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Leonardo Sciascia e la Storia del diritto. Conversazione con Paolo Squillacioti
La conversazione prende avvio dal rapporto di Leonardo Sciascia con la giustizia, il diritto, il potere, per poi concentrarsi sull’apporto che possono dare al tema le carte dell’autore (dattiloscritti, appunti, il taccuino preparatorio al Consiglio d’Egitto), rese note solo con l’edizione delle Opere apparsa da Adelphi fra 2012 e 2021.
The conversation starts from Leonardo Sciascia’s relationship with justice, law, power, and then focuses on the contribution that the author’s papers (typescripts, proofs, the preparatory notebook for the Consiglio d’Egitto) can give to the theme, papers which where disclosed only with the edition of the Opere published by Adelphi between 2012 and 2021.
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Sommario:
A margine di un Convegno di studi su Leonardo Sciascia e la storia del diritto (Messina, 17 giugno 2021, patrocinato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università peloritana, dalla Fondazione Leonardo Sciascia, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dalla Rivista LawArt) sono emersi numerosi elementi di interesse sul rapporto tra lo scrittore di Racalmuto e l’universo giuridico.
Ne parliamo con Paolo Squillacioti (Istituto CNR OVI di Firenze), curatore dell’edizione delle Opere di Sciascia per la nota casa editrice Adelphi.
LawArt: La lettura delle opere di Leonardo Sciascia continua ancora oggi a sollecitare nei giuristi un interrogativo: come è emersa la singolare sensibilità dello scrittore nei confronti delle problematiche della giustizia e delle connessioni tra diritto e potere, temi che permeano numerosi suoi scritti?
PS: È stato lo stesso Sciascia a rispondere a questa domanda, rievocando con Marcelle Padovani – durante il colloquio del 1979 da cui scaturì il libro-intervista La Sicilia come metafora – un episodio del 1946: Sciascia aveva 25 anni e lavorava all’Ufficio per l’ammasso del grano, e dovette partecipare a due processi istruiti contro un contadino e un arciprete che avevano trasgredito alle norme, severissime, volte a impedire l’accumulo eccessivo di cereali. Il contadino aveva nascosto in casa tre quintali di grano, l’arciprete quindici: il tribunale di Agrigento condannò a due anni il primo e assolse, il giorno stesso, il secondo, perché il difensore fece prevalere la tesi che l’accumulazione indebita dell’arciprete fosse destinata ad attività caritatevoli. Altrove Sciascia rievoca l’angoscia per essere stato inserito nella rosa dei possibili giurati popolari in un processo penale e il sollievo per non essere stato estratto. Sarebbe ingenuo attribuire a questi due episodi, per quanto emblematici a dire dello stesso scrittore, un valore eccessivo, ma un certo peso devono averlo avuto, accanto alle esperienze intellettuali e culturali, e alla stessa lettura della realtà circostante. E credo che abbiano contato le letture precoci di romanzi come I miserabili o dei Libelli di Paul-Louis Courier: quest’ultimo, in particolare, fu il modello di quella letteratura come ‘buona azione’ che costituì il modello di Sciascia per quasi tutti gli anni Sessanta ed entrò in crisi durante gli anni del Centrosinistra; momento di progresso per molti, fu ritenuto dallo scrittore un frangente negativo della storia politica italiana, foriero di altre e ben più estese formule compromissorie, la cui intuizione è alla base dell’imagerie del Contesto, pubblicato nel 1971 dopo una lunga e travagliata gestazione.
LawArt: Un altro elemento sorprendente è la non comune competenza storico-giuridica dello scrittore, con particolare riguardo all’antico diritto siciliano: naturalmente nei suoi scritti questo diviene metafora di contesti ancora intrisi di sopraffazioni e oscurantismo, in confronto con il pensiero dei philosophes, prediletti da Sciascia. Le carte del Maestro offrono indizi su questo aspetto della sua opera?
PS: Fra i materiali relativi al romanzo più illuminista di Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, c’è un foglio dattiloscritto che lo scrittore aveva redatto in funzione della quarta di copertina, e che fu molto parzialmente utilizzato da Guido Davico Bonino per il testo effettivamente pubblicato nella prima edizione einaudiana del 1963. A proposito dell’impostura dell’abate Giuseppe Vella, al centro della narrazione, si legge che essa:
Non ricordo altre parole così esplicite e chiare sulla necessità di un romanzo come Il Consiglio d’Egitto.
LawArt: Ad esempio il ritrovamento del taccuino di appunti riguardante Il Consiglio d’Egitto, quali elementi di novità aggiunge rispetto alle nostre conoscenze sui ‘contesti’ che hanno originato un’opera così peculiare?
PS: Il taccuino mette in luce delle fonti di alcuni passi descrittivi che sarebbe stato impossibile individuare, perché il racconto in quei punti è talmente fluido e integrato nel resto della narrazione da non far credere che dietro ci potessero essere altri testi. Chi sarebbe andato a cercare le descrizioni paesaggistiche e di vita quotidiana maltesi nelle Rimembranze di un viaggio in Oriente di Alphonse de Lamartine (Milano 1835) o nel quinto volume delle Opere del cavaliere Carlo Castone conte della Torre di Rezzonico patrizio comasco, raccolte e pubblicate dal professore Francesco Mocchetti (Como 1817)? Certo, ci si poteva aiutare con GoogleBooks, ma bisognava avere un appiglio iniziale. Altrimenti è naturale scambiare quelle descrizioni per il frutto di un’esperienza diretta, che Sciascia farà a Malta alcuni anni dopo la pubblicazione del Consiglio d’Egitto. Il fatto è che l’intera produzione sciasciana è fondata sulle sue sterminate letture, ma la citazione esplicita non è il solo modo di farle emergere: talora si colgono in filigrana, talvolta sono occultate, ma in definitiva non sono mai né banali né supervacanee. Il Consiglio d’Egitto essendo uno dei romanzi più documentati dello scrittore siciliano è un terreno perfetto per misurare questa dimensione intertestuale, e il taccuino è uno strumento, eccezionale nella sua unicità, per un’analisi del genere.
LawArt: Leonardo Sciascia, come attestano i suoi appunti manoscritti, pensa e costruisce i personaggi dei propri romanzi anche attingendo dalla realtà storica: dalle fonti dirette che Lei ha indagato ritiene possa ricavarsi il metodo di studio e ricerca sciasciano?
PS: Il metodo varia da romanzo a romanzo, e si affina con quella forma peculiare di narrazione che è il racconto-inchiesta o con la cronachetta, che ne è la variante più breve. Se in un romanzo storico come Il Consiglio d’Egitto o un racconto come Il quarantotto Sciascia realizza un affresco storico sostanzialmente realistico, introducendo elementi che attengono alla costruzione letteraria e richiamano altri momenti della sua produzione (emblematico, in questo senso, il personaggio della contessa di Regalpetra, che rinvia non solo al toponimo inventato nelle Parrocchie, ma anche al luogo dove sono ambientati i racconti La morte di Stalin, Un eroe del nostro tempo, La siccità, Regalpetresi di Roma, I tedeschi in Sicilia), nei romanzi di ambientazione contemporanea il personaggio reale o il fatto di cronaca sono solo lo spunto per un’elaborazione non strettamente vincolata ai dati di realtà. È così per il sindacalista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca nel 1947, modello del personaggio di Salvatore Colasberna del Giorno della civetta, o l’avvelenamento e il successivo ricovero ospedaliero di Liz Taylor durante le riprese di Cleopatra a Cinecittà nel febbraio 1962 che suggerì la trama del racconto Carnezzeria. Per quanto riguarda i racconti-inchiesta, il punto di partenza è un’accurata preparazione sulle carte di un processo o su documenti memoriali o comunque su tutto quello che può essere utile per una ricostruzione storica di una vicenda, ma lo svolgimento e le conclusioni sono dettati da procedimenti letterari, che comprendono citazioni da altra letteratura, connessioni, ipotesi, intuizioni. Questo nella convinzione, maturata all’altezza della Scomparsa di Majorana (apparso da Einaudi nel 1975) ma in nuce nella produzione precedente, che solo con la letteratura la verità si possa manifestare in modo assoluto. Un concetto essenziale per comprendere lo Sciascia degli anni Settanta, per il quale rinvio a quanto ho scritto in un saggio recente apparso nel fascicolo luglio-agosto di «La Biblioteca di Via Senato» tutto dedicato al Nostro, dal titolo Sciascia: la letteratura, la verità. Un nesso euristico (scaricabile online: https://bibliotecadiviasenato.it/mensile/luglio-agosto-2021).
LawArt: Il centenario della nascita di Leonardo Sciascia ha rappresentato l’occasione per realizzare numerosi incontri di studio, anche incentrati sul complesso tema del rapporto tra lo scrittore e l’idea di giustizia: ha avuto occasione di avere riscontri su questi temi nei materiali d’archivio?
PS: Potrei cavarmela con una battuta, dicendo che dal momento che l’opera di Sciascia è stata definita da Gesualdo Bufalino come un lungo, ininterrotto discorso sulla giustizia e il diritto, qualsiasi affioramento d’archivio rappresenta un riscontro di quel tema. Un’iperbole non troppo lontana dal vero, perché la Giustizia è un a priori assoluto per uno scrittore come Sciascia. Ma volendo fare un esempio concreto, potrei citare qualche brano da un testo dattiloscritto rintracciato nella casa palermitana di Sciascia che sono certo debba corrispondere a una pubblicazione in Italia o all’estero, ma che non ho (ancora) identificato. Il testo prende avvio dal ricordo della vittoria al Festival di Cannes del 1950 del film Giustizia è fatta, diretto dall’avvocato André Cayatte, in cui si propugnava l’abolizione delle giurie popolari ree di scarsa obiettività perché condizionate dal vissuto dei giurati stessi. Sciascia non è per nulla d’accordo:
E dopo aver ampiamente rammentato l’esperienza di giurato di André Gide, il suo “ne jugez pas”, Sciascia conclude:
Uno Sciascia teorico della procedura penale che mi piacerebbe contestualizzare, in modo da poterlo confrontare con lo Sciascia che nel 1977 giustificava il rifiuto dei giurati popolari a prender parte al processo torinese al nucleo storico delle Brigate rosse, e con quello, rammentato all’inizio di questo colloquio, che aveva paventato l’inclusione in una giuria. Spero se ne possa riparlare.
LawArt: Lei è un filologo, un filologo romanzo: come si realizza il suo approccio a ‘fonti’ recenti nella costruzione di una edizione (critica?) dell’opera di uno scrittore del Novecento?
PS: Da un punto di vista meramente tecnico si tratta di operazioni molto diverse, non foss’altro per il fatto che di uno scrittore del Novecento possediamo sempre stesure manoscritte (a penna o a macchina) o prime edizioni licenziate dall’autore, magari bozze corrette, appunti preparatori, dichiarazioni sulla genesi e/o la redazione delle opere. Per i testi medievali i materiali autografi o idiografi superstiti sono molto rari e la ricostruzione critica si deve fondare sul confronto fra copie o sull’analisi di copie uniche realizzate senza il concorso dell’autore. Spesso non abbiamo neppure notizie sugli autori o ne abbiamo di contraddittorie, mentre nella letteratura contemporanea quella dell’anonimato o della scrittura sotto pseudonimo (penso al caso di Elena Ferrante o all’eteronimia di Fernando Pessoa) è una scelta consapevole o legata a logiche del mercato editoriale. Potrei elencare molte altre differenze, ma mi piace sottolineare che a livello personale non ho mai segnato una linea di demarcazione fra le due facce della mia attività scientifica (alla quale devo aggiungere quella lessicografica, ormai prevalente), riscontrando solo il problema pratico di dovermi specializzare e aggiornare in campi molto diversi. Ma questo un filologo romanzo che si rispetti deve farlo comunque, se vuole far bene il suo mestiere.