LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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La cantante lirica e la radio. Il caso Rosetta Pampanini-Eiar (1938-1940), Filippo Vassalli e i diritti degli artisti esecutori in Italia (di Giovanni Chiodi, Università degli Studi di Milano-Bicocca)


La vicenda giudiziaria che contrappose il soprano Rosetta Pampanini e la radio italiana (Eiar) negli anni 1938-1940 presenta tratti singolari. La controversia portò alla prima decisione della Cassazione sui diritti degli artisti interpreti ed esecutori, in una fase decisiva della loro disciplina. I giudici si occuparono, infatti, dei problemi suscitati dalla legge sulla radiodiffusione del 1928, alla vigilia della nuova legge sul diritto d’autore (1941), che definì la questione al termine di un dibattito avviato dalla dottrina italiana anche sui tavoli internazionali. In questo contributo consideriamo l’esperienza italiana nella sua duplice dimensione, scientifica e giurisprudenziale. Lo scopo della ricerca è di attirare l’attenzione su un frammento significativo di questa storia poco esplorata e di accertare il contributo che la strategia difensiva elaborata da Filippo Vassalli e Giuseppe Ferri, come avvocati dell’Eiar, diede alla determinazione della natura dei diritti degli artisti in rapporto al diritto d’autore.

The Opera Singer and the Radio. The Case Rosetta Pampanini v. Eiar (1938-1940), Filippo Vassalli and the Rights of Performers in Italy

The legal case between the soprano Rosetta Pampanini and the Italian radio (Eiar) in the years 1938-1940 presents singular features. The controversy led to the first decision of the Supreme Court of Cassation on the rights of performers, in a decisive phase of their discipline. In fact, the judges dealt with the problems raised by the 1928 broadcasting law, on the eve of the new copyright law (1941), which defined the issue at the end of a debate initiated by Italian doctrine also on international tables. This paper considers the Italian experience in both its scientific and jurisprudential perspective. The aim of the research is to draw attention to a significant fragment of this little-explored history and to ascertain the contribution that the defensive strategy elaborated by Filippo Vassalli and Giuseppe Ferri, as lawyers of Eiar, gave to the determination of the nature of the artists’ rights with respect to copyright.

1. Cantanti lirici in tribunale: casi italiani - 2. L’esecuzione artistica: creazione, elaborazione o attività lavorativa? - 3. Diritto esclusivo di radiodiffusione o semplice diritto ad un equo compenso? Modelli internazionali e soluzione italiana del problema - 4. Il diritto degli artisti esecutori negli anni Trenta: la strategia di Piola Caselli da Roma a Samaden - 5. Processo alla radio: ascesa e caduta del diritto esclusivo di radiodiffusione degli artisti esecutori e interpreti - Appendice - Bibliografia - NOTE


1. Cantanti lirici in tribunale: casi italiani

Singolare vicenda giudiziaria, quella che contrappose una famosa primadonna della lirica, Rosetta Pampanini, e l’Eiar, negli anni 1937-1940. La controversia attraversò tre gradi di giudizio e portò alla prima decisione della Cassazione italiana sui diritti degli artisti interpreti ed esecutori, situandosi cronologicamente in un tornante decisivo per la loro disciplina normativa. I giudici di merito torinesi e la Suprema corte si occuparono, infatti, ex professo dei problemi suscitati dall’applicazione della legge italiana sulla radiodiffusione del 1928, integrata nel corso del processo dal r.d. 5 dicembre 1938 n. 2115, alla vigilia dell’approvazione della nuova legge sul diritto d’autore (1941), che avrebbe definito la questione, chiudendo (almeno provvisoriamente) un nutrito dibattito, avviato dalla dottrina italiana anche sui tavoli internazionali [1].

Come è di frequente attestato nella letteratura di quegli anni, furono le nuove sfide tecnologiche dipendenti dalle invenzioni di grammofono, radio, cinema e televisione a creare l’esigenza di una maggiore protezione nazionale e internazionale dei diritti degli artisti esecutori. Il tema è complesso, perché varie e non univoche furono le strategie di tutela concepite nei diversi Paesi. In questo contributo consideriamo l’espe­rienza italiana nella sua duplice dimensione, scientifica e giurisprudenziale. Lo scopo della ricerca, in particolare, è di attirare l’attenzione su un frammento significativo di questa storia poco esplorata, che non comprende solo i diritti di radiodiffusione e merita quindi ulteriori approfondimenti [2].

I diritti degli artisti esecutori, nella fattispecie quelli dei cantanti lirici nei confronti delle nuove tecniche di riproduzione e diffusione del canto (grammofono e radio), erano già stati prima di allora oggetto di giudizio.

Per i contrasti con le imprese fonografiche, il riferimento è alle cause intentate nel 1911-1912 da due cantanti lirici, i baritoni Ferruccio Corradetti e Riccardo Stracciari (di fama e meriti incomparabilmente superiori al primo), nei confronti della Fonotipia milanese, casa discografica tra le più prestigiose a livello internazionale, per violazione di un loro (presunto) diritto d’autore. Tali processi interessarono il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, ma non giunsero, a quanto risulta, in Cassazione. Ne vedremo l’importanza ai fini della qualificazione del diritto degli artisti esecutori.

Il precedente più immediato del caso Pampanini è però un altro: si tratta della causa mossa dal tenore Alessandro Bonci contro l’impresario del Teatro Liceu di Barcellona, Joan Mestres, per radiodiffusione abusiva di una recita teatrale. Il caso fu deciso dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano negli anni 1928-1929, e i giudici fecero riferimento per la prima volta alla legge 14 giugno 1928 n. 1352 sulla radiodiffusione delle esecuzioni artistiche, anche se non poterono applicarla direttamente. Essi riconobbero che la radiodiffusione di un’opera lirica era un fenomeno socialmente importante e ormai consueto, e che pertanto gli usi e l’equità, previsti dall’art. 1124 del codice civile come fonti d’integrazione del contratto, permettevano di argomentare, in assenza di un espresso divieto contrattuale, a favore della facoltà dell’impresario di disporre la trasmissione radiofonica, come «naturale conseguenza del contratto», salvo all’artista il diritto al maggior compenso [3]. Non risultano, almeno dallo spoglio delle riviste, altre controversie giudiziarie simili in Italia. Nel frattempo, anche la radio (Eiar dal 15 gennaio 1928) aveva iniziato a trasmettere opere liriche, in simultanea o in differita, in regime di monopolio dal d.l. 17 dicembre 1927 n. 2207 [4].

La causa Pampanini, avviata in sede civile dalla nota cantante nel 1937 [5], ebbe dunque la ventura di contribuire al dibattito sui diritti degli artisti proprio nel momento in cui, in Italia, era stato varato un ulteriore decreto sulla radiodiffusione e soprattutto si preparava la nuova legge sul diritto d’autore, che risultò espressione di un modello di disciplina lungamente supportato, anche in sede internazionale, dai giuristi italiani più esperti di diritto d’autore. In ciò consiste l’ulteriore singolarità di quei processi: l’aver saldato, in una connessione cronologicamente fortuita ma provvida, la pratica giudiziaria alla discussione dottrinale, rafforzandone contenuti e orientamenti. Anche se il peso di questa vicenda giudiziaria può apparire minore rispetto ad altre che interessarono i diritti d’autore [6], l’indagine permette di confermare la rilevanza del formante giurisprudenziale nella ricostruzione di questi problemi. Per quanto concerne la tutela degli artisti esecutori, infatti, si può sostenere che la Cassazione aggiunse la propria autorevole voce a sostegno della linea italiana che andava emergendo, anche in sede internazionale, sulla natura di questi diritti: quella, ripetutamente sostenuta in vari interventi da Eduardo Piola Caselli e altri, di diritti connessi, diversi da quelli d’autore.

La combattiva primadonna, che aveva fatto causa all’ente radiofonico per aver registrato e trasmesso in differita senza consenso due recite operistiche, non poteva tuttavia immaginare un’altra circostanza significativa per l’esito della controversia: che il direttore generale dell’Eiar, l’ingegnere romano Raoul Chiodelli, sarebbe stato difeso in Cassazione da Filippo Vassalli, che per avventura non solo era uno degli avvocati più importanti d’Italia, ma anche il giurista più intensamente impegnato nella riforma del codice civile. E dunque, allo sguardo dello storico del diritto, già per questa coincidenza la causa assume una rilevanza particolare. Come risulta dalle allegazioni inedite del processo, conservate nell’Ar­chivio personale di Vassalli e utilizzate nella presente ricerca, il professore romano (affiancato da Giuseppe Ferri) impresse alla difesa il sigillo della dottrina italiana più influente, identificabile nella figura di Eduardo Piola Caselli [7].

Non è azzardato ritenere, anzi, che la lite in questione fu utilizzata anche per portare al vaglio della Cassazione le argomentazioni favorevoli alla distinzione (e non alla parificazione) tra il diritto d’autore e i diritti degli artisti interpreti ed esecutori, secondo la linea fermamente patrocinata anche in sede internazionale dallo studioso sopra menzionato (che apparteneva tra l’altro ai massimi ranghi della magistratura), ed ottenerne così un decisivo riscontro al più elevato livello giudiziario, come in effetti avvenne: la Cassazione a sezioni unite confermò infatti quella prospettiva, contrastando la diversa impostazione del Tribunale di Torino (1938), la cui sentenza si può con buoni motivi definire clamorosa e in un certo senso pericolosa, in quanto si opponeva all’orientamento che aveva ormai preso il sopravvento nel dibattito italiano. I giudici torinesi, in ciò seguaci di un’opinione già sostenuta dalle corti di merito milanesi (Tribunale e Corte d’appello) nei casi sopra citati, alimentarono una linea argomentativa che la Corte d’appello di Torino, prima, e la Cassazione, poi, si preoccuparono di contraddire. Lo studio di questa contesa, perciò, supera le contingenze e permette di delineare un quadro più complesso, aggiungendo un tassello prezioso al mosaico di voci, che porterà l’Italia a dotarsi di una nuova legge sul diritto d’autore, operante una netta demarcazione tra il diritto d’autore e i diritti degli artisti interpreti ed esecutori.


2. L’esecuzione artistica: creazione, elaborazione o attività lavorativa?

Prima di affrontare i profili giuridici dell’ardua questione, è utile delinearne i contorni sul piano artistico e musicale.

Il 22 febbraio 1936 al Teatro Reale dell’Opera andò in scena Madama Butterfly di Giacomo Puccini, parte ideale per il soprano Rosetta Pampanini [8], che l’aveva già cantata alla Scala con Arturo Toscanini sul podio [9]: la prima, diretta da Oliviero de Fabritiis, fu radiotrasmessa dall’Eiar. Pochi giorni dopo, il 29 febbraio 1936, il sipario si alzò sull’Andrea Chénier di Umberto Giordano, cavallo di battaglia di Beniamino Gigli e della stessa Pampanini [10]. Dirigeva Vincenzo Bellezza e tra i protagonisti figurava il baritono Mario Basiola, nel ruolo di Gérard. L’Eiar radiodiffuse la seconda recita del 3 marzo 1936 [11].

Le due star della lirica si sarebbero esibite altre volte nello stesso titolo: ad esempio alla Scala nel 1937, alla presenza di Giordano, che nei suoi diari rilasciò una recensione entusiastica per Gigli e invero non molto lusinghiera per la primadonna [12]. Ciò nonostante, il compositore non fece mancare il suo supporto al tenore marchigiano quando si trattò di eseguire l’opera, con gli stessi interpreti, per l’inaugurazione dell’Arena Beniamino Gigli di Porto Recanati nell’agosto del 1937.

Le recite romane ebbero, tuttavia, una ricaduta giudiziaria. La cantante milanese ricorse infatti in giudizio, lamentando l’illegittimità delle radiotrasmissioni in differita di entrambe le opere, successive alle dirette, benché in forma parziale: precisamente il primo e terzo atto di Butterfly il 29 febbraio e 8 marzo 1936; il terzo atto di Andrea Chénier il 16 marzo 1936; trasmissioni, come fu replicato dall’Eiar, destinate agli Italiani delle colonie d’Africa orientale e del Mediterraneo per motivi culturali e di propaganda, finalità che anche la radio italiana assolveva e che il regime aveva presto contribuito a potenziare [13].

La Pampanini, tuttavia, non chiedeva l’equo compenso previsto (come vedremo) dalla legge del 1928, ma il risarcimento del danno derivato dalle parziali radiotrasmissioni differite (a suo dire abusive, come già, a monte, le registrazioni delle due dirette) e di scarsa qualità sonora, oltre che la distruzione delle registrazioni effettuate: pretese tipiche di una violazione di diritto esclusivo d’autore. La lite ebbe una certa risonanza, anche perché, come ricordato, fu la prima del genere ad arrivare fino alla Cassazione, presieduta da Mariano d’Amelio.

La sentenza che aveva chiuso il caso Alessandro Bonci non costituiva un precedente favorevole ai diritti della cantante (e infatti non fu minimamente allegata dai suoi avvocati). Il tenore di Cesena, dieci anni prima, aveva citato un impresario per aver permesso la radiotrasmissione delle sue esibizioni, con microfoni ben visibili sulla scena, senza il suo consenso. Di nuovo, all’artista non interessava alcun compenso, o comunque non lo chiedeva, ma si doleva per la lesione della sua reputazione, reclamando un congruo risarcimento del danno, che la Corte d’appello milanese, non riconoscendogli il diritto esclusivo di radiodiffusione del suo canto, gli negò [14]. Il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, tuttavia, non avevano potuto applicare la nuova legge del 1928, promulgata successivamente ai fatti, ma impostarono la decisione su basi differenti. Nel caso Pampanini, viceversa, la legge del 1928 venne a costituire il perno della soluzione.

Non è questa la sede per ricostruire nelle sue tappe il percorso che portò alla definizione dei diritti degli interpreti esecutori nel contesto nazionale e internazionale: un problema, come detto sopra, che esige rinnovate indagini storiografiche. Ci limitiamo, pertanto, a indicare quelle che, a nostro avviso, rappresentano alcune prese di posizione indispensabili per valutare il contenuto dell’episodio giurisprudenziale oggetto di queste pagine.

Prestando attenzione al dibattito italiano, un buon punto d’avvio può essere costituito da alcune affermazioni contenute nelle sentenze milanesi che risolvono i casi Corradetti e Stracciari, ai quali si è fatto sopra riferimento, per il fatto che, come si rileva in una di esse, «non è stato mai oggetto di esame da parte della patria giurisprudenza la questione se il canto sia tutelato per la legge sui diritti d’autore» [15].

Nell’anno 1911, i due cantanti citarono la Società italiana di fonotipia, industria produttrice di dischi grammofonici, registrati con il sistema acustico. Essi chiedevano la consegna dei dischi matrice delle rispettive esecuzioni, cioè i dischi metallici, ricavati da un apposito tecnico incisore dai primordiali dischi di cera in cui il canto veniva originariamente impresso per mezzo di una punta di metallo, destinati alla riproduzione in serie dei dischi da mettere in vendita [16]. Di tali dischi matrice entrambi i cantanti, in giudizi diversi, rivendicavano la proprietà, che fu loro negata dai giudici. All’origine della vertenza c’era l’insoddisfazione per il rapporto contrattuale con la milanese Fonotipia [17], che non si era preoccupata di diffondere adeguatamente i dischi sul mercato ed anzi aveva ceduto i diritti di riproduzione ad altra società. A prescindere dalla questione proprietaria, che venne accuratamente tenuta distinta da quella dei diritti d’autore, entrambe le sentenze di primo grado giunsero ad affermare chiaramente che gli artisti esecutori avevano un diritto esclusivo d’autore sul proprio canto e sulle sue riproduzioni: vale a dire, in assenza di qualsivoglia disposizione espressa nella legge sul diritto d’autore (allora T.U. 19 settembre 1882), attribuirono agli artisti un diritto esclusivo sulle loro esecuzioni, con le conseguenti ampie prerogative. Queste le parole del tribunale milanese nel caso Stracciari:

Il canto, che è facoltà naturale, assurge all’altezza di opera artistica, quando è rivolto all’interpretazione di un’opera musicale, non solo per lo studio, per gli esercizi, per gli sforzi cui l’artista deve sottoporsi per dare alla sua voce la morbidezza del tono, il timbro, l’ampiezza e l’estensione necessarie […] ma anche e soprattutto per il lavoro intellettuale che l’artista deve compiere per penetrare nell’anima del personaggio che incarna […] per far quello che il linguaggio comune, con esattezza che dimostra quanta fine intuizione abbiano gli uomini nel foggiare le parole o nell’usare le già note per esprimere un concetto nuovo, chiama creazione della parte. Questo lavoro di creazione e di interpretazione, che l’artista compie pure variando, aggiungendo o togliendo qualche breve elemento musicale e drammatico dell’opera, fa sì che la stessa opera, cantata da due artisti anche di uguale valentia, suscita nell’animo di chi l’ascolta sensazioni del tutto diverse: ed è un godimento intellettuale sempre nuovo e diverso quello che prova chi ascolta la stessa opera interpretata, ad esempio, dalla voce potente di Enrico Caruso o di quella fine ed appassionata di Fernando De Lucia, poiché son vari gli aspetti del personaggio, son diversi i sentimenti cui l’uno e l’altro artista dà risalto a seconda del proprio temperamento artistico e dei mezzi della propria voce. Il canto in tal caso non è più un esercizio meccanico o l’esplicazione di una facoltà naturale, ma diventa opera d’arte e d’ingegno… [18]

La Corte d’Appello di Milano, nel caso Corradetti, non ragionò diversamente, sia dai giudici di primo grado [19], sia dalla propria decisione (inedita) del 19 aprile 1912 nel caso Stracciari [20].

La questione non passò inosservata in dottrina e si avviò un primo dibattito. In margine ad App. Milano 1° ottobre 1912 (caso Corradetti), il giovane Enrico Redenti, professore di procedura civile a Parma e avvocato della Fonotipia, approfittò della pubblicazione della sentenza nel Foro italiano per redigere un’ampia nota di commento in cui, respinta la tesi del diritto d’autore, poiché l’esecutore non poteva essere considerato un creatore, egli propose di tutelarne i diritti nelle forme del contratto di locazione d’opera. Per poter legittimamente riprodurre il canto nei dischi, dunque, era necessario il consenso del cantante, perché l’esecu­zione giuridicamente era un lavoro e per poter sfruttare il lavoro altrui occorreva la volontà del prestatore d’opera il quale, in mancanza di contratto, aveva il diritto di vietare la riproduzione dell’esecuzione, frutto della sua attività [21].

Tale avrebbe dovuto essere, secondo Redenti, il contenuto di una futura nuova legge. Come si vede, pur mutando la natura del diritto, che non era assimilabile a quello d’autore, gli effetti però erano quelli di una tutela esclusiva del tutto analoga: un diritto distinto, ma le cui prerogative erano le stesse, al punto che Redenti parlava di concorso tra diritto dell’autore dell’opera e diritto dell’artista esecutore nel vietare o permettere l’esecuzione. Poteva dunque sorgere un conflitto tra i due diritti, che è una delle argomentazioni su cui Piola Caselli avrebbe fatto recisamente leva per escludere la tesi del diritto d’autore e proporre la strada alternativa di una tutela limitata al solo compenso pecuniario, fondato sul diritto del lavoro. Non è esatto dunque affermare che Redenti sia stato il precursore di questa tesi, o per lo meno non è del tutto conforme al vero.

Naturalmente, egli si impegnò ad escludere la natura creativa dell’at­tività artistica, presupposto necessario della sua costruzione alternativa. Altri invece – il riferimento è ad Alberto Musatti, annotatore della stessa sentenza – confermarono la validità di quella tesi, in termini addirittura oltre che entusiastici molto larghi: l’interprete esecutore era tanto creatore quanto l’autore, al punto da poter essere definito come un co-autore [22]. A parte quest’ultima notazione, la teoria conquistò per un momento anche Piola Caselli, nella seconda edizione del trattato sul diritto d’autore (1927): ma sarà tosto abbandonata [23].


3. Diritto esclusivo di radiodiffusione o semplice diritto ad un equo compenso? Modelli internazionali e soluzione italiana del problema

Ed è proprio l’itinerario scientifico di Piola Caselli [24] che occorre scandagliare, se si vuole comprendere come le cose siano andate, nel periodo compreso tra il 1928 e il 1940, durante il quale il magistrato si batté in più occasioni, anche in sede di revisione della Convenzione di Berna, affinché la sua prospettiva, che intendeva conciliare i diritti degli esecutori con quelli degli autori dando prevalenza a questi ultimi nell’estensione degli strumenti di tutela, fosse accolta e condivisa. In questo arco di tempo, l’idea di un’assimilazione tra il diritto d’autore e il diritto degli artisti esecutori non venne meno, ed anzi fu accettata da alcune legislazioni speciali nazionali, in particolare quelle tedesca e austriaca. Il tema, come lascia intendere molto bene la lettura dei numeri della rivista italiana Il diritto d’autore, non era tra quelli che si potevano risolvere fuori da un approccio comparato. Anche se l’aspirazione di Piola Caselli e di altri era di favorire il successo della propria visione anche in ambito internazionale, per addivenire ad una soluzione nei limiti del possibile omogenea tra i diversi diritti nazionali.

Volendo andare al cuore del problema, si possono ipotizzare almeno due modelli di soluzione. Il primo: riconoscere il diritto esclusivo di autore agli interpreti esecutori, così che occorra anche il loro consenso, espresso o tacito, alla radiodiffusione. Questa opzione evidentemente presume risolta in senso positivo la questione della natura creativa dell’attività artistica. Il secondo: riservare il diritto esclusivo di autorizzare la radiodiffusione agli autori, salvo prevedere dei limiti a tutela dell’interesse pubblico, cioè concessioni agli enti radiofonici di trasmettere le opere senza il consenso degli autori, a determinate condizioni. In questa ulteriore ipotesi, garantire comunque agli interpreti esecutori il diritto patrimoniale ad un’equa remunerazione e il diritto morale ad una buona e tecnicamente corretta radiodiffusione.

In sede internazionale, la Conferenza di Roma del giugno 1928 per la revisione della Convenzione di Berna riconobbe il diritto esclusivo agli autori, ma non agli artisti esecutori, benché la proposta iniziale, consacrata nel primo progetto dell’art. 11-bis, fosse di estendere anche ad essi tale riconoscimento, in ossequio ad una tendenza emersa nella dottrina italiana, tedesca, francese e in diversi incontri internazionali. Per la precisione, si voleva attribuire ad autori ed artisti esecutori il diritto di autorizzare la diffusione di opere ed esecuzioni per telegrafo o telefonia [25]. Alla fine del dibattito, si preferì tuttavia una disposizione diversamente formulata che, da una parte, riguardasse solo gli autori e dall’altra consentisse di limitare il loro diritto esclusivo nelle leggi nazionali, in nome dell’interesse nazionale o sociale alla radiodiffusione delle opere [26].

Il compromesso raggiunto dipese da vari fattori, il primo dei quali non fu l’astratta natura in sé dell’esecuzione artistica rispetto all’opera dell’autore. È vero che la creatività dell’esibizione dell’attore o del cantante era l’argo­mento fondamentale per estendere nel diritto positivo il diritto d’autore agli artisti: ma anche chi non negava la creatività del lavoro dell’artista, pur se differente rispetto all’ideatore dell’opera, specie musicale, poteva non arrivare fino alla parificazione giuridica tra autore ed esecutore. Più determinanti furono gli interessi sostanziali in gioco: quelli degli autori da una parte, che sarebbero inevitabilmente entrati in concorrenza con quelli degli artisti, e quelli degli enti di radiodiffusione o degli Stati, dall’al­tra, a garantire una diffusione in certa misura non inceppata da troppi vincoli sulla riproduzione delle opere artistiche. In tale contesto, il presidente-relatore della sottocommissione per la radiofonia Amedeo Giannini volle tuttavia, non senza resistenze, che la Conferenza di Roma si pronunciasse anche sui diritti degli artisti esecutori, addivenendo ad un voto molto generico di impegno per tutelare anche i loro diritti [27]. L’incertezza della risoluzione darà motivo ad altri (Piola Caselli) di proporre un modello di tutela non concorrente al diritto esclusivo d’autore, che sarà adottato anche in Italia.

La legge italiana del 14 giugno 1928 può essere considerata figlia di questo sistema. Essa, dopo vari stadi di formazione, prevedeva:

1) l’espropriazione per pubblica utilità del diritto d’autore a favore dell’Eiar, ente concessionario in regime di monopolio che era autorizzato a trasmettere senza necessità di consenso di autori ed esecutori le opere, comprese quelle musicali, eccetto le prime rappresentazioni e le opere nuove; in caso di stagioni, per sole due volte la settimana;

2) obbligo del concessionario di attenersi alle buone norme tecniche, sotto la vigilanza del Ministero delle comunicazioni;

3) diritto ad un equo compenso per autori ed artisti esecutori;

3) specificazione degli aventi diritto al compenso: per gli esecutori, una serie di soggetti, comprendente sia individui (direttori d’orchestra, artisti, esecutori solisti), sia orchestre, cori e bande musicali;

4) mandato legale all’impresario di negoziare, recepire il compenso e di rappresentare in giudizio gli artisti esecutori;

4) collegio arbitrale per la soluzione delle controversie;

4) riconoscimento del diritto morale degli esecutori ad una trasmissione radiofonica tecnicamente corretta, affidato alla vigilanza del Ministero delle comunicazioni.

La questione dei diritti degli artisti esecutori fu ripresa e discussa più approfonditamente al Congresso internazionale di Roma della telegrafia senza fili (1-6 ottobre 1928), presieduto da Amedeo Giannini, sulla base di tre ordini del giorno, presentati rispettivamente dall’avvocato madrileno José de Villalonga, dall’avvocato belga Paul Quintin e dallo stesso presidente.

L’avvocato spagnolo partiva da un dato essenziale: egli riteneva infatti che, secondo il diritto vigente nella maggior parte dei Paesi civili, agli artisti esecutori spettasse un diritto esclusivo di autore nel diritto positivo; ciò che avrebbe fatto inevitabilmente dipendere anche dal loro consenso la riproduzione via radio delle loro interpretazioni. Nessuno poteva negare, infatti, che l’attività artistica fosse di natura creativa, benché non configurabile come una collaborazione con l’autore, a differenza di alcune prospettive estreme. Ciò nonostante, allo scopo di favorire lo sviluppo della radiodiffusione, la cosa migliore era di non arrivare a tanto in una convenzione internazionale. Agli enti esercenti la radiodiffusione, salva diversa previsione contrattuale, era quindi conveniente attribuire il diritto di radiodiffondere le esecuzioni anche senza consenso, mentre si doveva assicurare agli artisti il diritto ad una remunerazione supplementare: una via di mezzo per conciliare gli interessi delle imprese di radiodiffusione e degli artisti. La risoluzione de Villalonga esordiva quindi con l’affermare il diritto esclusivo degli artisti di autorizzare la radiodiffusione delle loro interpretazioni di opere letterarie o artistiche, ma poi proseguiva con il limitarlo in sei punti: la radiodiffusione doveva essere autorizzata per legge, con riserva dei diritti degli autori e dietro remunerazione supplementare; era necessaria una notificazione preliminare agli artisti; il tasso di remunerazione supplementare doveva essere determinato da una commissione paritetica; essa doveva anche stabilire le modalità della notificazione; la legge doveva prevedere sanzioni appropriate e fare salva la libertà contrattuale [28].

L’ordine del giorno Paul Quintin era assai più conciso. L’avvocato belga, intanto, dissentiva su un punto cruciale: pur dichiarandosi d’ac­cordo nel considerare l’interpretazione dell’artista come un’attività creativa, la considerava di seconda mano e quindi sussidiaria rispetto a quella dell’au­tore. Con la conseguenza che, nel diritto positivo, ad esempio quello belga, diversamente da quanto ritenuto da de Villalonga, difficilmente si sarebbe potuto assimilare l’artista all’autore. Anche Quintin, tuttavia, lo auspicava de iure condendo e quindi anche la sua risoluzione si apriva con un’afferma­zione di gran peso: la radiodiffusione di opere letterarie e artistiche non poteva avvenire senza il consenso degli interpreti; in mancanza di accordo espresso, la radiodiffusione si presumeva autorizzata. Il sistema Villalonga partiva invece da un’autorizzazione ex lege; veniva poi semplificata la determinazione della remunerazione aggiuntiva, che doveva essere automatica e forfettaria, cioè fissata in una percentuale rispetto al normale cachet [29].

L’ordine del giorno Giannini era breve ed ancor più deciso nel proporre il riconoscimento del diritto di radiodiffusione in capo agli esercenti, poiché ometteva di far menzione delle eventuali diverse pattuizioni contrattuali degli artisti. Egli proponeva inoltre di tutelare il loro diritto morale ad una trasmissione effettuata a regola d’arte; di riconoscere il diritto patrimoniale ad una remunerazione; di prevedere una soluzione rapida delle eventuali controversie [30].

A seguito dell’intervento di Piola Caselli, nell’ultima seduta si giunse ad una sintesi concordata dei precedenti ordini del giorno e il Congresso approvò così un voto incentrato proprio sui tre punti appena indicati: diritto ad una equa remunerazione, misure atte a risolvere rapidamente ed in via equitativa le controversie, vigilanza sulla radiodiffusione secondo le regole della migliore tecnica. Si suggerì inoltre agli Stati di adottare una legislazione nazionale uniforme, in conformità agli obiettivi sopra fissati, senza vincolarli a norme precise [31]. Piola Caselli sottolineò la natura transattiva di questa soluzione dal punto di vista sostanziale e procedimentale. Sotto la prima prospettiva, è evidente che la tutela degli artisti non doveva giungere fino al punto di attribuire loro un diritto esclusivo, concorrente con quello degli autori, di consentire o di opporsi alla radiodiffusione [32].

Ci si era allontanati dunque dalle enunciazioni in tal senso degli ordini del giorno de Villalonga e Quintin. Piola Caselli aveva cambiato idea rispetto all’anno precedente in cui, nella seconda edizione del suo Trattato, come accennato sopra, si era lasciato andare ad affermazioni favorevoli al diritto d’autore degli artisti, che in seguito avrebbe esplicitamente rinnegato. Con un importante distinguo: Piola Caselli si era espresso sui diritti degli artisti con riguardo alle esecuzioni incise su disco, ritenendo che tale materializzazione fosse da proteggere come un’opera dell’ingegno, sotto forma di una riduzione (prevista dal diritto d’autore), pur non essendo l’artista un co-autore rispetto al compositore, ma solo un creatore di secondo grado, complementare ed accessorio [33].

La legge italiana del 1928 armonizzava con l’impostazione adottata in sede internazionale. Anche se non priva di aporie e lacune, segnalate da Piola Caselli [34], essa era comunque conforme a ciò che egli avrebbe costantemente sostenuto fino all’elaborazione della legge italiana del 1941.

Se nel 1928 egli preferì lasciare impregiudicata la questione giuridica della natura del diritto degli artisti esecutori, la sua strategia nell’avve­nire si diresse infatti sempre più fermamente verso la negazione di diritti esclusivi di radiodiffusione agli artisti esecutori, contro opposte visioni sia dottrinali sia legislative, specialmente in Austria, Germania e Francia [35]. L’alternativa, secondo Piola Caselli, consisteva nel costruire la tutela degli artisti esecutori sulla base del diritto del lavoro, considerando cioè l’esecuzione un’attività lavorativa intellettuale da remunerare e da proteggere sotto l’aspetto della paternità e della reputazione, riconoscendo un diritto morale parallelo a quello già attribuito agli autori.


4. Il diritto degli artisti esecutori negli anni Trenta: la strategia di Piola Caselli da Roma a Samaden

Dopo gli esordi che si sono sommariamente raccontati, la strategia di Piola Caselli proseguì compatta per tutto il decennio successivo verso una meta: far emergere e far prevalere le sue idee nel dibattito internazionale e allo stesso tempo concretizzarle nella nuova legge italiana sul diritto d’autore del 1941, di contro alle diverse prospettive della legislazione austriaca e tedesca.

Nel 1929 al Congresso del Cairo dell’Association littéraire et artistique internationale vi è intanto da notare la decisa rivendicazione dei meriti del fascismo nei confronti del problema della radiodiffusione, attività «monopolizzata e controllata dallo Stato» con un sistema, quello della legge 14 giugno 1928, vivamente difeso da Piola Caselli, che tenne a distinguerlo da quello della licenza obbligatoria: si trattava piuttosto di limiti di diritto pubblico al diritto d’autore, ispirati alla tutela di interessi pubblici e non privati, in linea con gli obiettivi politici del regime [36].

Ma è al Congresso della Association littéraire et artistique internationale di Budapest del 1930 che Piola Caselli ruppe ogni indugio ed espose in maniera motivata la sua tesi: attribuire un diritto esclusivo agli artisti esecutori e interpreti avrebbe significato togliere l’esclusività agli autori, «sarebbe un immolare a favore loro quel diritto esclusivo che, rispetto precisamente a queste nuove forme di riproduzione di un’importanza economica di prim’ordine, noi abbiamo di recente conquistato» [37]; la soluzione ottimale consisteva invece nel garantire un semplice diritto economico ad una remunerazione supplementare, indipendentemente da ogni previsione contrattuale. Questo risultato poteva essere conseguito mediante l’introduzione di un’obbligazione ex lege, secondo gli schemi del nuovo diritto del lavoro, come nella legge italiana del 1928, che a questo punto veniva elogiata come un modello da seguire anche in ambito internazionale.

Nel 1932 Piola Caselli, in un articolo critico verso gli obiettivi della quarta revisione della Convenzione di Berna, ribadì il suo punto di vista sulla natura dei diritti degli artisti esecutori, che dovevano restare distinti dal diritto esclusivo d’autore, poiché «nella normalità dei casi (ed è sulla normalità che la regola legale può basarsi) il lavoro dell’artista esecutore è tecnico, anziché creativo, e, se creativo, di natura ed importanza che non giustificano il riconoscimento di un diritto esclusivo», con la conseguenza che «della riproduzione della esecuzione deve restare padrone l’autore che ha commessa l’esecuzione stessa, salvo l’obbligo di pagare il maggiore sfruttamento e profitto», mentre «è un errore il ritenere che occorra instaurare un nuovo diritto esclusivo per rendere operativo il diritto di compenso dell’esecutore di fronte ai terzi» [38].

Gli fece eco Giannini, il quale incalzò:

abbiamo entrambi negato che all’esecutore spetti un diritto esclusivo, parallelo a quello dell’autore, che porterebbe all’assurdo di cumulare più diritti esclusivi […] non discriminando la posizione dell’autore da quella dell’esecutore, il quale, ancorché sommo, non fa che sfruttare la creazione dell’autore.

E dunque l’artista creava, ma non allo stesso modo dell’autore:

se i due atti sono creativi, non vuol dire, perciò, che, qualitativamente, siano l’istessa cosa. […] Vengo perciò a rendere omaggio all’opera dell’in­terprete, ma la discrimino da quella dell’autore, nella sua natura e nel trattamento giuridico che le è dovuto. E per tali considerazioni appunto escludo il diritto esclusivo [39].

Opinione già espressa nel 1931, con i distinguo rispetto a Piola Caselli, culminanti nel fatto che Giannini definiva il diritto dell’esecutore come un diritto autonomo dal diritto d’autore, che non era dunque corretto assorbire tutto nel diritto del lavoro, come nella differente prospettiva del giurista appena evocato [40].

Successivamente, nel rapporto del gruppo italiano della medesima Association, presentato a Parigi nel marzo 1933, Piola Caselli criticò vigorosamente l’orientamento favorevole ad attribuire diritti esclusivi agli artisti interpreti ed esecutori: l’intento era di salvaguardare il diritto esclusivo degli autori, che sarebbe stato minacciato dalla concorrenza con quello degli artisti, e allo stesso tempo di ricondurre le giuste pretese economiche di questi nell’alveo del rapporto di locazione d’opera:

Oggimai, ripetiamo, egli può e deve conoscere, che la sua esecuzione o rappresentazione potrà essere, anzi sarà in molti casi certamente, diffusa per radio o riprodotta su disco o sul film. Quindi, non solo la natura del suo rapporto con l’autore o l’avente causa dell’autore dell’opera quale semplice rapporto di locazione di lavoro, ma l’appartenenza dell’opera stessa al dominio esclusivo dell’autore, nonché la prospettiva probabile di queste varie ulteriori utilizzazioni del lavoro che ha prestato, rendono ingiustificata sotto i riguardi sì dello stretto diritto, come della buona fede e della equità, la sua pretesa ad un diritto esclusivo sulla riproduzione della esecuzione o rappresentazione. Esso non può sorgere che da un patto speciale inserito nel suo contratto. Se questo patto manca egli potrà soltanto inoltrare la pretesa ad una maggiore retribuzione [41].

Il senso di queste parole è chiaro. Nello scritto del 1933 dedicato a Mariano D’Amelio e incluso nella raccolta in suo onore, Piola Caselli non si lascerà sfuggire l’occasione di ribadire il suo convincimento di fronte al progetto della nuova legge tedesca del 1932, che aveva preso una via diversa.

Ma l’articolo in questione aveva anche una seconda funzione, dato l’illustre personaggio omaggiato, che era il primo presidente della Cassazione e quindi proveniva dallo stesso ceto professionale dell’onorante. Questa sottile sfumatura non deve andare perduta nel discorso che stiamo svolgendo e che a breve approderà all’esito giurisprudenziale già anticipato. La Cassazione civile non si era ancora pronunciata sul tema, come Piola Caselli ben sapeva. Ed allora egli ne approfittò per fornire ai giudici un argomento per respingere eventuali tesi volte ad assimilare il diritto degli artisti esecutori a quello degli autori: ciò non era possibile, a tacer d’altro, perché avrebbe comportato la violazione della Convenzione di Berna, che nel campo della radiodiffusione, come abbiamo già visto, riconosceva un diritto esclusivo in capo ai soli autori. Ed ecco il monito del magistrato: «una legge (come una giurisprudenza) che riconoscesse agli esecutori un diritto esclusivo di autorizzare codeste forme di riproduzioni per le opere coperte dai diritti d’autore, costituirebbe una violazione della Convenzione» [42].

Più in generale, come se non fosse bastato, lo scopo del saggio veniva dichiarato esplicitamente all’onorato:

Mi è sembrato opportuno di confermare questa opinione in questo scritto di omaggio al Capo della nostra Corte, nel desiderio che non venga da parte della giurisprudenza nostra affermata una contraria tendenza per un involontario disconoscimento della grave portata del problema e per un apprezzamento della giustizia di proteggere gli interessi degli artisti esecutori, che avrebbe, secondo me, una errata applicazione [43].

Di più: Piola Caselli sentiva addirittura di dover emettere formale abiura dell’opinione da lui sostenuta nella seconda edizione del suo Trattato (che pure aveva i limiti che si sono detti), giungendo ora ad escludere la natura creativa dell’attività dell’interprete. È vero che esistevano interpreti eccezionali, nei cui confronti si sarebbe potuto parlare di creazione: ma era la classica eccezione che confermava la regola [44].

Negli anni a venire, Piola Caselli continuò quella che era diventata una lotta personale contro la teoria del diritto esclusivo degli artisti esecutori.

Le sue posizioni sono emblematicamente sintetizzate in un articolo del 1937, scritto per la rivista Il diritto d’autore. Si tratta di obiezioni concettuali e pratiche [45].

Sul piano teorico, Piola Caselli individuava e respingeva tre possibili fondamenti di un diritto esclusivo: 1) la natura creativa dell’attività artistica, che era da escludersi, almeno nella normalità dei casi; 2) come era da escludersi che l’esecuzione si potesse considerare una forma di elaborazione dell’opera altrui, come nella legge tedesca del 22 maggio 1910; o 3) addirittura oggetto di un vero e proprio diritto della personalità [46].

Ma c’erano anche difficoltà pratiche insormontabili ad accettare una tesi del genere: se l’artista fosse stato titolare di un diritto esclusivo e l’esecuzione avesse previsto il concorso di più solisti o di più esecutori, ne sarebbe conseguita la necessità del consenso di tutti e ciò avrebbe rischiato di paralizzare una radiodiffusione, a meno di non limitare il diritto ad alcuni (solo certe categorie di artisti oppure solo al direttore d’orchestra o del coro, in caso di complessi musicali).

La preferenza andava quindi alla tesi che faceva dell’attività artistica una forma di lavoro da proteggere con gli strumenti del diritto del lavoro e che autorizzava l’artista a chiedere un compenso economico a chiunque sfruttasse la sua esecuzione, a prescindere dal suo consenso (salva sempre la libertà contrattuale): procedere oltre avrebbe creato un’inevitabile collisione con gli interessi degli autori.

Molto attivo anche in ambito internazionale, Piola Caselli ribadì queste tesi ai Congressi della Confédération internationale des sociétés d’auteurs et compositeurs di Parigi (14-19 giugno 1937 [47]) e di Stoccolma (27 giugno-2 luglio 1938 [48]). A Ginevra, il 28-29 novembre, il rapporto del Bureau international du travail si schierò dalla stessa parte [49]; e infine a Samaden, il 29-31 luglio 1939, in un incontro organizzato dall’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, un comitato di esperti mise a punto un progetto di convenzione internazionale sui diritti connessi al diritto d’autore, che recepiva istanze dello stesso genere [50].

Altre occasioni si offriranno inoltre nel 1938 e nel 1939, per instaurare un dialogo serrato con Willy Hoffmann, che in Germania stava portando avanti un progetto di legge analogo alla nuova legge austriaca del 1936, che aveva attribuito agli artisti diritti esclusivi di radiodiffusione pari a quelli degli autori [51].

Sembra opportuno segnalare che in quegli anni Piola Caselli trovò un valido alleato nell’avvocato Valerio De Sanctis, capo dell’ufficio legale della Siae e segretario generale della commissione di legislazione della Confédération internationale des sociétés d’auteurs et compositeurs, che in molti interventi si pose sulle sue stesse orme, con un’opposizione serrata delle tesi avversarie, che si può leggere anche nelle pagine della rivista Il diritto d’autore. Emerge in questi scritti [52], come già nell’opera di Piola Caselli, l’idea che l’esclusività serviva soprattutto a garantire gli interessi delle industrie fonografiche e di radiodiffusione, che tuttavia si sarebbero potuti ugualmente salvaguardare in altro modo, evitando di attribuire agli artisti diritti esclusivi, come poi sarà fatto fin dal progetto del 1939 della nuova legge sul diritto d’autore, che non a caso fu scritta da Piola Caselli. Nel leggere la sintesi conclusiva di questo lungo iter, il Codice del diritto d’autore pubblicato nel 1943, si ha precisamente l’impressione, avvalorata dallo stesso autore, di un percorso pianificato a tappe forzate verso il traguardo finale [53].


5. Processo alla radio: ascesa e caduta del diritto esclusivo di radiodiffusione degli artisti esecutori e interpreti

Dopo questa premessa, che è servita a mettere a fuoco il contesto in cui si svolse la causa Rosetta Pampanini-Eiar, possiamo inoltrarci nell’esame dei processi torinesi e di Cassazione, in cui gli argomenti sostanziali si intrecciano a quelli processuali in una complicata matassa che tenteremo di districare.

Il processo, i cui fatti si sono già rammentati, si svolge quando in Italia la tesi del diritto esclusivo degli artisti esecutori e interpreti, dal punto di vista dottrinale, è declinata, come si è visto sopra: a tacer d’altro, basterebbe citare la voce scritta da Piola Caselli per il Nuovo Digesto Italiano diretto da D’Amelio, che costituisce una summa del suo pensiero [54].

Dal punto di vista giurisprudenziale, tuttavia, la situazione era diversa: il diritto esclusivo di radiodiffusione, come sappiamo, non era stato riconosciuto dal Tribunale di Milano nel 1929 nel caso Alessandro Bonci.

Il Tribunale di Torino, attribuendo espressamente nel 1938 al soprano Rosetta Pampanini il diritto esclusivo di autorizzare la radiodiffusione delle proprie esecuzioni, fuori dai casi ammessi in via di espropriazione dalla legge 14 giugno 1928, pronunciò quindi una parola nuova in sede giudiziaria, anche se accedeva ad una tesi già emersa, quando l’applicò in particolare alle radiodiffusioni non autorizzate dalla legge speciale, che quindi furono fatte ricadere nell’ambito della vigente legge sul diritto d’autore del 1925, estesa per analogia.

Il risultato fu ottenuto argomentando che l’esecuzione era una vera e propria creazione, per quanto assimilabile giuridicamente all’elaborazione di un’opera letteraria o musicale altrui, protetta dalla legge citata [55]. Nel frattempo, come si è visto, la teoria del diritto esclusivo basato sulla natura creativa o elaborativa dell’attività artistica era stata contestata. Il Tribunale di Torino si pose dunque in controtendenza: l’esecuzione, anche se non poteva definirsi ideazione o invenzione, era per sua natura «un’o­pera personale», indipendentemente dal valore artistico dell’esibizione che, nel caso di specie, era molto alto:

L’opera musicale in sé stessa non è che una successione di note incomprensibili dal pubblico, pel quale sono state scritte: l’artista traduce in suoni quelle note fredde e mute, le fa vivere e vibrare nell’anima del pubblico, secondo il disegno ideale dell’autore. L’attività di costoro costituisce opera personale, che si aggiunge a quella dell’autore e la completa. Per poter effettuare un’esecuzione artisticamente e tecnicamente perfetta, come fa la Pampanini nella Butterfly, occorre essere artista nel senso pieno della parola; occorre, cioè, non soltanto possedere un’ugola d’oro, dono e grazia di Dio, ma ancora essere dotati di un’intelligenza sveglia e di una sensibilità squisita, e avere coltivato l’una e l’altra con lungo studio e grande amore [56].

La conclusione era sicura: «l’artista lirico ha quindi il potere esclusivo di fissare la sua interpretazione personale e di impedire poi che altri possa servirsi della sua opera così concretata ed esternata».

La Pampanini stravinse e ottenne non solo il risarcimento del danno, da accertarsi tramite perito, per abusiva registrazione delle dirette e successiva radiodiffusione differita parziale di atti di Andrea Chénier e Butterfly, ma anche la distruzione dei nastri e la pubblicazione della sentenza sul quotidiano La Gazzetta del Popolo. L’Eiar aveva offerto alla cantante un semplice compenso suppletivo a quello già versato.

Si era fuori, nell’ottica del Tribunale, dal campo di applicazione della legge del 1928: evidentemente i giudici ritennero che l’espropriazione del diritto di autori ed esecutori fosse stata consumata con la radiodiffusione in diretta e richiamarono l’art. 9, che vietava «di valersi della stessa per qualsiasi altra diffusione, specialmente a scopo di lucro». Va segnalato il profilo processuale della competenza, che il Tribunale torinese rivendicò a sé, poiché ritenne che fossero stati superati i presupposti dell’espropria­zione concessa dalla legge speciale, la quale – altro particolare rilevante – dimostrava implicitamente che i diritti degli autori e degli esecutori erano entrambi esclusivi.

La Corte d’Appello di Torino, su ricorso dell’Eiar, con sentenza 29 marzo-18 aprile 1939 ribaltò il giudizio di primo grado proprio su questo punto pregiudiziale: essa dichiarò infatti la propria incompetenza, poiché la controversia avrebbe dovuto essere giudicata dal collegio arbitrale previsto dalla legge del 1928 e non dal giudice ordinario [57]. La Corte sostenne infatti che la controversia rientrava nella cornice della legge speciale, poiché nessun diritto esclusivo spettava agli esecutori.

La sentenza confutò quindi pienamente la tesi del Tribunale di Torino, provocando per la prima volta in Italia un contrasto giurisprudenziale tra giudici di merito sulla natura del diritto degli esecutori. L’importanza della vicenda risiede in questo passaggio decisivo. Dichiarandosi incompetente a decidere in base alla legge sul diritto d’autore del 1925, la Corte torinese accedeva alla tesi dominante, secondo cui «diverso è invece il diritto che tutela, nella vigente legislazione, l’opera dell’esecutore musicale ed è quello derivante dal rapporto di locazione d’opera» [58]. Gli avvocati della controparte, insieme all’Eiar, conseguirono una rilevante vittoria: la Corte decise infatti che per legge in caso di radiodiffusione gli artisti avevano diritto solo ad un equo compenso.

Ma in questa partita ricca di colpi di scena non manca l’imprevisto.

La Corte d’appello torinese, pur dando ragione all’Eiar sulla natura del diritto degli artisti esecutori, andò oltre e fece due affermazioni contraddittorie, di cui la seconda indimostrata: 1) che in base al contratto collettivo di lavoro del 28 dicembre 1934, «la radiotrasmissione non è completa finché non sia stata trasmessa da tutte le stazioni della Ditta concessionaria, in modo che le radiotrasmissioni differite per le rimanenti stazioni sono a considerarsi, rispetto alle altre precedenti, come un’unica radiotrasmissione simultanea» [59], salvo diversi accordi contrattuali tra le parti (che nella fattispecie, va segnalato, non risultano): «occorre dunque essenzialmente riferirsi per ogni fattispecie ai singoli accordi contrattuali per stabilire di volta in volta quali siano gli impegni assunti verso il concessionario delle radiotrasmissioni dagli aventi diritto» [60].

2) che l’Eiar aveva violato gli accordi contrattuali, poiché «conclusosi un determinato accordo fra la Ditta concessionaria e l’impresa teatrale relativamente alla radiotrasmissione simultanea delle opere «Madame Butterfly» [sic] ed «Andrea Chenier» [sic], non era ammessibile [sic] che venissero effettuate, per qualunque motivo, altre successive radiotrasmissioni delle medesime esecuzioni, senza una nuova autorizzazione degli aventi diritto» [61].

A fronte di tali enunciati, gli avvocati dell’Eiar (ora Vassalli e Ferri) ricorsero in Cassazione, come anche gli avvocati della Pampanini per opposte ragioni.

Gli avvocati del celebre soprano riproposero la tesi del diritto esclusivo dell’artista, fondato sulla natura creativa dell’esecuzione, e addussero la competenza della giurisdizione ordinaria, ai fini del risarcimento del danno.

Vassalli e Ferri, viceversa, contestarono che l’Eiar avesse tenuto un comportamento illegittimo in quanto non conforme al disposto della legge del 1928. Si trattava di stabilire quando il diritto di radiodiffusione fosse consumato. La legge in questione non chiariva il punto, a differenza dell’art. 1 del successivo r.d.l. 5 dicembre 1938 n. 2115, il quale disponeva: «la radiodiffusione di esecuzioni artistiche da luoghi pubblici, di cui all’art. 1 della legge 14 giugno 1928, n. 1352 è effettuata: a) simultaneamente all’esecuzione; b) ovvero in tempo successivo a mezzo di registrazione su disco o nastro o con procedimenti analoghi. In tal caso la radiodiffusione denominasi differita». Secondo i difensori dell’Eiar, l’articolo doveva interpretarsi nei termini previsti da un accordo sindacale del 28 dicembre 1934 tra la Federazione nazionale fascista degli industriali dello spettacolo e la Federazione nazionale fascista dei lavoratori dello spettacolo, e cioè nel senso che l’Eiar consumava il suo diritto solo dopo aver trasmesso una prima volta l’opera, in simultanea o in differita, da tutte le sue stazioni. In caso contrario, avrebbe dovuto «corrispondere ai prestatori di opera artistica che hanno partecipato all’esecuzione un compenso supplementare la cui entità sarà fissata di volta in volta dalle competenti organizzazioni sindacali» [62].

Si poteva solo discutere se spettasse un compenso supplementare per le differite. La questione era complicata dal fatto che la controversa radiodiffusione era avvenuta per motivi di propaganda: in tal caso, tanto l’art. 4 del nuovo r.d. 5 dicembre 1938, quanto l’accordo sindacale del 1934, escludevano ogni compenso supplementare.

Sul piano processuale, si ribadiva l’incompetenza della giurisdizione ordinaria: dato che il comportamento dell’Eiar ricadeva nella sfera di applicazione dell’espropriazione autorizzata dalla legge del 1928, la causa avrebbe dovuto essere decisa dal collegio arbitrale dalla stessa previsto.

A tali argomenti rispose la Cassazione S.U., con la sentenza del 22 gennaio 1940 n. 257, rigettando, in primo luogo, la tesi del diritto esclusivo: «concettualmente l’interprete, sia pure eccellente, è sempre nel campo dell’esecuzione» e può ottenere tutela solo nell’ambito del rapporto di locazione d’opera [63].

La Corte d’Appello torinese vide dunque confermata la propria tesi, che collimava con la prospettiva di Piola Caselli e del collegio difensivo dell’Eiar. Su questo punto, il ricorso della Pampanini fu giudicato infondato e fece tramontare definitivamente un’idea che altrove era ancora attuale. Nella densa memoria a confutazione del ricorso avversario del novembre 1939, d’altronde, lo studio Vassalli aveva allegato, a sostegno della Corte d’Appello torinese, una nutrita documentazione di opinioni conformi, che non deve aver lasciato indifferente la Suprema Corte: in particolare gli Atti della Conferenza di Roma del 7 maggio-2 giugno 1928 e del III Congresso internazionale di telefonia senza fili dell’ottobre 1928; l’articolo di Piola Caselli del 1937 e l’altro di A. Giannini del 1931; il rapporto del B.I.T. del 28-29 novembre 1938 e le conclusioni del Comitato di esperti. Da ultimo, a chiudere il cerchio, la legge del 1928 e un precedente giurisprudenziale francese [64].

Minor fortuna ebbe l’Eiar con l’altro motivo di ricorso: la Cassazione, infatti, decise che il suo comportamento era stato illegittimo, in quanto non conforme alla legge del 1928, interpretata in modo diverso da quanto suggerito in udienza dallo studio Vassalli. Secondo la suprema Corte, a mente dell’art. 3 del r.d. del 1938, l’espropriazione era consumata quando la prima radiodiffusione fosse avvenuta «nell’uno o nell’altro dei modi previsti», cioè in simultanea o in differita, e non congiuntamente; altrimenti avrebbe dovuto essere corrisposto un ulteriore compenso pari al 20% del primo. Cadeva l’argomento dei difensori dell’Eiar e con esso anche la pretesa incompetenza del giudice ordinario, poiché si era al di fuori dell’ambito di applicazione della legge del 1928. La causa fu rinviata alla Corte d’Appello di Torino [65].

La sentenza delle S.U. fu pubblicata su tre periodici. Da quel momento in poi, le riviste giuridiche tacciono sulla vicenda.

A questo stadio, possiamo apprendere le mosse successive dell’Eiar dalla sola lettura della comparsa conclusionale del 18 aprile 1940, conservata nell’Archivio Vassalli, che a questo riguardo appare come l’unico documento disponibile per accertare i fatti.

In tale comparsa, gli avvocati sostennero con fermezza che l’espro­priazione prevista dalla legge del 1928 cessava solo nel momento in cui l’opera fosse stata radiodiffusa, sia in simultanea sia in differita, da tutte le stazioni dell’Eiar. In altre parole, era rimessa in discussione l’interpre­tazione sostanziale della Cassazione, sulla base di quanto scritto nell’art. 3 del r.d. del 1938. Esso, infatti, riferito nella sua integralità, stabiliva che «mediante il pagamento dei compensi di cui ai commi precedenti l’Ente medesimo ha la facoltà di radiodiffondere da tutte le proprie stazioni simultaneamente, ovvero in tempi successivi da gruppi di stazioni, purché in ogni caso le radiodiffusioni avvengano entro dieci giorni dalla prima». Il termine di decadenza dei dieci giorni era una novità del decreto del 1938, in questa parte innovativo e non interpretativo della legge del 1928, e perciò inapplicabile retroattivamente al caso. La perentoria conclusione degli avvocati era che «pertanto, mentre per un solo gruppo di stazioni si ebbe la trasmissione dell’opera intera, per gli altri gruppi si ebbe soltanto la trasmissione di singoli atti: e tutto ciò era perfettamente consentito in regime di espropriazione e in base al compenso già corrisposto dal­l’EIAR» [66].

Per queste ragioni, gli avvocati dell’Eiar ritennero che non fosse dovuto alcun compenso. In subordine, tuttavia, qualora la Corte d’Ap­pello avesse invece deciso per l’illegittimità del comportamento del­l’Eiar, i suoi avvocati affermarono che la cantante non avrebbe potuto pretendere nulla più di un compenso economico aggiuntivo, unica voce di danno emergente. Di quali altri danni avrebbe potuto chiedere il risarcimento? Sotto questo profilo, la comparsa rivela che la Pampanini dopo la sentenza della Cassazione aveva chiesto i danni derivanti dalle «mancate scritture presso gli Enti autonomi per gli anni 1937, 1938, 1939, delle mancate scritture estere specialmente americane, oltreché delle mancate trasmissioni e radiodiffusioni dai vari teatri e da ogni manifestazione».

La comparsa continua con una serrata, dettagliata e articolata serie di argomenti contrari a tali pretese, ben superiori ad un semplice compenso aggiuntivo. Una vera e propria raffica di obiezioni in fatto e in diritto non facili da respingere. La Pampanini aveva dunque fatto causa per ottenere non tanto un equo compenso, quanto un cospicuo risarcimento per i danni derivati dalla presunta imperfetta radiodiffusione delle sue esibizioni sul palcoscenico del Costanzi a lesione della propria reputazione artistica. A questa domanda, lo studio Vassalli opponeva che l’imperfezione delle trasmissioni non poteva essere sollevata in sede di appello e che comunque non poteva essere oggetto di un ricorso all’autorità giudiziaria, bensì di un reclamo al Ministero delle comunicazioni, come previsto nella legge del 1928: ciò che la cantante non aveva fatto. Non restava dunque che un eventuale compenso aggiuntivo a titolo d’indennità, addirittura minore di quello a suo tempo offerto dall’Eiar.

A monte, naturalmente, cioè prima di scendere nel merito, gli avvocati avevano sollevato eccezione di incompetenza per materia, basata sul fatto che la Cassazione aveva sì escluso che la causa rientrasse nella giurisdizione arbitrale prevista dalla legge del 1928, ma aveva anche sposato la tesi secondo la quale la prestazione dell’artista, seppure eccelsa come nel caso concreto, doveva trovare tutela nell’ambito del rapporto di locazione d’opera: e dunque, incalzavano i legali, la causa avrebbe dovuto essere decisa dal giudice del lavoro. Anche in tale sede, comunque, la Pampanini poteva apparire carente di legittimazione ad agire, se la pretesa, per ipotesi estranea al regime di espropriazione instaurato dalla legge del 1928, fosse stata fondata sul contratto di lavoro, dato che questo era intervenuto tra l’impresario e l’Eiar, non direttamente con la cantante: anche se questa obiezione, a dire il vero, non era così insuperabile [67].

Ad ogni modo, ci sono indizi sufficienti per giustificare il fatto che l’archivio della Corte d’Appello di Torino, allo stato, non conservi una seconda sentenza sulla controversia: può essere che, data la complessità della causa, le parti siano addivenute ad una transazione o ad una rinuncia.

La sentenza della Cassazione, viceversa, costituì un punto fermo e un dibattito lo generò, per lo più a favore, anche se con qualche voce contraria [68]. Si possono citare inoltre altre sentenze che, nello stesso periodo, negarono agli artisti il diritto esclusivo di radiodiffusione: in Francia, oltre alla già menzionata decisione del 1937, intervenne la Cassazione il 24 dicembre 1940 [69]. Infine, nel 1940 erano già molto avanzati i lavori preparatori della legge del 1941 che, come è noto, furono dominati dalla personalità di Piola Caselli e quindi dalla sua idea contraria all’introduzione del diritto esclusivo degli artisti esecutori.

La Cassazione italiana contribuì dunque a portare acqua a questo mulino e a far riflettere sugli aspetti critici della legge del 1928. Una nuova fase di questa storia, che si credeva forse conclusa dopo il varo della riforma, si sarebbe aperta nei decenni successivi.


Appendice

App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, Eiar c. R. Pampanini, in Arichivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Corte d’appello, Sentenze civili, vol. 296, sentenza 477/1939, pp. 1-30

[pp. 1-10: omissis]

Diritto

I L’eccezione d’improponibilità dell’azione per incompetenza temporanea, ai sensi dell’art. 24 cod. proc. pen. è destituita di ogni fondamento.

L’art. 24 suddetto ha sancito la regola che l’azione civile riparatoria può essere proposta così in sede civile, come in sede penale. Ma, avendo il legislatore riconosciuta l’influenza pregiudiziale normale del giudizio penale sul giudizio civile, all’azione penale venne data in ogni caso la precedenza rispetto a quella civile. Ne consegue che, ove l’azione riparatoria venga proposta davanti al giudice penale, s’intende rinunciata la correlativa facoltà di adire per lo stesso oggetto il magistrato civile. E viceversa, portata l’azione di danni in sede civile, prima o dopo il promovimento dell’azione penale, il giudizio civile dev’essere sospeso finché non sia pronunciata nella istruzione la sentenza di proscioglimento non più soggetta ad impugnazione o, nel giudizio penale, la sentenza irrevocabile.

Questa la norma, dalla quale appare chiaramente come nel caso in esame non esistesse verun impedimento alla proponibilità dell’azione riparatoria in sede civile, mentre era in corso il giudizio penale. La tesi contraria sostenuta dall’appellante società è in antitesi coi principii sopra enunciati. Perché è proprio la legge di rito che, con la disposizione già richiamata, contempla il caso della persona danneggiata dal reato la quale, dopo avere denunciato al giudice penale il fatto delittuoso, proponga dinanzi al giudice civile l’azione di risarcimento. Ed il legislatore non commina in tale ipotesi né inibitorie né decadenze, ma semplicemente dispone la sospensione del giudizio civile. Il che si traduce in altri termini nel divieto fatto al magistrato di emettere pronuncia di alcun genere sull’a­zione così promossa, finché non conosca l’esito definitorio del giudizio penale.

Tale essendo la regola, è assolutamente fuori di posto il parlare di mancanza di giurisdizione, la sospensione del giudizio è cosa ben diversa e venne in questo caso perfettamente osservata. Infatti la sentenza del Pretore di Roma di non doversi procedere per estinzione del reato è stata pronunciata il 18 Gennaio 1938, mentre la sentenza del Tribunale di Torino porta la data del 9 Aprile seguente.

II La Corte ha dovuto anteporre l’esame dell’eccezione di incompetenza temporanea perché la stessa poteva essere facilmente risolta, prescindendo completamente dall’esame di merito.

Non altrettanto può dirsi delle altre due eccezioni preliminari, sollevate in questo giudizio, dalla difesa dell’Eiar ed aventi per oggetto l’in­competenza per materia o meglio il difetto di giurisdizione della autorità giudiziaria ordinaria e la carenza di azione per parte della Signora Pampanini Rosetta instante.

Non si può infatti conoscere di tali questioni preliminari ove prima non si risolva il quesito fondamentale ed indubbiamente arduo di tutta questa causa: se cioè il fatto denunciato dalla Sig.ra Pampanini concreti o meno una violazione della vigente legge sulla tutela del diritto d’autore.

Se invero si ritenesse, come ha ritenuto il tribunale con la sentenza impugnata, che nel fatto lamentato esiste la contravvenzione prevista dall’art. 61 della ricordata legge, nessun dubbio potrebbe sussistere in ordine alla competenza della autorità giudiziaria ordinaria, trattandosi di vera e propria azione ex delicto.

Ma, se invece la domanda attrice si dovesse considerare tutelabile dalla legge sui diritti d’autore, di guisa che la questione si riducesse alla richiesta di un compenso per le radiotrasmissioni non autorizzate, allora, in base all’art. 9 della Legge 14 Giugno 1928 n. 1352 ed agli art. 40 segg. del Decreto Ministeriale 20 Agosto stesso anno, verrebbe meno completamente la competenza del giudice ordinario. Ed in tale caso anche l’eccezione di carenza d’azione dovrebbe essere interamente assorbita dalla preminente declaratoria d’incompetenza assoluta, rilevabile anche d’ufficio.

III Occorre dunque affrontare la maggiore e più disputata questione relativa alla illegittimità o meno delle denunciate radiotrasmissioni. Le parti discutono sul numero e sulla data di tali trasmissioni differite, ma la Corte, in considerazione della soluzione che sta per adottare, ritiene di poter prescindere da tale argomento che non avrebbe relazione se non con la domanda subordinata di danni.

Ha sostenuto la Pampanini ed ha giudicato il Tribunale che il comportamento della Società Eiar abbia costituito un illecito ed un illecito penale, in quanto violatore del menzionato art. 61 della Legge sul diritto d’autore.

Necessariamente, per giungere a questa conclusione, si dovrebbe risolvere in senso favorevole alla Pampanini il previo quesito d’ordine generale circa l’estensibilità della suddetta legge alla tutela degli esecutori d’opere musicali.

Non ritiensi di poter seguire codesta opinione.

Se al quesito si dovesse rispondere de lege ferenda la Corte non esiterebbe a schierarsi per l’affermativa, in considerazione dell’importanza talvolta essenziale che l’esecuzione dell’opera può avere sul successo della medesima, pur dovendosi in tal caso contemperare opportunamente i diritti dello autore della composizione musicale con quelli dell’esecutore.

Ma, trattandosi invece di giudicare de lege lata, è dovere del Magistrato, qualunque sia l’ammirazione per artisti lirici sommi, come quelli fra i quali assidesi l’odierna appellata, concludere recisamente per la negativa.

Lo stesso Tribunale, per arrivare ad una decisione favorevole all’in­stante, ha dovuto superare non poche difficoltà ed abbozzare una figura di diritto analogo a quello d’autore, applicando così la legge ad un caso non previsto ed oltre i limiti consentiti.

Leggesi infatti nella sentenza impugnata che all’artista lirico non può contestarsi sulla sua specifica interpretazione un diritto che è tutelato esso pure, come quello dell’autore, per quanto a titolo diverso, dal R.D.L. 7 Novembre 1925 n. 1950.

Ma, per ricondurre il diritto dell’esecutore nell’ambito di questa legge speciale, il Tribunale ha dovuto riferirsi al concetto dell’elaborazione contemplato dall’articolo 2, facendone però, a giudizio della Corte, un’ap­plicazione assolutamente erronea.

Quando la legge parla infatti di elaborazione, vuole evidentemente alludere ad una trasformazione, sia pure di lieve entità, in modo da presentare l’opera originale sotto una veste nuova e diversa. Ciò si desume dalle indicazioni esemplificative contenute nel suddetto art. 2 ove si parla di traduzioni in altra lingua, di trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, di adattamenti, riduzioni, compendi e via dicendo. Si comprende allora che un elemento originale e creativo possa individuarsi in codeste forme e presentazioni nuove tanto da estendere ad esse la difesa del diritto di autore. Ma l’esecuzione musicale, fatta o col canto o con appositi strumenti, non può e non deve scostarsi dallo spartito, vero ed unico prodotto della creazione originale, della ispirazione e quindi vera opera dell’ingegno.

Non sarebbe tollerabile da parte del compositore che l’esecutore dell’opera, per quanto insigne, modificasse, variasse, trasformasse, in una parola elaborasse quella serie organica di note, di toni e di ritmi dai quali l’autore si è riproposto un certo effetto o una certa armonia.

Quindi non devesi, in questo particolare campo, parlare di elaborazione, ma devesi semplicemente restare nei limiti della pura e semplice esecuzione. Entro i quali poi non dev’essere consentito neppure d’in­trodurre sempre de lege condita una distinzione fra esecutore ed esecutore, nel senso di attribuire una maggiore difesa ai sommi e nessuna tutela agli infimi.

Perché ad ogni vertenza occorrerebbe addivenire a constatazioni difficili o comunque antipatiche, senza avere neppure il modo di seguire una linea di demarcazione assoluta fra l’una e l’altra esecuzione [fra-ese­cuzione add. interl.] da cui la possibilità d’ingiustizie e di sperequazioni assolutamente deprecabili.

E quando si pensi che, rispetto al diritto di autore del compositore, l’esecuzione è perfetta allorquando si limita a riprodurre in tutta la sua esattezza musicale quelle note e quei ritmi, è logico inferirne che l’opera dell’artista di canto o del maestro di musica non può avere in sé quel movimento creativo, concettuale, originale che è indispensabile a costituire l’opera d’arte.

Il Piola Caselli ha dato di tale opera tutelabile la migliore definizione quando ha detto che essa è costituita da quelle creazioni intellettuali che rappresentano alla mente, in forma originale od individuale, un contenuto di fatti, di idee e di sentimenti, mediante la veste sensibile fornita dalla parola, dalla musica o dalle arti figurative e che costituiscono prodotti concreti e determinati, atti ad essere pubblicati e riprodotti.

Diverso è invece il diritto che tutela, nella vigente legislazione, l’opera dell’esecutore musicale ed è quello derivante dal rapporto di locazione d’opera. Ove si tenga presente questo concetto, si potrà sempre trovare in esso la legittima difesa degli incontestabili diritti degli artisti anche in relazione alle registrazioni meccaniche delle loro esecuzioni.

In tale senso è infatti orientata tutta la più recente legislazione e nell’identica direzione va avviandosi anche la stessa regolamentazione dei diritti collettivi di lavoro.

Anzi in quest’ultimo campo si è arrivati ad un criterio maggiormente aderente ai moderni e più perfezionati mezzi tecnici di esecuzione, perché si è ammesso sostanzialmente il principio che il concessionario di servizio di radiotrasmissione (leggi Eiar) possa, col mezzo di impressioni elettro magnetiche su speciali nastri di acciaio a ciò destinati, riprodurre la medesima esecuzione attraverso tutte le sue stazioni radiotrasmittenti, senza corrispondere al complesso orchestrale nessun maggiore emolumento di quello pattuito. In tal modo si è accettato il presupposto che la radiotrasmissione non è completa finché non sia stata trasmessa da tutte le stazioni della Ditta concessionaria, in modo che le radiotrasmissioni differite per le rimanenti stazioni sono a considerarsi, rispetto alle altre precedenti, come un’unica radiotrasmissione simultanea.

Questa è appunto la sostanza dell’accordo 28 Dicembre 1934 concluso tra la Federazione Nazionale Fascista degli industriali dello spettacolo e la Federazione Naz. Fascista dei lavoratori dello spettacolo, relativo al trattamento economico da effettuarsi ai prestatori d’opera artistica addetti alle esecuzioni trasmesse dalle stazioni radiofoniche.

Allo stesso fondamentale principio informatore sono pure ispirati tanto la legge 14 Giugno 1928 n. 1352, quanto il relativo regolamento 20 Agosto 1928, in quanto in entrambi è contemplato nulla più di un «equo compenso» che gli aventi diritto possono pretendere dal concessionario come retribuzione della loro opera.

Né da diversi concetti è guidato il R.D.L. 5 Dicembre 1938 che parla sempre di un diritto a compenso tanto per le radiotrasmissioni contemporanee, quanto per quelle differite, pur contemplando per la prima volta questo secondo caso.

Occorre dunque essenzialmente riferirsi per ogni fattispecie ai singoli accordi contrattuali per stabilire di volta in volta quali siano gli impegni assunti verso il concessionario delle radiotrasmissioni dagli aventi diritto, tenendo presente che tutti costoro (dei quali è fatta specifica menzione dall’art. 5 del più volte richiamato D.leg. 20 Agosto 1928) sono sempre rappresentati, così nelle trattative come nell’esecuzione dei diversi contratti, dall’impresario o dall’ente esercente. Questi dovrà pure rappresentarli nelle eventuali contestazioni per le quali esiste un’espressa deroga legislativa alla giurisdizione ordinaria, mediante la costituzione dello speciale collegio arbitrale contemplato dall’art. 5 della Legge 14 Giugno 1928.

Concludendo si deve ammettere che il comportamento dell’Eiar, nella fattispecie denunciata, sia stato effettivamente abusivo ed illegittimo. Trattasi però non di un illecito penale come ritennero i primi giudici, sì bene di un’illegittimità puramente contrattuale, nel senso che, conclusosi un determinato accordo fra la Ditta concessionaria e l’impresa teatrale relativamente alla radiotrasmissione simultanea delle opere «Madame Butterfly» [sic] ed «Andrea Chenier» [sic], non era ammessibile [sic] che venissero effettuate, per qualunque motivo, altre successive radiotrasmissioni delle medesime esecuzioni, senza una nuova autorizzazione degli aventi diritto.

E la questione, ristretta così al campo puramente civilistico, doveva necessariamente trovare la sua soluzione non attraverso una declaratoria – sia pure ai soli effetti civili – di contravvenzione alla legge sui dirit­ti d’autore (nel caso, come fu detto, inapplicabile), sì bene attraverso l’esame di una giurisdizione speciale nelle particolari forme dalla legge disposte.

In conseguenza deve la Corte rilevare e dichiarare la propria mancanza di giurisdizione, omettendo ogni pronuncia in ordine alla inibitoria della provvisoria esecutorietà della sentenza impugnata, per avervi l’ap-pellante espressamente rinunciato e per il tenore della presente pronuncia.

P.Q.M.

Respinta ogni diversa istanza eccezione e deduzione ed in particolare l’eccezione d’incompetenza temporanea presentata dall’appellante Eiar

In riforma della sentenza 18 Marzo-9 Aprile 1938 del Tribunale di Torino, del cui appello si tratta

Premesso che il fatto denunciato dalla appellata Pampanini Rosetta non è tutelato dalla vigente legge sul Diritto d’autore

Dichiara la propria incompetenza assoluta a giudicare del rapporto giuridico del quale è questione.

Condanna l’appellata Pampanini a rifondere all’appellante Società Eiar tutte le spese del presente giudizio, tanto di primo che di secondo grado, liquidandole al netto delle prescritte ritenute, nella complessiva e rispettiva somma di L. 1755,30 (millesettecentocinquantacinque e cent. 30) comprese (L. 1200 per onorario avvocato) e di L. 3490, 75 (tremilaquattrocentonovanta e cent. 75) comprese lire 1800 per onorario d’av­vocato.

Pone inoltre a carico della stessa appellante le spese della presente sentenza, di sua registrazione e le altre successive occorrende.

Torino 29 Marzo 1939 XIII


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NOTE

[1] L’importanza di questa decisione è riconosciuta, a distanza di anni, da De Sanctis (1957), p. 8, e De Sanctis (1958), p. 175.

[2] Tra le poche indagini storiche che si sono occupate dei diritti degli artisti interpreti ed esecutori si possono citare Fleischer (2015), sui diritti delle industrie discografiche nell’esperienza svedese in una prospettiva segnata dall’egemonia del modello italiano elaborato durante il Fascismo (con bibliografia non in lingua italiana); Zucconi (2019), su una controversia giurisprudenziale concernente i diritti di radiodiffusione nell’Italia fascista; Moscati (2020), cap. VIII.

[3] App. Milano, 8 luglio 1929, J. Mestres c. A. Bonci, in «Il foro italiano», 55 (1930), I, cc. 56-58, e in «Il diritto di autore», 1 (1930), pp. 83-86.

[4] Sulla storia della radio italiana è basilare la monumentale opera di Monteleone (2021); cfr. anche Anania (2004/2021). Sulla fase del ventennio fascista: Hendel (1983); Candussi (2003); Lari (2018).

[5] Prima ancora, il 9 aprile 1936, la cantante aveva denunciato i fatti alla Procura di Roma, che aveva ordinato il sequestro delle registrazioni incriminate ai sensi dell’art. 61 della legge 7 novembre 1925 n. 1950 sul diritto d’autore e trasmesso gli atti al Pretore di Roma. Il giudizio penale non si svolse per il sopravvenuto decreto di amnistia del 15 febbraio 1937 n. 77 e la Pampanini fece ricorso al Tribunale civile di Torino il 13 maggio 1937.

[6] Il riferimento è ai celebri processi Manzoni/Le Monnier (Moscati, 2017b) e Verga/Mascagni (Torre, 2019), nei rispettivi contesti. Nella stessa linea metodologica qui sostenuta: Moscati (2021) e i saggi citati infra, nt. 19.

[7] Si tratta di Vassalli/Ferri (1939a), (1939b) e (1940), fascicoli a stampa ora conservati dal Polo di Archivio Storico dell’Università di Milano-Bicocca, per generosa donazione degli eredi del prof. Giuliano Vassalli. Su Ferri: Vassalli (1992) e Treggiari (1996).

[8] Per la biografia: Celletti (1964), Landini (2014) e il libro di Argentieri (2019).

[9] La Pampanini incise l’opera completa in disco nel 1928 con i complessi scaligeri diretti da Lorenzo Molajoli: su questa famosa interpretazione condivido il giudizio di Giudici (2007), pp. 1027-1028. Alla Scala la presentò nel novembre 1925, anniversario della morte di Puccini.

[10] Per i dati cronologici, Marinelli Roscioni (1978), p. 233; Marinelli Roscioni (1990), p. 154. Il debutto di Gigli sul palcoscenico del Costanzi, come il teatro romano era denominato prima di essere acquistato dal Comune nel 1926, è del 1916; la Pampanini vi cantò dal 1920. L’interpretazione di R. Pampanini dell’aria La mamma morta, incisa tre volte (Fonotipia 74990 e 120149; Columbia 14690), è vocalmente eccellente.

[11] Un frammento del duetto finale (datato Roma 1937), di suono molto precario, si può ascoltare su www.youtube.com/watch?v=m7gHtBMSpDA. La data non è corretta: Gigli cantò Andrea Chénier a Roma nel gennaio-marzo 1936 e alla Scala nel febbraio 1937 (Marinelli Roscioni, 1990, p. 154).

[12] Battiante (2014), lettera 18 febbraio 1937, p. 111. Giordano ascoltò Gigli nel ruolo del poeta rivoluzionario alla Scala già nel 1932 e il 5 gennaio 1933 gli regalò una foto ricordo con dedica, riprodotta in Marinelli Roscioni (1978), p. 174.

[13] Per questo specifico aspetto cfr. Cannistraro (1975), pp. 225-271; Hendel (1983); Monteleone (1992/2021), pp. 53-194.

[14] App. Milano, 8 luglio 1929, cit., cc. 56-58. Di opinione diversa Bettoni (1929), senza citare il caso.

[15] Trib. Milano, 31 luglio 1911, R. Stracciari c. Società italiana di fonotipia, in «Giurisprudenza italiana», 63 (1911), I, 2, pp. 640-648.

[16] Una minuta descrizione del procedimento di incisione, con la distinzione tra disco negativo padre e disco positivo metallico o campione matrice, è offerta da App. Milano, 1° ottobre 1912, Società italiana di fonotipia c. F. Corradetti, in «Il foro italiano», 38 (1913), I, cc. 1143-1159; in «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», 11 (1913), II, pp. 309-318.

[17] Sul suo vasto catalogo cfr. per tutti Henstock (2004).

[18] Trib. Milano, 31 luglio 1911, cit., c. 642.

[19] Trib. Milano, 10 luglio 1911, F. Corradetti c. Società italiana di fonotipia, in «Il foro italiano», 37 (1912), I, cc. 59-63. La sentenza instaura un’analogia tra diritto all’immagine, «diritto primitivo del soggetto alla propria identità ed ai fenomeni del proprio io» e diritto sulla propria voce, andando oltre e sostenendo che «invero, poiché ogni artista, quando canta una melodia, segue, nello svolgere la forma musicale, un criterio estetico proprio, e modera con la propria volontà e col proprio sentimento, in proporzione di quel criterio, le note che vibrano dalle sue corde vocali, quell’artista ha certamente non solo come uomo un diritto personale alla sua voce ed alle sue riproduzioni, ma, come artista, un diritto d’autore sulla forma d’arte, sia pur fugace, da lui creata, e sulle riproduzioni di essa». I profili del diritto all’immagine sono ora studiati in un bel contributo da Fusar Poli (2021).

[20] App. Milano, 1° ottobre 1912, cit., c. 62.

[21] Redenti (1913), cc. 1143-1154.

[22] Musatti (1914), pp. 125-141, e Musatti (1931); opinione successivamente sconfessata da Musatti (1940). Per altri profili del caso estranei al nostro tema: Musatti (1913).

[23] Cfr., infra, § 3.

[24] Sul ruolo riformatore di Piola Caselli nella sua doppia dimensione nazionale e internazionale hanno insistito, con documentate ricerche, gli studi più aggiornati. Cfr. in particolare Fusar Poli (2012), pp. 172-173, 212-216; Fusar Poli (2013), pp. 158-159; Moscati (2015a), (2015b), (2016) e (2017a); Fusar Poli (2019); Moscati (2020), pp. 212-215 (legge del 1925), 231-233 e 236-240 (rapporti con Ruffini), 237-241 e 248-252 (revisione della Convenzione di Berna a Roma nel 1928); Fusar Poli (2021). Per un profilo biografico, oltre agli scritti citati: Melloni (2008); Bertani (2013).

[25] Convention de Berne pour la protection des œuvres littéraires et artistiques révisée à Rome le 2 juin 1928, art. 11-bis, art. 11-bis (proposition): «(1) Les auteurs d’œuvres littéraires et artistiques jouissent du droit exclusif d’autoriser la communication de leurs œuvres au public par la télégraphie ou la téléphonie avec ou sans fil, ou par tout autre moyen analogue servant à transmettre les sons ou les images. (2) Les artistes qui exécutent des oeuvres littéraires ou artistiques jouissent du droit exclusive d’autoriser la diffusion de leur execution par l’un des moyens prévus à l’alinéa precedent».

[26] Convention de Berne pour la protection des œuvres littéraires et artistiques révisée à Rome le 2 juin 1928, art. 11-bis (nouveau): «(1) Les auteurs d’œuvres littéraires et artistiques jouissent du droit exclusif d’autoriser la communication de leurs œuvres au public par la radiodiffusion. (2) Il appartient aux législations nationales des Pays de l’Union de régler les conditions d’exercice du droit visé à l’alinéa précédent, mais ces conditions n’auront qu’un effet strictement limité au pays qui les aurait établies. Elles ne pourront en aucun cas porter atteinte ni au droit moral de l’auteur, ni au droit qui appartient à l’auteur d’obtenir une rémunération équitable fixée, à défaut d’accord amiable, par l’autorité compétente».

[27] Per la discussione cfr. Conférence Rome 1928 (1929), pp. 76-77, 183-184, 210-211, 310 (voto finale). Sulla revisione della Convenzione di Berna del 1928, che introdusse il diritto morale d’autore, rimando alle belle pagine di Moscati (2015a) e (2020).

[28] De Villalonga (1928).

[29] Quintin (1928).

[30] Giannini (1928).

[31] III Congrès juridique international de T.S.F. 1928 (1929): settima sessione 5 ottobre 1928, pp. 121-149; ottava sessione 5 ottobre 1928; pp. 159-165.

[32] Piola Caselli (1929).

[33] Piola Caselli (1927).

[34] Piola Caselli (1929).

[35] Nella dottrina francese cfr. in particolare la thèse della Lehman (1935), pp. 163-171. Contro l’estensione del diritto d’autore: Audinet (1938), pp. 27-31.

[36] Per la discussione: Congrès Le Caire (1929), pp. 20-7212, 229-230. Piola Caselli si riferiva all’esperienza corporativa: spunti di riflessione per una valutazione del suo rapporto con il regime, e più in generale dell’intera legislazione sui diritti d’autore, sono contenuti negli scritti citati a nt. 19, ai quali si può aggiungere Roghi (2007). Sui motivi del tono polemico di questo intervento, cfr. il discorso del 24 dicembre 1929: Piola Caselli (1929b).

[37] Piola Caselli (1930), p. 543.

[38] Piola Caselli (1932), p. 542.

[39] Giannini (1932), p. 546.

[40] Giannini (1931). Abile negoziatore, anche sulla figura del funzionario napoletano occorrerebbe aprire un’ampia parentesi: cfr. ora l’eccellente profilo di Melis (2013). Alla discussione dei primi anni Trenta sul tema si deve aggiungere la voce di Protto (1931).

[41] Piola Caselli (1933a), p. 110.

[42] Piola Caselli (1933b), p. 179.

[43] Piola Caselli (1933b), p. 180.

[44] Piola Caselli (1927), n. 75, pp. 176-181.

[45] Piola Caselli (1937c).

[46] Tale era il fondamento sia del progetto di legge sul diritto d’autore tedesco del 1932, sia della legge austriaca del 1936.

[47] Piola Caselli (1937a) e (1937b).

[48] Congrès Stockholm (1938), p. 276.

[49] B.I.T. Conclusioni e Rapporto 1938 (1939).

[50] Samaden 1939 (1941); cfr. anche Farner (1935) e Ostertag (1939a).

[51] Piola Caselli (1937c).

[52] De Sanctis (1932a), (1932b), (1936), (1937a), (1937b), (1939a) e (1939b).

[53] Piola Caselli (1943), in particolare pp. 408-429.

[54] Hoffmann (1930); Elster (1932; Abel (1936); Piola Caselli (1938); Ostertag (1939b); Hoffmann (1939a) e (1939b).

[55] Contro la Fiktion der Bearbeiterschaft, accolta nella legge tedesca del diritto d’autore del 1910, cfr. per tutti Piola Caselli (1938); De Sanctis (1957), p. 5; De Sanctis (1958).

[56] Trib. Torino, 18 marzo-5 aprile 1938, R. Pampanini c. EIAR, in «Giurisprudenza italiana», 90 (1938), I, 2, cc. 269-271.

[57] App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, EIAR c. R. Pampanini, in ASTo, Sezioni Riunite, Corte d’appello, Sentenze civili, vol. 296, sentenza 477/1939 (inedita), trascritta in Appendice. Sono grato alla dott.ssa Daniela Cereia per il cortese e prezioso aiuto prestato nel reperire e scansionare la sentenza.

[58] App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, cit.

[59] App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, cit.

[60] App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, cit.

[61] App. Torino, Sez. I., 29 marzo-18 aprile 1939, cit.

[62] Vassalli/Ferri (1939a).

[63] Cass., S. Civ. U., 23 nov. 1939-22 gennaio 1940, R. Pampanini c. EIAR ed EIAR c. R. Pampanini, in «Il foro italiano», 65 (1940), I, cc. 129-134; «Il diritto di autore», 11 (1940), pp. 44-50; «Rivista di diritto privato», 10 (1940), II, pp. 130-148.

[64] Vassalli/Ferri (1939b). Si tratta di Trib. Civile della Senna, 18a Sez., 9 novembre 1937, in «Il diritto di autore», 9 (1938), pp. 382-382 (trad. ital. dall’originale pubblicato in «Geistiges Eigentum», 3, 1937/1938, p. 468), ovvero del caso dell’attore Rodolphe Marcilly, che aveva citato la Radio e l’agente della società cinematografica Igor per aver trasmesso senza il suo consenso la colonna sonora del film britannico Blossom Time, da lui doppiato. Il Tribunale rigettò l’istanza, osservando in particolare che all’artista non spettava alcun diritto d’autore e, con termini vicini al caso Bonci, che in mancanza di pattuizione espressa, s’intendeva che egli avesse ceduto ogni diritto di riproduzione alla società cinematografica. Cfr. Audinet (1938), p. 30.

[65] Vassalli/Ferri (1939b).

[66] Vassalli/Ferri (1940).

[67] L’obbligazione di corrispondere un equo compenso agli artisti, infatti, già in base alla legge del 1928 avrebbe potuto considerarsi di natura legale e quindi indipendente da un contratto, come sostenuto ad esempio da Piola Caselli (1937), p. 317.

[68] De Sanctis (1940a); Ferrara (1940). Contra: Di Franco (1940); Santoro Passarelli (1940); per una critica di sistema: Di Franco (1936) e (1937).

[69] Cass., 2me Ch. Nouvelle, 24 décembre 1940, in «La semaine juridique», 1941, 2 par., 1649, con nota di H. Desbois. In Italia il diritto esclusivo d’autore viene negato anche agli attori cinematografici, con la conseguenza che essi non si possono opporre alla soppressione della loro parte nell’edizione definitiva del film. Cfr. Trib. Roma, Sez. Spec. del Lavoro, 18 gennaio 1939, T. Erler c. Società anonima Aurora Film e Federazione Nazionale Fascista Industriali dello Spettacolo, in «Il diritto di autore», 10 (1939), pp. 64-68; Trib. Roma, 30 giugno 1939, R. Cialente c. Società Scalera Film, in «Il foro italiano», 65 (1940), I, cc. 178-188; «Rivista di diritto privato», 10 (1940), II, pp. 149-166; App. Roma, 5 aprile 1940, R. Cialente c. Società Scalera Film, in «Il foro italiano», 65 (1940), I, cc. 1133-1137, con nota di Musatti (1940).

Fascicolo 3 - 2022