Non a caso, l’accesso alla scuola è l’obiettivo a cui tendono tanto Hirut quanto Nojood per sottrarsi al futuro che le tradizioni imporrebbero loro.
Il secondo aspetto è quello del ruolo che gli uomini possono e devono svolgere nel processo di emancipazione delle donne. A questo proposito va detto che, così come quello femminile, anche l’universo maschile è complesso ed eterogeneo in ogni cultura. Ci sono, ovviamente, uomini per nulla disposti a cedere terreno rispetto ai privilegi che le tradizioni attribuiscono loro; uomini che sequestrano le radio alle donne e le bruciano nella piazza del villaggio per cercare di arginare qualunque “contaminazione culturale”. Poi ci sono uomini che, come il padre di Nojood, semplicemente si adeguano alla tradizione senza farsi domande, per pigrizia e per ignoranza. Ma ci sono anche uomini che si lasciano interrogare dalle lotte delle donne e imparano da loro: così, ad esempio, il marito di Collé, che dopo essersi fatto convincere a frustarla per farle interrompere il moolaadé, alla fine si schiera dalla sua parte, e al fratello che lo accusa di tradire gli uomini risponde: «Per fare un uomo non bastano i pantaloni» [58]. Infine, ci sono uomini che dalla parte delle donne ci stanno fin dall’inizio, come il padre di Hirut, che la nega in sposa a Tadele e sostiene il suo desiderio di andare a scuola. E questa è la spiegazione del proprio comportamento che lui stesso fornisce di fronte agli anziani riuniti per giudicare Hirut:
Il padre di Hirut è un ottimo esempio degli uomini che servirebbero per cambiare: un padre che rispetta la volontà della figlia e la manda a scuola perché, al contrario della sorella maggiore, possa correre come il vento (metaforicamente e non solo). Questa immagine mi fa venire in mente la scena finale di un altro film, nella quale un’altra bambina, Wadjda, sfreccia sulla sua bicicletta nuova, pedalando verso l’orizzonte nella periferia di Ryadh, in Arabia Saudita [59]. Anche quella di Wadjda è, a suo modo, una vicenda di resistenza e di resilienza, che si conclude con una nota di speranza. Per tutto il film, infatti, Wadjda porta avanti la propria personale lotta per l’emancipazione in una società in cui la libertà delle donne è soggetta a fortissime limitazioni, impegnandosi con caparbietà, intelligenza e intraprendenza per guadagnare i soldi necessari a comprare quella luccicante bicicletta verde che, un giorno, ha visto consegnare al negozio di giocattoli sulla strada tra casa e la scuola. Ma questa è un’altra storia che lascio a voi, se vorrete, scoprire.
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[1] Desidero ringraziare Roberto Cammarata, Tecla Mazzarese e Susanna Pozzolo per aver letto e commentato questo lavoro. Pur talvolta nel disaccordo su specifiche questioni, le loro osservazioni sono state, immancabilmente, un importante stimolo alla riflessione.
[2] È opportuno tenere presente tuttavia che, per quanto apparentemente intuitiva, la contrapposizione tra “Occidente” e “Oriente” – intesi entrambi come aree geopolitiche e non meramente geografiche – è problematica e presenta contorni inevitabilmente arbitrari. La “cultura occidentale” (comunque la si voglia intendere) non è infatti meno complessa, eterogenea e contraddittoria delle culture che si è soliti contrapporle.
[3] L’analisi che si intende offrire in questa sede è un esperimento di eclettismo: seppure infatti tragga spunto da alcune suggestioni di filoni di studi ormai affermati – soprattutto quelli su diritto e cinema, su cinema e diritti umani e su cinema e genere (in particolare, gli studi postcoloniali su cinema e genere) – rimane per molti aspetti eccentrica rispetto a ciascuno di essi. Per una «breve reseña histórica del movimiento Derecho y Cine» si veda, ad esempio, Casanovas Esquivel (2019), pp. 227 ss. Su cinema e diritti umani si veda, ad esempio, Rivaya (2013). Sulla genesi ed evoluzione degli studi su genere e cinema si rinvia invece all’introduzione di Hole/Jelača/Kaplan/Petro (2017). Quanto agli studi postcoloniali su cinema e genere si veda, infine, Ponzanesi (2017).
[4] Il plurale è d’obbligo per rendere conto dell’estrema eterogeneità delle correnti riconducibili sia al femminismo che al multiculturalismo.
[5] L’espressione è traducibile con “matrimonio per ratto” e indica la pratica di rapire una donna e consumare un rapporto sessuale con lei per poi reclamarla in sposa.
[6] Si aggiunga che non si è compiuta in questa sede la scelta di concentrare l’attenzione soltanto su film girati da registe donne, sebbene il ruolo delle donne registe sia un ambito importante della riflessione su cinema e genere. Si veda, ad esempio, la sezione dedicata a questo tema in Hole/Jelača/Kaplan/Petro (2017).
[7] Sulla crisi di questo concetto rinvio a Parolari (2020), pp. 74-85.
[8] Santos (2002), p. 86, traduzione mia. Questo il testo originale: «I conceive law as a body of regularized procedures and normative standards that is considered justiciable – ie, susceptible of being enforced by a judicial authority – in a given group and contributes to the creation and prevention of disputes, as well as to their settlement through an argumentative discourse coupled with the threat of force». Come avverte Cammarata (2015), p. 27, proprio per questa sua ampiezza la nozione di diritto dalla quale muove Santos potrebbe forse esporsi all’accusa di «pangiuridicismo» e alla critica di non scongiurare il rischio di possibili «false comparazioni». Nondimeno, a me pare che, individuando nella justiciability, intesa come possibilità dell’intervento di un’autorità giudiziaria, l’elemento centrale della nozione di diritto, Santos colga un elemento a) effettivamente comune alle diverse forme di diritto rilevanti in relazione alla globalizzazione giuridica e, allo stesso tempo, b) utile a distinguere in modo sufficientemente efficace il diritto da altri ordini normativi presenti nella società.
[9] Ho ritenuto necessario esplicitare questo presupposto dell’analisi dal momento che – ne sono consapevole (Parolari, 2016, pp. 220-231) – la questione della definizione della nozione di diritto (ovvero, la questione di dove tracciare la linea di demarcazione tra ciò che è diritto e ciò che non lo è, tra norme giuridiche e norme sociali o morali) rimane estremamente controversa: alla posizione che io assumo se ne possono infatti contrapporre altre differenti, se non addirittura diametralmente opposte. Ringrazio Tecla Mazzarese per l’utile confronto che, pur nel dissenso, abbiamo avuto su questo punto.
[10] Roselli (2020), p. 28. Sul dibattito in merito alla questione se il cinema possa essere considerato un’arte – la settima arte – si rinvia a Casanovas Esquivel (2019), pp. 188-195.
[11] Hermann (1988), p. 326.
[12] Okin (1997a).
[13] Tra le convenzioni internazionali che si occupano di questo tema, basti qui ricordare il Protocollo alla Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa (Protocollo di Maputo, 2003, art. 5, lett. b) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul, 2011, art. 38). Inoltre, diverse agenzie e organizzazioni non governative internazionali – tra cui l’OMS, l’Unicef, UN Women, Amnesty international – hanno lanciato campagne di sensibilizzazione e di contrasto al fenomeno. Per una ricostruzione del percorso compiuto da ong e istituzioni internazionali si veda Scoppa (2006). Si ricordi, inoltre, che nel 2006 in Italia è stato introdotto l’art. 583-bis c.p., che punisce le alterazioni rituali dei genitali femminili come specifica ipotesi aggravata di lesioni personali. Sul punto si veda Mancini (2017).
[14] Per alcune sintetiche notazioni sul significato antropologico delle alterazioni rituali dei genitali femminili si rinvia a Pasquinelli (2006). Per maggiori approfondimenti si vedano, inoltre, Fusaschi (2003) e Bellucci (2012).
[15] A proposito dell’appartenenza comunitaria, Pasquinelli (2006), p. 30 parla di «segni lasciati dall’ordine culturale sui corpi, “ferite simboliche”, attraverso cui ogni gruppo sociale scrive il proprio nome sui corpi imprimendovi un marchio che li trasforma così in portatori della propria cultura».
[16] La denominazione female genital mutilation è, non a caso, la più diffusa a livello internazionale, specialmente nell’ambito delle organizzazioni che si impegnano per combattere la pratica. Sono talvolta utilizzate, tuttavia, anche altre denominazioni, considerate più neutre; tra queste, in particolare, female genital cutting.
[17] Film diretto dal regista senegalese Ousmane Sembene. Produzione: Senegal, Francia, 2004. Durata: 117’. Genere: Drammatico. Vincitore del premio Un certain regard al Festival di Cannes 2004. In Italia è stato diffuso da Feltrinelli in lingua originale con sottotitoli in italiano, ed è venduto insieme a Colombo/Scoppa (2006).
[18] Nel film non si chiarisce se l’escissione riguardi solo il clitoride o invece anche le piccole (e grandi) labbra.
[19] È questo il termine spesso utilizzato nel film per riferirsi all’escissione.
[20] Interessante, a questo proposito, è la piccola storia nella storia che riguarda il matrimonio combinato tra Amsatou e il figlio del capo del villaggio, di ritorno dalla Francia. Il capo del villaggio rompe infatti l’accordo quando diviene di dominio pubblico che Amsatou è una bilakoro e solo alla fine suo figlio troverà il coraggio di ribellarsi a questa decisione.
[21] Anche il tema della poligamia – altro tema estremamente controverso nel confronto tra femminismi e multiculturalismi – è ricorrente nei film discussi in questa sede, sebbene non sia vissuto in tutti i casi in modo analogo dalle protagoniste. Lascio tuttavia ad altra occasione una riflessione in proposito.
[22] I matrimoni forzati sono vietati, ad esempio, dalla già citata Convenzione di Istanbul, all’art. 37, e sono oggetto di sanzioni penali in un numero crescente di paesi europei. Sul punto si veda Bello (2016).
[23] Oltre ai film richiamati in questo paragrafo – ambientati, rispettivamente in Israele, Yemen e Etiopia – si pensi, ad esempio, che l’intera trama del film Monsoon Wedding. Matrimonio indiano di Mira Nair (2005, Leone d’oro alla 58a edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia) – ambientato in India – ruota intorno ad un matrimonio combinato. Ma, cambiando continente e spostandosi in America centrale (precisamente in una comunità indigena del Guatemala), anche le peripezie a cui va incontro la protagonista del film Vulcano – Ixcanul di Jayro Bustamante (2015, Orso d’Argento al 65° festival di Berlino) traggono origine dal tentativo di sottrarsi al matrimonio combinato per lei dalla sua famiglia. Nello stesso Moolaadé inoltre, come si è ricordato (v. supra, nt. 19) la figlia di Collé è promessa in sposa al figlio del capo del villaggio.
[24] Spesso infatti anche gli uomini subiscono questa pratica, come il figlio del capo villaggio in Moolaadé, o come il padre di Nojood ne La sposa bambina, al quale il padre ha imposto la seconda moglie.
[25] Questa è ad esempio la critica espressa, in prospettiva femminista, da Facchi/Giolo (2020) nei confronti del neoliberalismo. Più specificamente sull’autonomia delle donne in relazione al tema del multiculturalismo si veda Facchi (2018).
[26] Film diretto dalla regista yemenita Khadija Al Salami. Produzione: Yemen, 2014. Durata: 95’. Si veda anche il libro scritto a quattro mani da Nojood con la giornalista francese Delphine Minoui: Ali/Minoui (2009).
[27] Film diretto dal regista etiope Zeresenay Berhane Mehari. Produzione: Etiopia, USA, 2014. Durata: 95’. Nel 2014 ha vinto il premio del pubblico al Sundance Film Festival, al Festival internazionale del cinema di Berlino sezione Panorama, al Festival del Cinema di Amsterdam e al Montreal World Film Festival.
[28] Il riferimento è al mahr. Si noti tuttavia che in base al diritto islamico classico il mahr è proprietà della sposa, non della sua famiglia.
[29] Il matrimonio – che per il diritto islamico è un contratto – era stato concluso giorni prima tra il padre (che è “guardiano” – wali – delle figlie) e il marito alla presenza di un imam e due testimoni.
[30] Tra il 1995 e il 2002, Andenet ha aiutato circa trentamila donne e bambine. Nel 2003 Meaza Ashenafi è stata insignita del The Hunger Projects Prize, considerato una sorta di Premio Nobel africano.
[31] Su matrimonio e divorzio nel diritto islamico si rinvia a Aluffi Beck-Peccoz (2006).
[32] Su matrimonio e divorzio nel diritto ebraico si rinvia a Rabello (2006).
[33] In letteratura si parla, in questo caso, di religous-only marriages.
[34] In letteratura si parla, a questo proposito, di limping marriages (matrimoni “zoppicanti”), espressione presa in prestito dalla dottrina di diritto internazionale privato per indicare matrimoni che sono dissolti secondo un ordinamento giuridico ma ancora validi secondo un altro.
[35] Il problema è sempre più rilevante anche nei paesi occidentali di immigrazione, dove da tempo si discute del ruolo dei tribunali rabbinici e delle c.d. corti islamiche in relazione al divorzio religioso. Con riferimento, in particolare, alla questione degli sharia councils nel contesto inglese, rinvio a Parolari (2020).
[36] Film diretto da Masood Khan. Produzione: Regno Unito, 2008. Durata: 48’. Genere: documentario. Disponibile anche all’indirizzo https://www.youtube.com/
watch?v=_Nos1V9Rf1U.
[37] Film diretto da Kim Longinotto e Ziba Mir-Hosseini. Produzione: Iran, Regno Unito, 1998. Durata: 80’. Genere: documentario. Disponibile anche all’indirizzo https://
www.youtube.com/watch?v=yYaRb070r8E.
[38] Film diretto da Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz. Produzione: Israele, Francia, Germania, 2014. Durata: 111’. Genere: Drammatico.
[39] Lo stato di Israele ha infatti conservato, con alcuni adattamenti, il sistema dei millet istituito in Palestina dall’Impero Ottomano e mantenuto a suo tempo dalla Gran Bretagna negli anni del Mandato internazionale in Palestina (1918-1948). Sul sistema degli statuti personali e sul ruolo delle corti religiose in Israele si vedano, ad esempio, Hacker (2012), Saporito (2018), Dazzetti (2020).
[40] Sono invece di competenza concorrente con le corti statali le questioni connesse al divorzio, in particolare quelle economiche.
[41] Sulla validità del divorzio dato dal marito per costrizione e sulle modalità in cui questa costrizione può essere imposta si veda Rabello (2006), pp. 66-67.
[42] Le parole di Viviane di fronte a questo ennesimo rinvio sono così potenti ed eloquenti che meritano di essere riportate: «Egregio Rabbino, perché mi trattate in questo modo? Perché mi trattate in questo modo? Perché? Perché continuo ad entrare e uscire dalle vostre porte senza che si smuova niente? Perché? Dite che è impossibile costringerlo a venire, a concedere il divorzio, è impossibile questo e quest’altro, ma che ne sarà di me? A me quand’è che presterete attenzione? Quando non avrò più forza di stare in piedi? Quando avrò un piede nella tomba? Quando? Se dipendesse da voi queste udienze potrebbero continuare ancora dieci anni! Ma a voi che importa? Potrei crepare e continuereste a prestare attenzione soltanto a lui! Nessuno è al di sopra della legge, né lui né voi. C’è un Dio in cielo e vi giudicherà così come voi giudicate me: senza misericordia, senza misericordia mi giudicate. A voi non importa niente di me. In America, se un uomo non si presenta alle udienze, il divorzio va avanti! Non importa, anche se lui non c’è, se lui non c’è si divorzia comunque! Non rispetta la legge? La legge non rispetta lui! Basta! E voi chi rispettate? Chi rispettate? Santissimo Iddio, non avete un po’ di timore? Allora mandatemi pure al diavolo, e andate al diavolo anche voi!».
[43] Okin (1997a), p. 19. La critica a questi passaggi è così ricorrente nei commenti al suo articolo da costringerla a tornare sulla questione nella sua replica.
[44] Okin (1997b), p. 145.
[45] La testimonianza dei coniugi Aboukassis doveva infatti andare a sostegno della posizione di Elisha, ma le parole di Dona si rivelano infine determinanti nel far emergere, invece, l’inferno della vita matrimoniale dei coniugi Amsalem come denunciato da Viviane.
[46] L’impiego del concetto di interlegalità, diffusosi originariamente in ambito sociologico-giuridico a partire da De Sousa Santos (1987), si sta affermando, seppure con differenti sfumature di significato, anche in ambito teorico-giuridico: si vedano, a questo proposito, Klabbers/Palombella (2019) e Chiti/Di Martino/Palombella (2021). Per ulteriori approfondimenti, rinvio a Parolari (2020), pp. 57-85.
[47] Scoppa (2016), p. 14 parla a questo proposito di «africanizzazione dell’islam».
[48] In base al diritto islamico, infatti, il matrimonio può essere sciolto dal marito mediante ripudio (talaq), di sua iniziativa o acconsentendo alla richiesta della moglie (in questo caso, si parla di khul’).
[49] Si veda, in particolare, Saporito (2018).
[50] Come sostiene Hacker (2012), il caso di Israele rappresenta un ottimo banco di prova delle potenzialità e dei limiti delle trasnformative accommodations proposte da Schachar (2001) come modello ottimale di multicultural jurisdictions.
[51] Hacker (2012), p. 68.
[52] Il riferimento è, ovviamente, alla diatriba relativa alla pretesa contrapposizione tra universalismo dei diritti e relativismo culturale.
[53] Abu-Lughod (2002).
[54] Sul punto rinvio, in particolare, a Messer (2006).
[55] Andenet si sostiene (anche) attraverso finanziamenti che vengono dall’estero.
[56] In una delle prime scene del film, parlando con una donna vittima di violenza domestica, Meaza le dice: «Questo paese ha delle leggi, nessuno può ignorarle». Più avanti, consultandosi col proprio mentore circa la possibilità di citare in giudizio il Ministro della Giustizia, afferma: «La legge deve essere rispettata. Proibendole di tornare a casa [a Hirut, n.d.a] ledono la sua libertà». E ancora, rivolgendosi al Tribunale nella causa contro il Ministro della Giustizia, Meaza rivendica: «La libertà è un diritto costituzionale. Sì, anche per le donne».
[57] La storia di Malala Yousafzai è nota: nel 2012, questa coraggiosa ragazza pakistana è stata oggetto di un attentato da parte dei talebani proprio per il suo impegno in favore dell’istruzione delle bambine. Sopravvissuta per miracolo, ha proseguito nella propria azione di sensibilizzazione a livello internazionale, tanto da essere insignita del Premio Nobel per la pace nel 2014. La sua storia è raccontata nel film Malala, diretto da Davis Guggenheim. Produzione: Stati Uniti, 2015. Durata: 88’. Genere: documentario.
[58] Un’evoluzione simile ha anche il personaggio del figlio del capo villaggio, che inizialmente accetta passivamente la decisione del padre di rompere il suo fidanzamento con la figlia di Collé perché è una bilakoro (si veda supra, nt. 19) ma alla fine, incoraggiato dalla battaglia delle donne contro l’escissione, si ribella anche lui a questa imposizione e va incontro ad Amsatou dicendo al padre che «il tempo dei tiranni è finito».
[59] Il riferimento è al film La bicicletta verde, diretto dalla regista saudita Haifa al Mansour. Produzione: Arabia Saudita, Germania, 2012. Durata: 93’. Genere: drammatico.