LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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Pensiero giuridico e linguaggio cinematografico. Il falso capitano di Köpenick e lo sguardo dell'Altro (di Francesco Gambino, Università degli Studi di Macerata)


Il saggio, che intende indagare gli intrecci e le commistioni tra pensiero giuridico, filosofia e linguaggio cinematografico, si propone di ridurre a modelli descrittivi i vari fenomeni trattati allo scopo di rilevare similarità strutturali tra di essi. È una ricerca interdisciplinare volta ad evidenziare l’idea che l’attività umana, che si manifesti in costruzioni teoriche, pratiche o artistiche, muove sempre dall’uni-totalità della persona ed è atto di invenzione e di produzione di forme. Cinema, diritto, filosofia si ritrovano sulla stessa strada perché hanno di mira il medesimo oggetto: il comportamento umano. Può mostrarsi in ragione della narrazione di una storia, di uno studio di psicologia o di una terapia, delle indagini sulla intersoggettività o in funzione di una regola giuridica. In questo scenario, cinema e diritto condividono tra loro e con altre pratiche il destino empirico della nostra evoluzione culturale.

Legal Thought and Cinematographic Language. The Fake Captain Köpenick and the Look of Others

The paper aims to explore the intertwining of legal thought, philosophy, and cinematographic language, and proposes to reduce to descriptive models the various phenomena considered to detect the structural similarities they share. It is an interdisciplinary research study, which gives rise to the idea that human activity, expressed in theoretical, practical, or artistic constructions, always moves from the unitotality of the individual and is an act of invention or production of forms. Cinema, law, and philosophy proceed on the same road because they share the same target: human behavior. It can come up in narrating a story, in a study of psychology or a therapy, in an investigation on intersubjectivity or in a legal regulation. In this scenario, cinema and law share, between them and with other practices, the empirical destiny of our cultural evolution.

1. Il celebre caso del falso capitano di Köpenick - 2. Rappresentazioni teatrali e cinematografiche della vicenda - 3. Significati oggettivi e significati soggettivi nel mondo del diritto. Una pagina di Hans Kelsen - 4. Segue: la contraffazione eidologica - 5. Modi di datità della finzione - 6. I destinatari della finzione e i comandi di Wilhelm Voigt - 7. Il film Der Hauptmann von Köpenick di Helmut Käutner. Lo sguardo dell’Altro - 8. Segue: la vergogna e la fierezza. La correlazione tra aus-sehen e an-sehen - 9. Segue: la malafede - 10. Segue: la menzogna - 11. La forma in ambito giuridico e in ambito cinematografico: immagine del fatto, immagine-fatto, immagine-tempo - 12. Il comportamento tra cinema, filosofia e pensiero giuridico. L’aspetto oggettivo dei fatti dell’uomo - 13. Destini del linguaggio cinematografico - Bibliografia - NOTE


1. Il celebre caso del falso capitano di Köpenick

La prima pagina de La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1906, in dono agli abbonati del Corriere della Sera, mostra un disegno a colori di Achille Beltrame, che raffigura il sindaco ed il cassiere di Köpenick arrestati da un mariuolo, a capo di un drappello prussiano.

L’illustrazione si riferisce al caso, celebre e bizzarro, dell’«allegro imbroglione di Köpenick» che ha fatto «smascellar dalle risa mezza Europa», quella vecchia Europa «più spesso attristata da cattivi sogni politici, da incubi di corazzate, da dolori di armamenti»[1].

Leggiamo nell’inserto che

un cassiere municipale e un sindaco (quelli di Köpenick presso Berlino) che non hanno fatto mai male a una mosca e sono in regola coi conti dei contribuenti, un bel giorno della scorsa settimana veggono entrare in ufficio un capitano della guardia circondato dalla polizia. Essi sono dichiarati in arresto. Allibiscono, ma hanno il coraggio di domandare:
– Perché in arresto? –
– In nome dell’Imperatore –
Innanzi al nome formidabile chinano la testa, e tacciono.
– Dov’è la cassa? –
I due fanno cenno doloroso alla cassa. Il capitano raccoglie quanti denari trova e li intasca, lasciando regolare ricevuta […]. Il capitano che s’era servito dei soldati prussiani, della polizia reale e imperiale, degli strumenti dell’autorità legittima per perpetrare un reato e impinguare la scarsella magra, era un falso capitano ed era già lontano dal braccio irato della giusta offesa[2].

Fig. 1 – Illustrazione di Achille Beltrame, La Domenica del Corriere, 28 ottobre 1906, https://www.maremagnum.com/quotidiani/la-domenica-del-corriere-28-ottobre-1906-anno-viii-n-43/130027144Fig. 1 – Illustrazione di Achille Beltrame, La Domenica del Corriere, 28 ottobre 1906, https://www.maremagnum.com/quotidiani/la-domenica-del-corriere-28-ottobre-1906-anno-viii-n-43/130027144

Il protagonista della vicenda è il prussiano Wilhelm Voigt, ex detenuto e in quel periodo saltuariamente impiegato nel lavoro di calzolaio.

Dopo aver acquistato da un robivecchi un’uniforme da capitano dell’esercito, il 16 ottobre 1906, Voigt realizza il disegno criminale di mettersi a capo di un gruppo di soldati, impartire ordini e derubare le casse comunali di Köpenick, «confiscando» oltre 4.000 marchi. Sarà arrestato e condannato a quattro anni di carcere, ma il Kaiser Guglielmo II, ultimo imperatore tedesco e ultimo re di Prussia, gli concesse la grazia il 16 agosto 1908.


2. Rappresentazioni teatrali e cinematografiche della vicenda

La vicenda ispira nel 1931 una commedia satirica in tre atti del grande drammaturgo tedesco Carl Zuckmayer e sarà in seguito oggetto di diverse rivisitazioni cinematografiche. Dalle due versioni ad opera del regista Richard Oswald (quella tedesca del 1931 e quella americana del 1941, intitolata I Was a Criminal) sino a quella diretta da Helmut Käutner, nel 1956, per il film Der Hauptmann von Köpenick, con Heinz Rühmann[3]. Mario Spagnol, nello stesso anno, ne fece un adattamento teatrale in lingua italiana, apparso sulle pagine della Rassegna mensile dello spettacolo Sipario. Seguì, nel 1973, la rappresentazione di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, con Renato Rascel nel ruolo di Wilhelm Voigt e la regia di Sandro Bolchi. In lingua inglese si ricorda la commedia di John Mortimer, con Paul Scofield, messa in scena il 9 marzo 1971; e più di recente la rappresentazione, nel 2013, del regista e direttore artistico Adrian Noble al Royal National Theatre di Londra.

La storia di Voigt è richiamata nei libri scolastici tedeschi, in quelle pagine che prendono a bersaglio la Germania guglielmina, emblema della vuota retorica delle forme e di una inflessibile obbedienza alle gerarchie militari.

Ma il destino culturale di questa incredibile storia dei primi del Novecento era già stato intuito dalla penna del giornalista de La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1906: «La pochade e la vita, alle volte, s’intrecciano con nodi inestricabili: l’inverosimile è vero, il vero diventa inverosimile. E il dramma della vita reale ha qualche volta il sapore della pochade, e l’eroe malfattore può persino assumere l’aspetto d’un simpatico eroe teatrale»[4].

Fig. 2 – Fotografia di Wilhelm Voigt in frac, 1912, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Wilhelm_Voigt_-_Hauptmann-von-K%C3%B6penick_im_Frack.jpgFig. 2 – Fotografia di Wilhelm Voigt in frac, 1912, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Wilhelm_Voigt_-_Hauptmann-von-K%C3%B6penick_im_Frack.jpg


3. Significati oggettivi e significati soggettivi nel mondo del diritto. Una pagina di Hans Kelsen

La storia di Wilhelm Voigt, che ha interessato giornalisti, storici, scrittori[5], illustratori, cineasti, registi teatrali e produzioni televisive non poteva non attirare la sensibilità dei filosofi del diritto. Il campo di indagine è quello della distinzione tra conoscenza sociale e conoscenza giuridica, tra qualificazione e autoqualificazione, tra significati ‘oggettivi’, iscritti in un sistema di regole, e significati ‘soggettivi’ che gli uomini, quando agiscono, attribuiscono ai loro comportamenti. Il materiale sociale, a differenza dell’oggetto delle scienze naturali, può infatti nominare se stesso, autoqualificarsi, esprimere il proprio senso. Ciò accade quando l’uomo che agisce annette «un significato determinato che si esprime in un modo qualsiasi e che viene inteso da coloro cui l’atto è rivolto»[6]. Altro è tuttavia il significato soggettivo che gli uomini attribuiscono ai loro comportamenti, altro è il significato oggettivo, che compete esclusivamente al sistema del diritto[7]. È nella possibilità di equivocare tra i due significati che fa affidamento Wilhelm Voigt per realizzare il suo disegno criminale. Da un lato i comandi fermi e perentori, inquadrabili nell’ambito di quegli atti sociali che recano l’enunciazione di ciò che significano; dall’altro, il confidare che i destinatari di quei comandi riconoscano, in quelle parole, il significato proprio del sistema del diritto oggettivo. La verità giuridica dei comportamenti di Voigt, che giunse poche ore dopo la fuga da Köpenick, risuona in una famosa pagina di Hans Kelsen: ciò che fece «il celebre capitano von Köpenick era un atto che, nel suo significato soggettivo, voleva essere un ordine amministrativo. Oggettivamente però non lo era; era invece un delitto»[8].


4. Segue: la contraffazione eidologica

Incontriamo, nella vicenda del falso capitano di Köpenick, il fenomeno della nullità che, assente nell’ambito della natura, caratterizza e distingue la realtà sociale[9]. L’azione di Wilhelm Voigt, pur avendo la soggettiva pretesa di valere nel mondo del diritto, costituisce un atto statale nullo[10]. È una nullità che va intesa, non quale nihil absolutum, bensì come un ‘nulla’ in relazione ad un dato sistema di regole che enuncia, per l’atto valutato e giudicato, i requisiti di validità. Ciò non impedisce che il diritto – quel diritto che preveda la nullità di alcuni atti – possa assumere tali atti nulli quale condizione di applicazione di altre norme; né che l’invalidità dell’atto «lasci dietro a sé una traccia di condotta», che assuma rilevanza nell’ambito di ulteriori discipline[11].

Negli ordini impartiti da Voigt «l’entità contraffatta viene presentata come avente una validità che essa non ha»[12], esprimendo una contraffazione-di-validità. Si è in presenza di una contraffazione eidologica in quanto una «entità è presentata falsamente come realizzazione (‘instanziazione’) di un eîdos»[13]. Nel caso, Wilhelm Voigt si finge capitano dell’esercito prussiano. Questa contraffazione-di-validità, originaria e decisiva, gli aprirà la strada dell’occupazione del municipio di Köpenick e della «confisca» di oltre 4.000 marchi.

Fig. 3 – La statua di Wilhelm Voigt vestito da Capitano di Köpenick all’ingresso del municipio di Köpenick (Berlino, distretto di Treptow-Köpenick), https://it.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_VoigtFig. 3 – La statua di Wilhelm Voigt vestito da Capitano di Köpenick
all’ingresso del municipio di Köpenick (Berlino, distretto di Treptow-Köpenick), https://it.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Voigt


5. Modi di datità della finzione

L’uniforme, la postura, i movimenti del corpo, le espressioni del volto, i comandi, i toni perentori della voce costituiscono finzioni per tutti gli interlocutori che Voigt incrocia sulla propria strada. Finzioni che hanno particolari modi di datità[14]. Muovono da un contesto antigiuridico noto soltanto al falso capitano. E perciò esigono ottima attitudine imitativa[15] e piena padronanza degli atteggiamenti cinestetici[16]. Wilhelm Voigt è chiamato a stare in contatto con il suo corpo in ciascun atto che compie[17]. Entra in gioco la parvenza di oggettività dei significati di tali suoi atti nei confronti di coloro ai quali sono rivolti. È necessario, affinché si attui il disegno criminoso, il massimo effetto di realtà. La finzione qui davvero non tollera disarmonie o incertezze. Non ammette passi falsi. Una semplice titubanza, che lasciasse percepire i raggiri e la menzogna, sùbito accenderebbe l’attenzione degli sventurati irritando l’occhio del diritto; di quel sistema di regole che, volto a fissare il significato giuridico dei fatti, è preordinato ad accertare crimini e illeciti, irrogare sanzioni e infliggere pene.

Wilhelm Voigt è così costretto a mostrarsi più abile di chi recita una parte in un’opera teatrale o in un film. Poiché ne va della sua libertà, minacciata dal diritto oggettivo, deve fingere meglio dell’uno e dell’altro. Deve risultare più credibile del primo in quanto l’attore teatrale – osserva Carlo Sini – «vuole che lo spettatore rimanga consapevole della finzione, perché altrimenti il ‘gioco’ teatrale non potrebbe aver luogo»[18]. Deve inoltre mostrarsi più attendibile di un attore cinematografico in quanto la possibilità, per un film, di produrre senso si fonda su un compromesso originario; dato dalla predisposizione dello spettatore a immergersi nella finzione prendendola per realtà. È quella forma di complicità che richiede al pubblico una «sospensione dell’incredulità»[19], tale da consentire di accogliere come plausibile qualsiasi illusione. In questo senso, immagini anche razionalmente assurde possono risultare, dal punto di vista della logica percettiva, del tutto convincenti[20]. Si tratta di un atteggiamento generale della coscienza assimilabile, in certa misura, alla coscienza di lettura di un romanzo[21]; dove la sfera di significati oggettivi diventa un mondo irreale la cui esistenza è qui in relazione con le sintesi percettive dello spettatore, guidate dalle immagini in movimento.

Fig. 4 – Renato Rascel al Teatro Politeama Rossetti di Trieste ne Il capitano di Köpenick di Carl Zuckmayer, per la regia di Sandro Bolchi, 1973, https://renatorascel.com/arte/teatro/prosa/il-capitano-di-kopenick-1973Fig. 4 – Renato Rascel al Teatro Politeama Rossetti di Trieste ne
Il capitano di Köpenick di Carl Zuckmayer, per la regia di Sandro Bolchi, 1973, https://renatorascel.com/arte/teatro/prosa/il-capitano-di-kopenick-1973


6. I destinatari della finzione e i comandi di Wilhelm Voigt

L’esperienza di coloro che eseguono perplessi gli ordini di Wilhelm Voigt (granatieri, polizia, sindaco, tesoriere, ecc.) si mostra del tutto singolare. Essi scambiano per diritto una finzione e credono nella validità dei comandi impartiti da Voigt senza poterne verificare il fondamento[22]. Non hanno né il tempo né gli strumenti per un «completamento» della loro esperienza[23]; che, in altre circostanze, sarebbe stata possibile mediante il sapere comune o specialistico di altri. Incalzati dai fatti e chiamati ad un ‘salto’ nel processo di astrazione giuridica essi intercettano nell’uniforme e negli ordini del falso capitano un rimando a eventi giuridici e istituzionali che, in quella messinscena, reputano incontrovertibili. Wilhelm Voigt, usurpando una funzione di status, conta come (counts as)[24] un capitano dell’esercito prussiano. Le parole di Voigt fanno risuonare nei destinatari una coscienza di regole che li induce ad obbedire senza esitazioni. In ciò riposa la forza mistica del nuovo spazio simbolico costituitosi il 16 ottobre 1906 nel municipio di Köpenick, in comandi che possiedono, come ci chiarirebbe John R. Searle, «la direzione di adattamento mondo-a-parola»[25]. Il proposito è quello di modificare la realtà presa di mira nel senso di farla corrispondere al contenuto degli ordini impartiti.


7. Il film Der Hauptmann von Köpenick di Helmut Käutner. Lo sguardo dell’Altro

La divaricazione tra significati soggettivi e significati oggettivi, propria del mondo del diritto, e tracciata in termini così netti e decisivi, è destinata a sfumare nella rappresentazione cinematografica.

Mi riferisco al film del 1956 Der Hauptmann von Köpenick[26], candidato all’Oscar come miglior film straniero, diretto da Helmut Käutner, con Heinz Rühmann nel ruolo di Wilhelm Voigt.

Il diritto, che fissa le condotte umane in fattispecie con la pretesa di ordinare la realtà, non può qui che rifluire in quel «concatenamento» fenomenologico, proprio di qualsiasi film, che «porta il suo senso» in se stesso in quanto «il significante» risulta «a malapena distinguibile dal significato»[27]. Il linguaggio cinematografico finisce per modificare le prospettive di tutti fenomeni che, in un fitto intreccio di elementi visivi e sonori, contiene, rappresenta e narra. È inevitabile che sovrasti e annacqui anche il linguaggio normativo. Che nel film di Käutner si esprime e comprime nelle atmosfere cupe e istituzionali del carcere, degli uffici pubblici, dell’ordine di espulsione. È appena il caso di osservare – con Maurice Merleau-Ponty – che le immagini in movimento proiettate sullo schermo si rivolgono alla nostra esperienza attraverso un linguaggio che «non è la voce di nessuno perché è la voce stessa delle cose, delle onde e dei boschi»[28]. È un linguaggio che, compenetrandosi nella forma temporale del film[29], fa appello al nostro «potere di decifrare tacitamente il mondo o gli uomini e di coesistere con loro»[30]. Si rivolge ad una dimensione[31] che è, insieme, percettiva e intersoggettiva. È, questa, una linea di pensiero che il filosofo francese definisce fenomenologica o esistenziale[32]. Da un lato è grazie alla percezione che lo spettatore può accogliere il significato di un film; dall’altro è in questa percezione che egli si trova implicato in un gioco di rimandi che accoglie quel luogo anonimo e altro, che viene costituendosi nell’esperienza di «uno spazio virtuale, aperto e condiviso»[33]. È questo microcosmo, così carico del potere di significare e di coinvolgere l’esperienza più intima dello spettatore, ad allentare l’attenzione sul significato tecnico giuridico degli eventi che vi sono rappresentati. Allo schematismo normativo, che raccoglie i fatti in immagini e figure tipiche, reiterabili nel tempo e nello spazio, subentrano altri schematismi, dove la distanza tra piano empirico e piano categoriale è colmata da una visione del mondo che, svincolandosi dalla logica, si fa più intuitiva. Alla dialettica tra essere e dover essere – che con le norme imprime ai fatti un senso giuridico orientandoli verso una direzione – viene sostituendosi la trama serrata dell’esistenza umana; che nel film di Helmut Käutner si sviluppa, come accade in altri film, nella successione delle immagini in movimento, in cui azioni e reazioni trovano un ordine nel ritmo stesso della pellicola. L’immagine-tempo, sopraggiunta nel dopoguerra con il cinema moderno[34], elabora segni, concetti, figure in modo nuovo e fa del montaggio – anche nel film oggetto di queste pagine – una vera e propria tavola di categorie[35]. Categorie che hanno «forti relazioni dirette», congiungendosi tra loro in termini tali da «accedere alla necessità»[36]. È in questa stringente logica della necessità, in cui gli eventi si saldano insieme sotto le ragioni di un orizzonte di senso, che si può a mio avviso intercettare, nel film di Helmut Käutner, uno statuto riflessivo abitato da quattro fondamentali categorie: la vergogna, la fierezza, la malafede, la menzogna. Il diritto, che pure avrebbe voce in questa storia, resta a malapena sullo sfondo. Fa spazio ad un genere esistenzialista.


8. Segue: la vergogna e la fierezza. La correlazione tra aus-sehen e an-sehen

Muoviamo dal sentimento di vergogna che, nella sua struttura, appare sempre come «vergogna di fronte a qualcuno»[37]. Questo «brivido immediato» – leggiamo in una pagina di Jean-Paul Sartre – che ci «percorre dalla testa ai piedi senza preparazione discorsiva»[38] implica necessariamente l’esistenza e la presenza dell’Altro, che è il mediatore indispensabile tra me e me stesso: «ho vergogna di me stesso quale appaio ad altri» e «riconosco di essere come altri mi vede»[39]. È in questo riconoscimento che nella vergogna, come nella fierezza[40], si percepisce la natura inconoscibile e sfuggente di se stessi[41]. Avvertiamo, col provare vergogna, lo sguardo dell’altro[42] quale «solidificazione ed alienazione» delle nostre possibilità, che finisce per risolversi nella nostra stessa «trascendenza trascesa»[43].

È codesta indagine fenomenologia sulla intersoggettività originaria che, sulla linea della dialettica hegeliana servo-padrone, fa del rapporto tra due soggetti una «negazione reciproca che coinvolge il loro stesso essere»[44].

Il film di Helmut Käutner, in più di una sequenza, mostra la vergogna vissuta da Wilhelm Voigt sotto il peso dello sguardo nullificante dell’altro. Vi è la sequenza in cui egli, in cerca di lavoro, è allontanato, con fare sprezzante, dal titolare di una boutique di abbigliamento[45] che lo zittisce e gli impedisce di varcare la soglia del negozio. Vi è poi la scena in cui viene esortato da un calzolaio sull’uscio di una bottega – in cui si vedono alcuni garzoni impegnati a riparare scarpe – a cercare lavoro altrove. Ancora più eloquente è la sequenza girata in un caffè di Berlino. Si anima, in un locale antico ed elegante, un cortocircuito di sguardi, giudizi, atteggiamenti.

Ritroviamo un sentimento di profonda vergogna ed un sentimento di vana fierezza. Il primo è rappresentato nelle azioni e nelle parole di Voigt; l’altro, nei comportamenti indecorosi di un altro cliente, un soldato del terzo reggimento in stato di ebrezza. Voigt e l’amico Kalle sono seduti al tavolo, con abiti sommessi, a bere una birra quando vengono raggiunti da una donna appariscente che si intrattiene a parlare con loro. Non appena un soldato in uniforme, sbronzo e barcollante, entra nel caffè, la donna si alza per andare a sedersi al suo tavolo. Voigt, rivolgendosi all’amico Kalle, bisbiglia in dialetto berlinese: «vedi, appena arriva uno con la pelliccia colorata e i bottoni lucidi non c’è più niente da volere»[46]. «Non c’è più niente da volere»: il gioco è finito. Poco dopo, rivolgendosi ancora all’amico, aggiunge: «Wie de aussiehst, so wirste anjesehn». La frase, pronunciata di nuovo in dialetto berlinese, viene ripetuta alla fine della scena. È la conferma di un giudizio inesorabile sul proprio modo di stare nel mondo. Come ti presenti allo sguardo (come appari) così vieni guardato (considerato). Come è il tuo aspetto esteriore così gli altri ti trattano. Il cuore della negatività costitutiva del rapporto intersoggettivo, al fondamento della struttura della vergogna, sta qui nella correlazione tra aus-sehen e an-sehen.

Voigt e Kalle, uomini trasandati, vestiti con abiti sciatti e disadorni, non sono in grado di ingenerare negli altri alcuna forma di considerazione. Sono esclusi ed ignorati. Nessuno dei clienti del caffè rivolge loro la parola. I camerieri li trattano con noncuranza. Sono derisi dal soldato in uniforme e dalla donna che si è allontanata dal loro tavolo.

È in questo mostrarsi allo sguardo degli altri che riposa la natura indecifrabile della vergogna e che schiude a Voigt un giudizio su se stesso come su un oggetto[47]. Questo oggetto che appare ad altri non consiste in una «vana immagine nello spirito di un altro»[48], che lo lambisce senza riuscire a toccarlo nell’intimo. È molto di più. Si risolve, come si è sopra rilevato, in un vero e proprio riconoscimento, che è la forza occulta della vergogna. Voigt prende coscienza della situazione e riconosce di essere nel modo in cui è visto dagli altri. Diventa, come direbbe Luigi Pirandello, «l’estraneo inseparabile» da se stesso che dovrà pur sempre sopportare e portare con sé[49]. Nasce in Voigt un senso di responsabilità verso quello stesso sguardo che immobilizza le possibilità del suo essere. Egli realizza, con una certa sorpresa, che la ragione della sua trascendenza trascesa riposa in se stesso. È questo sentirsi in debito per come si mostra agli altri che lo indurrà, dopo aver ricevuto l’ordine di espulsione, ad agire e a cambiare le cose, ad acquistare l’uniforme da un robivecchi, a fare ingresso – nelle vesti di un falso capitano – nel municipio di Köpenick e a derubare le casse comunali. L’uniforme è la via di fuga dal senso di vergogna e sarà in grado di capovolgere il rapporto servo-padrone.

La divisa – poco importa da chi sia portata – rimanda ad un quid di analogo al potere di impartire ordini. Vale in sé come la possibilità di esercitare comandi ed esigere da altri obbedienza. Chi indossa l’uniforme guadagna in pubblico una posizione di supremazia che fa gonfiare il petto di fierezza. È il caso del soldato in uniforme che, entrando euforico e alticcio nel caffè, si sente autorizzato ad alzare la voce e importunare i presenti senza temere il giudizio di nessuno. L’uniforme, che trasforma il servo in padrone e deforma i rapporti fluidi e spontanei, ha l’effetto di segnare una distanza dagli altri e di collocarli in posizione di subalternità. Chi non lo indossa – come accade a V. Schlettow che nel caffè porta invece abiti civili – non ‘conta’ come capitano dell’esercito prussiano e nessun ordine egli può impartire. «Vai a casa, cambiati e allora potrai raccontarmi qualcosa!»[50] ironizza il soldato sbronzo in polemica con V. Schlettow. Gli abiti civili, sul piano sociale e istituzionale, sono un nulla. L’uniforme significa diritto di parola e potere di comando.


9. Segue: la malafede

Benché nel film il protagonista sia in cerca di lavoro (quel lavoro che gli permetterebbe di ottenere i documenti di residenza e, dunque, il passaporto per lasciare Berlino) sappiamo che nella realtà Wilhelm Voigt, dopo il periodo di detenzione, ha fatto saltuariamente il lavoro di calzolaio. Ritroviamo nella sequenza dedicata ai garzoni di bottega[51], e nella vita di Voigt, la malafede con cui l’essere umano maschera a se stesso la verità. Si risolve – come osserva Jean-Paul Sartre – nella fatica di tenere insieme il ruolo sociale (che è mera ‘rappresentazione’ per gli altri e per se stessi[52]) con la coscienza della propria eccedenza rispetto a tale ruolo. È questa malafede a spiegare, in una prospettiva esistenzialista, la perenne infelicità dell’essere umano, sempre chiamato a realizzare l’essere in sé del ruolo nel modo di essere ciò che non si è[53]. Questa frattura tra funzioni sociali e infinità dell’Io, propria dell’ossatura del nostro essere, è tanto più insanabile quanto più il ruolo risulta essere, nella realtà, vuoto e disabitato. È il caso, sopra richiamato, del soldato in uniforme che, facendo ingresso nel caffè, si abbandona ad atteggiamenti sconvenienti e inopportuni. La sbornia dell’uomo in divisa è l’emblema del tormentato e teatrale istinto di evasione dal ruolo in cui pur si permane, l’immagine dell’accettazione e, insieme, del rifiuto, di quel dover restare nonostante il bisogno di fuggire. E a mio avviso riflette, in una prospettiva capovolta, la malafede della coscienza sociale dell’epoca, così come è rappresentata, in senso complessivo, nel film di Helmut Käutner. Malafede che riposa in quel persistere nella meccanica e cieca obbedienza alle forme anche quando si palesano misere e inconsistenti.

Quando alla fine del film Voigt, trattenuto nella stazione di polizia, vede per la prima volta la sua immagine in uniforme riflessa in uno specchio, confessa, scoppiando in una risata, che mai avrebbe acquistato l’uniforme se il robivecchi avesse avuto uno specchio. È derisa, non tanto l’immagine di sé, quanto quella esteriorità che, nella Germania guglielmina delle convenzioni e delle gerarchie, risulta essere, agli occhi di Voigt, goffa e infingarda. Viene schernita, a ben vedere, quella fuga nell’imma­gine che, come accade oggi nella società dell’homo digitalis, l’uomo reputa necessaria per sentirsi più vivo e convincente di ciò che è nella realtà[54].


10. Segue: la menzogna

Mentre nella malafede, che implica l’unità di una coscienza, è a se stessi che si maschera la verità, nella menzogna si trae profitto dalla dualità ontologica dell’io e dell’io d’altri[55]. È ancora Sartre a fornirci le lenti per decifrare la natura di questo atteggiamento.

La menzogna è un comportamento di trascendenza che esprime ciò che Heidegger chiama Mitsein[56], l’originario rapporto intersoggettivo tra l’Io e l’Altro[57]. Presuppone, nella piena lucidità del piano della menzogna, «l’esistenza mia, l’esistenza dell’altro, la mia esistenza per l’altro, e l’esi­stenza dell’altro per me»[58]. È sufficiente, affinché si realizzi, «un’opacità di principio» che mascheri all’altro le proprie intenzioni; e che «l’altro possa prendere la menzogna per la verità»[59]. Il film di Helmut Käutner, nelle sequenze del travestimento, dei primi comandi impartiti ai granatieri di una caserma di Berlino, dell’ingresso nel municipio di Köpenick, dell’ordine di arresto del sindaco e del tesoriere, rappresenta – in tutti questi comportamenti – la struttura della menzogna. Non è dato sapere quale sia, nelle intenzioni del regista, l’origine del progetto di menzogna di Voigt, la causa scatenante o il momento decisivo[60]: se la vista dell’uni­forme esposta dal robivecchi, l’atteggiamento di riverenza suscitato negli altri dalla divisa non appena venga indossata o un disegno più consapevole e lontano nel tempo, maturato nel periodo di detenzione[61]. È tuttavia indubitabile, nel film, la rottura di un ordine geometrico delle azioni che sfocia in un nuovo mondo, quello costruito dalla messinscena, dai raggiri, dagli atteggiamenti cinestetici di Voigt. Lo spettatore assiste ad una totale compenetrazione dell’attore tedesco Heinz Rühmann – che interpreta Voigt – nel ruolo di ufficiale dell’esercito prussiano. Nell’atto di comandare Voigt afferma la sovranità di un soggetto istituzionale. Siamo ormai distanti da quel tormentato trascendimento verso un problematico non-essere[62], che nel quotidiano spingeva il protagonista verso una costante evasione; simboleggiata dall’ossessione per il passaporto e dal prepotente desiderio di fuga da Berlino. Per Wilhelm Voigt il 16 ottobre 1906 è il giorno della pienezza di una nuova dimensione. Egli sperimenta e assapora, seppure per poco tempo, la potenza invincibile dell’Io.

Fig. 5 – Una sequenza del film di Helmut Käutner, con Heinz Rühmann nel ruolo di Wilhelm Voigt (Der Hauptmann von Köpenick, 1956), https://www.tagesspiegel.de/kultur/heprodimagesfotos8612012012816456036-jpg/6121472.htmlFig. 5 – Una sequenza del film di Helmut Käutner, con Heinz Rühmann
nel ruolo di Wilhelm Voigt (Der Hauptmann von Köpenick, 1956), https://www.tagesspiegel.de/kultur/heprodimagesfotos8612012012816456036-jpg/6121472.html


11. La forma in ambito giuridico e in ambito cinematografico: immagine del fatto, immagine-fatto, immagine-tempo

Ciò che il diritto traduce in comportamenti leciti e illeciti (girovagare per le strade di Berlino, lavorare come calzolaio in una piccola bottega della città, usurpare una funzione pubblica, commettere un furto, ecc.) è, come si è rilevato, attirato e dissolto in un linguaggio che, nel film di Helmut Käutner, lascia piuttosto emergere codici e categorie di un genere esistenzialista.

Questo trascorrere da un linguaggio all’altro – da quello normativo a quello cinematografico – schiude la riflessione sul tema dell’immagine. Nel diritto – che, con la legge, si esprime a parole – essa è concepita come schema «che esemplifica i fatti astraendone classi di azioni tipiche, suscettibili di riconoscersi in un numero indefinito di casi concreti»[63]. La forma, in ambito giuridico, si denomina fatti-specie, species facti, immagine del fatto, «che non si consuma ed esaurisce, ma ritorna nel tempo, ogni volta che il fatto si mostrerà combaciante con la descrizione normativa»[64].

Nel cinema (e, in particolare, nel film di Helmut Käutner), l’immagine rimanda ad uno schema di «realtà bruta» dove i fatti, singolari e concreti, trovano senso a posteriori grazie allo spettatore che ne ricostruisce i rapporti[65]. Si tratta di una realtà immediata, visibile e udibile dal pubblico che, per l’assenza di schemi precostituiti e di giudizi calati dall’alto, può definirsi – con le parole di André Bazin – come immagine-fatto[66].

In altra prospettiva, si discorre inoltre – a proposito dell’immagine normativa e dell’immagine cinematografica – di categoria trascendentale in senso kantiano[67]. Questo singolare rinvio alla filosofia di Kant in entrambi gli ambiti ha una diversa portata, dovuta a mio avviso alle particolarità che, nella struttura e nelle finalità, caratterizzano i due linguaggi segnandone la distanza.

Muoviamo dal diritto, che immobilizza «quel tanto di realtà che vuole far vedere»[68] in funzione dei propri scopi e così aspira a governare le incognite del futuro. Qui il dover-essere come categoria trascendentale, riempibile di qualsiasi contenuto, allude al ripetersi di figure tipiche nel tempo e nello spazio, in grado di rendere calcolabili le condotte umane e arginare la minaccia, sempre incombente, del divenire delle cose[69]. Altro non è – da questo punto di vista – che la ‘potenza applicativa’ della norma giuridica. In questo senso si può discorrere, in ambito giuridico, di ‘forma ricorsiva’. Vengono chiarendosi i nodi e il senso del rapporto impenetrabile e sfuggente tra diritto e cinema. Mentre il diritto, con la dinamica della fattispecie[70], è volto a far fare e dispone per il futuro, il cinema è tutto proteso a formare un ‘presente’ nell’intelletto e nello spirito dello spettatore[71]. Fa impego – il cinema – delle possibilità offerte dalla tecnica per «comprendere il più possibile di realtà, che vuole essere rappresentata»[72]. È dunque «strumento rivelatore della realtà nella sua completezza e complessità» poiché comprende e fa coesistere prospettive diverse[73].

In questo senso la forma, in ambito cinematografico, cui pure si assegna il peso di una categoria trascendentale in senso kantiano[74], esprime, non tanto una condizione di possibilità, quanto una illimitata ‘potenza rappresentativa’ (segni, immagini, suoni, idee, concetti, ecc,). L’occhio del legislatore non è la mirada della camera[75]. Il primo assume fatti senza nome e senza volto, racchiusi in schemi tipici, reiterabili nel tempo e nello spazio; l’altra realizza nello spettatore un ‘presente’ in cui spazio e tempo, manipolabili dalla tecnica del cinema moderno, si riempiono di nuove possibilità. Il linguaggio normativo riguarda e coinvolge i nostri comportamenti ed esprime, con il nesso di imputazione, la pretesa di dominarli. Il linguaggio cinematografico, benché – come accade nei film di propaganda – possa avere forza condizionante, non è immediatamente implicato con le nostre azioni. Si limita a mostrarne l’impronta tipica sullo schermo.


12. Il comportamento tra cinema, filosofia e pensiero giuridico. L’aspetto oggettivo dei fatti dell’uomo

Il senso di un film è costituito da un «flusso indivisibile» rispetto al quale, a differenza di un’opera teatrale o della lettura di un romanzo, l’opposizione dell’Io si fa più debole e vacillante[76]. Come nell’arte della poesia si genera «un congegno linguistico» che colloca «il lettore in un certo stato poetico»[77], così il film, nella sua dirompente immediatezza, ci mostra «come qualcosa diventi significato», non tanto per «allusione a idee già formate o acquisite», quanto per «la disposizione temporale e spaziale degli elementi»[78].

L’idea emerge dalla stessa struttura temporale del film[79] che interroga e stimola, come si è osservato, l’immediata capacità dello spettatore, da un lato, di decifrare «il mondo e gli uomini», dall’altro, di «coesistere» con loro[80]. È, questa, una capacità azionata – potremmo dire con Henri Bergson – da quella «specie di cinematografo interno» che è il meccanismo della nostra conoscenza abituale[81]. La singolarità, in questa prospettiva, dell’arte cinematografica è quella di rappresentare condotte e comportamenti dell’uomo in relazione agli altri e all’ambiente circostante. È in questi comportamenti – che esprimono, nella loro tipicità, la concretezza dell’agire umano – che lo spettatore si ritrova e, in certa misura, a seconda dei casi, si rispecchia. Troviamo il punto di raccordo tra il cinema e le filosofie esistenzialiste; che è quello, per un verso, di mostrare i rapporti di varia natura tra il soggetto e il mondo; per un altro, di descriverci il ‘paradosso’ e la ‘confusione’ di tali intrecci e commistioni[82].

Non c’è da meravigliarsi se questa visione intuitiva del mondo, che accomuna filosofia e cinema[83], pensiero e lavoro tecnico, e che negli anni quaranta ha impegnato la riflessione di una generazione, si propaghi anche nel mondo del diritto. Ciò accade a mio avviso per due ragioni.

La prima è di ampia portata. L’altra è specifica, più rispondente al discorso di queste pagine. Sotto il primo profilo, diritto e cinema possono dirsi situati sullo stesso piano dell’«immenso edificio del mondo»[84]. In quanto artefatti, condividono tra loro e con le altre pratiche il destino empirico della nostra evoluzione culturale. È inevitabile, in questo quadro d’insieme, che le pratiche delle immagini, dei segni e dei concetti – pur maturate in ambiti tra loro distanti – finiscano per intrecciarsi e sfumare in un «limite indefinibile»; e, dunque, «in un rinvio che continuamente si riapre, idealmente all’infinito»[85]. Non si ha mai a che fare «con soggetti e oggetti assoluti, cioè sciolti dall’intreccio di pratiche che li costituisce e li supporta»[86].

Sotto il secondo profilo, cinema, diritto, filosofia e nuove psicologie si ritrovano sulla stessa strada perché hanno di mira il medesimo oggetto: il comportamento umano. Si tratta di un comportamento ora rappresentato ora osservato ora regolato. Può mostrarsi in ragione della narrazione di una storia, di uno studio di psicologia o di una terapia, delle indagini sulla intersoggettività o in funzione di una regola giuridica. La molteplicità di scopi e prospettive lascia fermo il punto di convergenza tra pensiero extragiuridico e pensiero giuridico; che riposa nella oggettività del comportamento esteriore[87]. È un rilievo decisivo. Come le teorie richiamate sul cinema e quelle a proposito della filosofia e della nuova psicologia sono volte a mettere in risalto l’aspetto oggettivo dei fatti dell’uomo così lo sviluppo del pensiero giuridico è stato nel senso di ancorare il comportamento umano ad uno schema rigorosamente oggettivistico. Come gli indirizzi di pensiero menzionati guardano al comportamento svincolandolo dal legame con i fatti soggettivi della coscienza così il diritto assume come fatti giuridici «certe manifestazioni oggettive della vita umana senza collegarle direttamente a fatti di coscienza»[88]. La difficoltà, per il giurista, sta nel muovere da idee extragiuridiche (biologia, psicologia, filosofia, ecc.) e nel disegnare poi una nozione giuridica senza uscire dal proprio campo[89]. Così, nel mostrarci il comportamento riferibile ad un individuo o a un insieme di individui[90] e nella relazione con gli altri[91], egli può ritrovarsi in taluni paradossi propri dei rapporti fluidi e mutevoli – eppure costitutivi – fra soggetto e mondo che sono al centro della filosofia fenomenologica o esistenziale; di quella filosofia che, come si è chiarito, finisce per riflettersi anche nel campo d’azione proprio del cinema.


13. Destini del linguaggio cinematografico

Fermi i punti di convergenza sopra richiamati, diritto e cinema – quel cinema che trova punti di appoggio nelle filosofie esistenzialiste – si separano, come si è rilevato, nel linguaggio. Mentre nel diritto la macchina linguistica è tutta orientata al controllo e alla stabilità dei comportamenti umani, nel cinema viene compenetrandosi nella disposizione temporale e spaziale di vari e molteplici elementi.

La tecnica del cinema moderno dispone di un «arsenale» di procedimenti[92], segni, possibilità estetiche. Il linguaggio o, se si vuole, il metalinguaggio[93] cinematografico ha – in virtù dei mezzi e delle risorse di cui è in possesso – un raggio d’ampiezza tale da raggiungere sfere superiori e inferiori di realtà; che tutte è in grado di ricomprendere ed esprimere. Il regista, che è il legislatore del film[94], può mostrare il trascendente[95], sfidare l’irrappresentabile[96], interrogare il pensiero causale di matrice freudiana[97], esplorare le condizioni stesse del percepire, evocare ciò che non è neppure pensabile. Non ci sono limiti né impedimenti. Un film può convergere, con la medesima forza, su un numero indefinito di oggetti, come ad esempio la psicologia, la biologia, la fisica, il diritto, la politica, la storia. Ha il potere invisibile di farci conoscere idee e nuovi concetti, di mostrarci, nell’impiego delle parole, un diverso affidamento semantico, di rappresentare la minaccia stessa del divenire, così temuta dai propositi immobilizzanti del diritto, di offrire la lettura esistenzialista della vita di un uomo come Wilhelm Voigt che, fuggendo dai labirinti costrittivi della società, si ritrova a escogitare una finzione che viene presa per realtà. Il destino – e il senso – del linguaggio cinematografico dipenderà, sempre più, dal grado di consapevolezza di tale illimitata potenza rappresentativa; di questa ultra-potenza proiettata sul piano di coscienza dello spettatore.


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NOTE

[1] La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1906, p. 10.

[2] La Domenica del Corriere del 28 ottobre 1906, p. 10.

[3] Si segnalano all’attenzione anche i film per la TV tedesca del 1960 con Rudolf Platte e del 1997 con Harald Juhnke.

[4] Corriere della Sera del 28 ottobre 1906, p. 10.

[5] V. il romanzo del 1930 dal titolo Der Hauptmann von Köpenick scritto del narratore tedesco Wilhelm Schäfer.

[6] Kelsen (1952), p. 49.

[7] Kelsen (1952), p. 49.

[8] Kelsen (1952), p. 49.

[9] Kelsen (2004), p. 52.

[10] Kelsen (2004), p. 52.

[11] Irti (2005), pp. 1054-1055.

[12] Di Lucia (2012), p. 221, consultabile in OpenEdition Journals.

[13] Di Lucia (2012), p. 221.

[14] V., sul senso della finzione in una prospettiva fenomenologica, Sini (2012), p. 113.

[15] È, questa, un’attitudine che, nella ricostruzione offerta nel film Der Hauptmann von Köpenick di Helmut Käutner, Voigt avrebbe imparato durante il periodo di detenzione nel quale si ritrova a partecipare, con altri carcerati, ad esercitazioni militari simulate.

[16] Si tratta di una padronanza di cui l’attore conserva una traccia visibile anche quando non lavora e se ne sta in ozio. Per un’idea di questa condizione – e del peso nascosto che gli atteggiamenti tipici della recitazione possono assumere nella vita privata di un attore – si possono leggere le pagine di Peter Handke, insignito nel 2019 con il Premio Nobel per la letteratura: «in lui lo si notava ancora, e non solo per le mani, e forse era ancora più evidente osservando i movimenti – un frequente indietreggiare, camminare all’indietro, poi di nuovo avanzare –, le occhiate intense, soprattutto il suo sollevare lo sguardo, improvviso, dopo averlo tenuto a lungo fisso al suolo, il suo ridurre gli occhi a fessura in alcune scene di film, senza alcun motivo, senza nessuna posa, senza un significato acquisito macchinalmente come non di rado avveniva per altri eroi dello schermo. Per lui questo era diventato, come si dice, la seconda natura, o magari la natura?» (Handke, 2016, p. 11).

[17] È la sensibilità propria dell’attore di teatro che, quando «comincia un movimento, conosce l’esatta posizione di ogni arto» (Brook, 2005, p. 15).

[18] Sini (2012), p. 116.

[19] Si tratta di una sospensione – del tutto analoga a mio avviso a quella che esige l’idea dell’uomo invisibile rappresentata sullo schermo – che è funzionale «esclusivamente all’intrattenimento e destinata a durare soltanto il tempo della proiezione» (Pedullà, 2010, p. XVII).

[20] V., con riguardo all’immagine di un ombrello che si trasforma in fungo nel film muto di Georges Méliès del 1902 Le Voyage dans la Lune, Feyles (2009), pp. 158-160.

[21] Sartre (2007), pp. 99-100. Ma v., sulle difficoltà – che non sarebbero invece riscontrabili nella lettura di un romanzo – di opporre il nostro Io al linguaggio delle immagini cinematografiche, Sartre (2014), pp. 26-27.

[22] Un’allusione alla possibilità di verificare il fondamento degli ordini impartiti da Wilhelm Voigt si trova nel film di Helmut Käutner. Nella sequenza dedicata all’occupa­zione del municipio di Köpenick, Voigt è nella stanza del sindaco. Si nota un telefono sulla scrivania, ma il sindaco, nonostante qualche impercettibile titubanza, resta soggiogato dal falso capitano.

[23] Cfr. Husserl (1998), p. 73.

[24] Searle (2019), p. 213.

[25] Searle (2019), pp. 92-93.

[26] Il film integrale di Helmut Käutner, con sottotitoli in lingua inglese, è reperibile sulla piattaforma You Tube.

[27] Metz (1989), pp. 70-71.

[28] Merleau-Ponty (1969), p. 170. In questa stessa pagina si legge, poco prima, che in un certo senso «tutta la filosofia consiste nel restituire un potere di significare, una nascita del senso o un senso selvaggio, una espressione dell’esperienza attraverso l’esperienza che illumina specialmente la sfera particolare del linguaggio». Le parole di Merleau-Ponty verranno riprese, all’inizio degli anni novanta, dalla teorica di cinema e media statunitense Vivian Sobchack (v. Sobchack, 1992), per una lettura dell’esperienza filmica coincidente con quell’«espressione dell’esperienza attraverso l’esperienza» richiamata, in questo frammento, dal filosofo francese. V. al riguardo Dalmasso (2014), p. 75 ss.

[29] Merleau-Ponty (2016), p. 76.

[30] Merleau-Ponty (2016), p. 80.

[31] Si tratta, in un’altra prospettiva, di quella dimensione mentale del soggetto che viene tradotta, in termini meccanici, nella nozione – usata da Freud in senso metaforico – di «dispositivo». V. al riguardo Mancino (2014), p. 129.

[32] Merleau-Ponty (2016), p. 81.

[33] Dalmasso (2014), p. 2. In questa prospettiva – sulla linea di pensiero di Merleau-Ponty – l’espressione filmica si presenta come «un sistema di comunicazione basato sulla percezione corporea in quanto mezzo d’espressione, che coinvolge lo spettatore-vedente, il film ed indirettamente anche colui o coloro che lo realizzano» (Dalmasso, 2014, p. 82).

[34] V., sull’assimilazione dell’immagine cinematografica (immagine-tempo) ad una categoria trascendentale nel senso kantiano del termine, Deleuze (2017), p. 318. Il tema sarà sviluppato più avanti, § 11.

[35] Cfr., con riguardo al cinema di Godard, Deleuze (2017), p. 216. Si pensi – riguardo all’idea di una tavola di categorie – ai film in cui lo spettatore percepisce un contrasto tra l’ambiente che esprime un certo tipo di realismo e l’intensa passione spirituale del protagonista, come ad esempio il «Desiderio di Fuga» nel film Un condannato a morte è fuggito o il «Desiderio di Rubare» in Pickpocket di Robert Bresson (Schrader, 2010, pp. 66-67).

[36] Deleuze (2017), p. 217: tali categorie «non devono infatti derivare le une dalle altre, benché la loro relazione sia del tipo ‘E…’, ma questo ‘e’ deve accedere alla necessità».

[37] Sartre (2002), p. 265.

[38] Sartre (2002), p. 266.

[39] Sartre (2002), p. 266.

[40] Cfr. infra, in questo paragrafo.

[41] Sartre (2002), p. 309.

[42] Si può qui rinvenire, sotto altra chiave di lettura, la stessa potenza devastatrice dell’irruzione del Reale in senso lacaniano, assimilabile allo sguardo che nel film di Hitchcock La finestra sul cortile il sospettato di omicidio, accorgendosi di essere osservato, getta su Jeff (James Stuart) che gli abita di fronte (Han, 2013, pp. 43-44).

[43] Sartre (2002), p. 309.

[44] Moravia (2001), p. 58. Sono pagine che confermano in Sartre il superamento di una interpretazione solipsistica del soggetto (già presente in Sartre, 2011, p. 23 ss.). V., per un raffronto con il pensiero di Lacan, Recalcati (2019), pp. 32-35.

[45] È un negozio – quello mostrato nel film – nel quale si vendono uniformi dell’esercito.

[46] Frammento che – come gli altri richiamati nel testo – è stato tradotto in italiano dal dialetto berlinese con l’ausilio della dott.ssa Antonia Kirchgeorg. Nella sceneggiatura teatrale di Carl Zuckmayer la frase, per esteso, suona così: «Wenn eener mit ‘n bunten Fell un blanke Kneppe kommt – un denn kennten wa ooch zehn Märker uffn Tisch legen – da is nischt mehr ze wollen».

[47] V., in termini generali, sulla genesi di tale giudizio, Sartre (2002), p. 266.

[48] Sartre (2002), p. 266.

[49] È la conclusione, inquieta e destabilizzante, cui perviene Vitangelo Moscarda – il protagonista di Uno, nessuno e centomila – quando la moglie, vedendolo indugiare davanti allo specchio, gli conferma che ha il naso un po’ storto (Pirandello, 1994, p. 3]. Lo specchio con cui si apre il romanzo non tanto è «l’oggetto specchio, che pure è visibile, quanto lo specchio normalmente invisibile, cioè lo sguardo dell’altro volto su di sé», in grado di scatenare «i processi di autoanalisi del protagonista e la conseguente, progressiva scoperta della propria estraneità alla sua immagine esterna» (Mazzacurati, p. 3, nt. 1 del romanzo qui citato).

[50] Traduzione libera dal film di Helmut Käutner. La frase, nella sceneggiatura teatrale di Carl Zuckmayer, suona così: «Jeh doch nach Hause und zieh dir um, denn kannste mir wat erzählen, so nich, Männeken, so nich!»

[51] V. supra, § 8.

[52] Sartre (2002), p. 96.

[53] Sartre (2002), p. 96 che in proposito richiama il noto esempio del cameriere (p. 95).

[54] V., sul diffuso e mai appagato bisogno, nella società contemporanea, di una «fuga nell’immagine» Han (2015), p. 42.

[55] Sartre (2002), p. 84.

[56] Sartre (2002), p. 84.

[57] Moravia (2001), p. 58, che si riferisce a quel rapporto che in Heidegger è depurato della «natura intrinsecamente negativa» intuita invece da Hegel e poi sviluppata ampiamente nel pensiero di Sartre.

[58] Sartre (2002), p. 84.

[59] Sartre (2002), p. 84.

[60] Siamo in presenza, come nei film dallo stile trascendentale, di uno stacco o di una scissione all’interno di un contesto ordinario di quotidianità. V. al riguardo Schrader (2010), p. 35 ss.

[61] Nel film – come si è rilevato – i detenuti, sotto la guida di una guardia penitenziaria, simulano esercitazioni militari. Voigt, che legge molti libri sull’argomento, risulterà essere il più preparato di tutti.

[62] Cfr., a proposito del pensiero di Sartre, Moravia (2001), pp. 44-45.

[63] Irti (2003), p. 58.

[64] Irti (2020), p. 61.

[65] Bazin (1999), p. 299.

[66] Bazin (1999), p. 299, che si riferisce in particolare al cinema neorealista in cui ad esempio la morale finisce per emergere – e sgorgare – dalla medesima realtà rappresentata nelle immagini cinematografiche (Bazin, 1999, p. 297). Si tratta – potremmo aggiungere – di un dover essere che scaturisce dal basso, dalla logica intrinseca degli eventi in successione.

[67] V., per il diritto, Kelsen (1952), pp. 63-65; per il cinema, Deleuze (2017), p. 318.

[68] Carnelutti (1951), p. 230.

[69] Cfr. Severino (2020), p. 15 ss.

[70] Carnelutti (1940), p. 23, che distingue tra «situazione» che designa il «risultato della rilevazione statica (fotogramma)» e «fatto» con cui l’A. dà il nome «al risultato della rilevazione dinamica (al cinemafotogramma, che oggi si chiama film)». Fatto giuridico è definito come «il mutamento di una situazione giuridica o, in altre parole, come un fatto materiale in quanto vi si accompagna il mutamento di una situazione giuridica» (p. 267).

[71] Carnelutti (1949), p. 18.

[72] Carnelutti (1949), p. 19.

[73] Mancino (2008), p. 116.

[74] Deleuze (2017), p. 318. In forza di un radicale rovesciamento di prospettiva, dove il tempo, rompendo gli argini, si libera dal vincolo di subordinazione al movimento, «l’immagine cinematografica diviene un’immagine-tempo, una autotemporalizzazione dell’immagine» (Curi, 2020, p. 136).

[75] Il riferimento alla mirada della camera è in Carnelutti (1949), p. 19.

[76] «Al cinema, immersi in questa notte che i poeti tedeschi celebrano come l’Essere, attraversati dalla musica sottile, abbindolatrice, rapiti dai gesti precisi, amplificati dallo schermo, non possiamo più opporci diametralmente, cioè contrapporre il nostro Io alle azioni lì fuori, il regista ci porta mano nella mano dove vuole» (Sartre, 2014, p. 27).

[77] Merleau-Ponty (2016), p. 79.

[78] Merleau-Ponty (2016), p. 80.

[79] V., sugli effetti prodotti sulla cultura contemporanea dal «trattamento della temporalità introdotto dal film» che dà avvio, in modo violento, ad «un nuovo modo di intendere la successione e la contemporaneità degli eventi», Eco (1985), p. 204.

[80] Merleau-Ponty (2016), p. 80.

[81] Bergson (2012), p. 290.

[82] Merleau-Ponty (2016), p. 81.

[83] Sono da leggere le pagine di Umberto Curi dedicate al modo in cui l’opera cinematografica in sé – nella sua «specifica orditura, immanente al film in quanto tale, alla pellicula da cui esso è costituito» – finisca per venire incontro alla filosofia (in Curi, 2020, p. 72); pagine in cui l’A. si sofferma sul pensiero di Jean-Luc Nancy (Curi, 2020, pp. 68-72).

[84] In quanto macchine, che sono l’umano, si può affermare – sulla linea proposta da Carlo Sini che discorre di «immenso edificio del mondo» – che cinema e diritto finiscono per rifluire nella cultura (Sini, 2016, p. 25).

[85] Sini (2016), p. 39.

[86] Sini (2016), p. 39.

[87] V., per una linea speculativa che non include le teorie sul cinema e gli indirizzi di pensiero qui richiamati, Falzea (1997), p. 647.

[88] Falzea (1997), p. 651. Intorno a tali manifestazioni oggettive della vita umana si raccolgono discipline articolate allo stesso modo in cui sono stati regolati «altri fenomeni di gran lunga più studiati, come il negozio e l’atto illecito, in cui il momento psicologico è ineliminabile» (Falzea, 1997, p. 651).

[89] Falzea (1997), p. 651.

[90] Falzea (1997), p. 643. Così, «l’uomo non appartiene alla comunità costituita dall’ordinamento giuridico come un tutto, ma vi appartiene soltanto con alcune delle sue particolari azioni od omissioni, in quanto queste sono appunto regolate da norme dell’ordinamento della comunità» (Kelsen, 1952, pp. 87-88). Ma ciò che il diritto divide e separa (qui il concetto di uomo in singoli comportamenti) può risultare non distinguibile nell’esistenza umana dove l’azione solitaria talvolta assume un peso intollerabile, dal senso complessivo e totalizzante. Nel famoso cortometraggio Decalogo 5, dedicato al quinto comandamento «Non uccidere», realizzato da Krzysztof Kieślowski, il giovane Jacek Lazar, condannato a morte per l’omicidio di un taxista, rivolgendosi al suo avvocato Piotr Balicki, osserva smarrito: «In Tribunale, tutti loro erano contro di me. Anche qui». L’avvocato risponde: «Non è così. Contro quello che hai fatto». Jacek replica: «Ma è la stessa cosa».

[91] Si affaccia il lato sociologico del concetto giuridico di comportamento. V. in proposito Falzea (1997), p. 654.

[92] Bazin (1999), p. 77.

[93] Un film – osserva Leonardo Sciascia – presuppone sempre «un lavoro di preparazione letteraria, il lavoro che viene fatto sul soggetto e da cui vien fuori la sceneggiatura o trattamento che dir si voglia» (Sciascia, 2021, p. 67). Di qui il riferimento, nel corpo del testo, al metalinguaggio. Si può a mio avviso affermare, sotto questa luce, che il linguaggio cinematografico contenga in sé un altro linguaggio, il linguaggio-oggetto o il linguaggio di cui si parla (qui costituito, come scrive Sciascia, dal soggetto, dalla sceneggiatura o dal trattamento che dir si voglia). È un linguaggio che traduce in parole e immagini gli enunciati del linguaggio-oggetto. V., sulla ricchezza del metalinguaggio, Tarski (1969), p. 40.

[94] Al regista compete il potere di decidere e «legiferare» perché è l’autore del film: «soltanto lui sa quel che un film sarà, soltanto in lui è, coerente ed unitaria, l’idea del film» (Sciascia, 2021, p. 67). Perciò egli deve restare «padrone» del film e controllarlo dall’inizio alla fine, come afferma David Lynch [in Tirard, 2017, p. 117], che ricorda il disagio personale – un vero e proprio trauma – provocato dal fatto di avere concordato di girare il film Dune senza tuttavia attribuirsi il diritto al final cut.

[95] Schrader (2010), p. 3 ss.

[96] Si pensi alla morte e all’amore, a quei terreni di frontiera che segnano, per André Bazin, «la consapevolezza di una impossibilità, che è anche un divieto» (Pedullà, 2010, p. XV).

[97] Non è precluso, come è ovvio, indagare e tradurre in immagini le forze nascoste sottostanti al comportamento umano seppure fermamente confutate in alcuni indirizzi metodologici propri del pensiero fenomenologico. V., con riguardo a tali orientamenti, Merleau-Ponty (2019), p. 267 ss.

Fascicolo 3 - 2022