LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo pdf articolo pdf fascicolo


Quando l'abuso diventa arte (di Maria Teresa Arena, Corte d'Appello di Messina)


Il lavoro intende ripercorrere le vicende processuali che hanno riguardato le opere di “Fiumara d’arte”, inizialmente considerate alla stregua di meri abusi edilizi e, successivamente, riqualificate come vere e proprie opere d’arte: la storia di come (anche) il diritto ha contribuito alla nascita del “Primo Parco naturale d’arte Italiano”.

When Abuse Becomes Art

The paper aims to retrace the procedural events that involved the artworks of “Fiumara d’arte”, initially considered as mere unauthorized buildings and, subsequently, redeveloped as real works of art: the story of how (also) the law has contributed to the birth of the “First Italian Natural Park of Art”.

1. Due mondi così diversi - 2. Dura lex… - 3. … sed lex - 4. Tutto è bene quel che finisce bene - NOTE


1. Due mondi così diversi

Meditando sul binomio tra diritto ed arte la prima riflessione che mi è sovvenuta concerneva più le differenze che le similitudini tra questi due ambiti. Il rigore del diritto, che richiede e presuppone ordine e logica. L’arte: creatività, mutevolezza, immaginazione. Il diritto e la talvolta ardua impresa di andare al cuore della questione. L’arte: il cuore. L’arte è libertà. Mi sono chiesta, come la si può imbrigliare nelle rigide regole del diritto? Ma soprattutto, se nessuno è mai riuscito a fornire una definizione o una classificazione di cosa debba intendersi per ‘arte’, come si può demandare ad un giudice stabilire cosa costituisce o meno un’opera d’arte? L’arte è fluida e, per lo più, sfugge al ragionamento. Il diritto, al contrario, richiede certezza, stabilità e rigore, nella formulazione, nell’interpretazione e, soprattutto, nella sua applicazione. Ma proprio perché l’arte è espressione della libertà e dell’ingegno, come tale deve essere tutelata.

Penso in un primo momento alle norme sulla tutela del diritto di autore, ma non volendo invadere il campo dei colleghi civilisti, muovendomi in un terreno che non mi appartiene, rivolgo altrove le mie riflessioni.

Penso piuttosto, da un lato, a tutte quelle norme penali per lo più di carattere speciale, specificamente poste a tutela del patrimonio artistico e, dall’altro, alle norme di carattere generale che, purtroppo, si è spesso costretti ad applicare in seguito al danneggiamento, al furto, alla ricettazione, al deturpamento di opere d’arte. Ma di opere d’arte già riconosciute universalmente come tali.

E per tutto quello che ancora non è riconosciuto come arte? Abbiamo sorriso con dei colleghi immaginando di ipotizzare il reato di truffa nei confronti di chi attacca alla parete di un museo, con dello scotch da imballaggio una banana e la vende al prezzo di ben 120 mila dollari, ma l’arte può essere anche questo: provocazione. La battuta mi serve per provare a dare forma all’idea che mi è sovvenuta meditando, più approfonditamente, sul binomio tra arte e diritto, in particolare, il diritto penale.

Vorrei quindi raccontarvi una storia siciliana, in grado di fornire spunti di riflessione e, perché no, aprire prospettive de iure condendo in ordine alla regolamentazione di questo affascinante quanto apparentemente inconciliabile binomio. Con l’avvertenza che per ragioni di comodità espositive altererò in minima parte la cronologia degli eventi.


2. Dura lex…

Un giorno di circa 30 anni fa il pretore di Mistretta si trovava, tra i tanti da trattare, un processo a carico di un imputato poco più che trentenne il quale si era fatto lecito realizzare in assenza di una concessione edilizia, una struttura in cemento armato per un’altezza di mt. 18 su una superficie di mq. 112, sulla spiaggia antistante il litorale a circa ml. 60 dalla battigia (art. 20 lett. b Legge 28 febbraio 1985, n. 47).

L’imputato aveva non solo violato le disposizioni in materia urbanistica da ultimo citata ma aveva agito in spregio all’art. 1sexies della legge n. 431/85 c.d. legge Galasso in quanto questo abuso era stato realizzato a 60 metri dalla battigia, dunque in zona di inedificabilità assoluta.

Come se non bastasse, l’opera abusiva era stata realizzata senza il nulla osta della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali, in assenza del preventivo nulla osta del Genio Civile (artt. 17 ss. Legge 2 febbraio 1974 n. 64) – trattandosi di struttura in cemento armato – e, per di più, in violazione degli artt. 633 e 639bis c.p. in quanto, con il manufatto realizzato, l’imputato aveva invaso arbitrariamente ben 112 metri quadrati di terreno demaniale.

Il Pretore di Mistretta, in esito alla celebrazione del processo, il 2 maggio 1991, perveniva ad una sentenza assolutoria di questo singolare imputato in relazione a quell’ancor più singolare abuso edilizio che costui aveva realizzato[1].

Le formule adottate erano le seguenti. Per ciò che attiene la violazione edilizia e l’art. 1sexies: perché il fatto non costituisce reato; quanto alla violazione antisismica: perché il fatto era coperto da amnistia; analogamente coperto da amnistia era il reato di occupazione di terreno demaniale che veniva riqualificato dal Pretore nella specifica contravvenzione prevista dall’art. 1161 del codice della navigazione.

Certo, se è vero che non compete al giudice stabilire cosa è arte e cosa non lo è (o forse non lo è ancora), non può dirsi che quel giudice abbia celato il proprio apprezzamento di natura estetica nei confronti di quell’enorme abuso edilizio.

Si legge, infatti, nella sentenza che quel manufatto in cemento armato sarebbe costituito da una «suggestiva finestra in calcestruzzo aperta sul mare, opera scultorea dell’artista Tano Festa» (Fig. 1).

Fig. 1 – Tano Festa, Monumento per un poeta morto. La Finestra sul mare, www.ateliersulmare.comFig. 1 – Tano Festa, Monumento per un poeta morto. La Finestra sul mare, www.ateliersulmare.com

Espresso in maniera pressoché didascalica il proprio apprezzamento di natura estetica, frutto di una riconosciuta sensibilità artistica, il Pretore svolgeva appieno la propria funzione di interprete del diritto, di quel diritto che in una pedissequa, forse quasi burocratica, applicazione avrebbe indotto altri interpreti a pervenire alla condanna del fantasioso imputato, disponendo la demolizione di quel mastodontico manufatto abusivo.

Ed a tal fine quel Pretore spiegava nell’articolata motivazione posta a sostegno della propria decisione, supportata da una valutazione perfettamente aderente al dettato normativo, che le norme sulla edificabilità dei suoli impongono l’obbligo del previo rilascio della concessione edilizia per tutte quelle attività edificatorie che realizzino una trasformazione del territorio e che ne determinino un mutamento delle peculiarità morfologiche di un’area, attraverso la sottrazione dello spazio all’originario assetto ambientale e naturalistico, facendone oggetto di occupazione stabile, abitativa o produttiva e che impegnino il governo dell’ente locale ad approntare servizi ed infrastrutture. Dal che discende, per chi edifica, il pagamento dei contributi da parte di coloro che se ne avvantaggiano.

Così, dopo avere passato in rassegna tutte le opere per le quali la legge non richiedeva il rilascio della preventiva concessione edilizia, richiamando tra l’altro l’art. 5 della legge regionale n. 37/1985 specificava, quel giudice, che tra le opere esonerate dal rilascio della concessione il legislatore aveva indicato anche impianti ad una sola elevazione non adibiti ad uso abitativo.

Il Pretore di Mistretta perveniva, dunque, alla conclusione che «il fatto costruttivo addebitato all’imputato non costituisce reato, non abbisognando di concessione sindacale. Trattasi di un’opera di decoro di un macroambiente, priva di caratteristiche fruitive da esso indipendenti. Una componente decorativa… incorporata al suolo e legata alla cosa cui accede da un rapporto non di opposizione ma di complementarietà strutturale e funzionale. Essa non concreta una trasformazione ma una mera addizione migliorativa, ornamentale (o supposta tale) […] e tende ad interpretare i motivi essenziali di un luogo, le sue valenze intrinseche e a fissarli nella plasticità delle forme, offrendosi come chiave di lettura del paesaggio».

Quel giudice aggiungeva, altresì, che indice, cubatura, destinazione dell’area sono concetti estranei ad una «costruzione sui generis come la scultura su cui è difficile rapportare concetti di dimensione e di compatibilità d’uso […] Controlli amministrativi che censurassero il “come” ed il “dove dell’opera d’arte” finirebbero con il mortificare la libertà artistica che pure è costituzionalmente garantita (art. 21 e 33 Cost.) e ciò tanto più quando la creazione artistica fosse legata all’ambiente come ad un suo presupposto indefettibile».

Ma a rafforzare la motivazione posta a sostegno della propria decisione, quel Pretore – che chissà quanti abusi edilizi autentici ed autenticamente deturpanti delle aree sulle quali ricadevano oltre che dell’ambiente circostante, e che chissà quante demolizioni aveva disposto nella moltitudine di processi che aveva definito con sentenze di condanna – dotato di uno stile efficace, elegante e tuttavia volutamente semplice, affinché la giustizia, amministrata in nome del popolo, potesse essere davvero accessibile a tutti, spiegava pure che la ratio della normativa urbanistica è quella di evitare un incontrollato sfruttamento dei suoli. Ciò sul presupposto che costruire significa alterare morfologicamente un’area, motivo per il quale esulano dalla disciplina penale quelle opere pertinenziali che implicano un rapporto di subordinazione di una cosa ad un’altra che resta invariata nelle sue caratteristiche essenziali. Si legge nella sentenza: «la scultura di specie, in quanto dichiaratamente ed oggettivamente destinata ad ornamento del contesto ambientale nel quale si colloca non ha rilievo innovativo in senso urbanistico».

Essa è opera incorporata al suolo, un suolo depresso. Essa è opera che, con la propria individualità, si rende partecipe della natura e di quell’am­biente che arreda ed in cui è assorbita.

Ecco come un enorme abuso edilizio, nelle mani di un magistrato che rinunciando al ruolo di rigido e pedissequo interprete di norme giuridiche, generiche ed astratte, poste a presidio della tutela della collettività, cominciava a delinearsi come qualcosa di diverso.

Non, dunque, un’opera destinata a fini personali, con un impatto negativo sul territorio, foriera della sottrazione di spazi alla collettività ma, al contrario, un’opera destinata alla collettività, che l’unico impatto che determinava sul territorio era quello di migliorarlo, di decorarlo.

Per inciso, va detto che il ‘manigoldo’ non era nuovo a condotte di questo genere perché, poco meno di un anno prima, il 2 luglio 1990, era stato condannato dal Pretore di Santo Stefano di Camastra per avere realizzato o fatto realizzare una costruzione in calcestruzzo su terreno del demanio fluviale delle dimensioni di circa 18 metri di altezza. Ad ogni modo, la scultura non venne demolita in quanto, a seguito dell’appello proposto dal Presti e dello scorrere del tempo, all’adita Corte d’Appello non rimase che attestare l’intervenuta prescrizione dei reati contestati (Fig. 2).

Fig. 2 – Pietro Consagra, La materia poteva non esserci, www.ateliersulmare.com
Fig. 2 – Pietro Consagra, La materia poteva non esserci, www.ateliersulmare.com

Ma non finiva qui.

A distanza di due mesi, lo stesso Pretore di Mistretta si ritrovava a dovere definire un altro processo a carico di quel pervicace abusivista, questa volta rispetto a ben due manufatti realizzati, anche in questo caso, in assenza di concessione edilizia, in violazione della normativa antisismica occupando terreno demaniale.

Si trattava di una costruzione in cemento armato di 3,15 per un’altezza di mt. 4,20 sita nei pressi di un tornante della strada provinciale Pettineo-Castel di Lucio, nonché di altra struttura in cemento armato descritta come «di forma circolare del diametro di 35 metri aventi all’ingresso due colonne alte 8 metri» sito in Castel di Lucio (Fig. 3 e Fig. 4).

Fig. 3 – Paolo Schiavocampo, Una curva gettata alle spalle del tempo, www.ateliersulmare.com
Fig. 3 – Paolo Schiavocampo, Una curva gettata alle spalle del tempo, www.ateliersulmare.com

Fig. 4 – Italo Lanfredini, Labirinto di Arianna, www.ateliersulmare.comFig. 4 – Italo Lanfredini, Labirinto di Arianna, www.ateliersulmare.com

Qui quel Pretore nel precisare che «non si può rimettere alla pubblica autorità un giudizio di rilevanza artistiche che non le compete, quasi che essa potesse impingere negli artt. 21 e 33 della Costituzione, dettati a tutela della libertà di espressione artistica» chiariva che non compete al giudice «qualificare i manufatti a destinazione ornamentali in artistici e non […] Il limite che segna l’abuso è rappresentato solo dalla mistificazione nel senso che va sanzionata la speculazione edilizia contrabbandata da forme d’arte»[2].

In questa sentenza del 4 luglio 1991, tuttavia, si coglie appieno un aspetto che palesa una stridente quanto evidente contraddizione e, forse, anche un’incertezza dell’intero sistema.

Le opere murarie realizzate erano munite di autorizzazioni rilasciate della pubblica amministrazione il che, per un verso, escludeva l’arbitra­rietà della invasione del terreno demaniale e, per altro verso – anche ammesso che ve ne fosse stato bisogno – il reato edilizio.

Trascorsi circa sei mesi, il 9 gennaio 1992, il Pretore di Mistretta, era ancora una volta chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’abusivista ‘selvaggio’, il quale stavolta aveva realizzato una struttura in conglomerato cementizio, opera che come si legge dal capo d’imputazione, per la prima volta aveva un titolo, un nome, una definizione: Energia Mediterranea. Un’ampia onda in cemento armato realizzata in territorio di Motta d’Affermo.

Fig. 5 – Antonio Di Palma, Energia Mediterranea, www.ateliersulmare.com
Fig. 5 – Antonio Di Palma, Energia Mediterranea, www.ateliersulmare.com

Era compito ancora più semplice per quel Pretore. Non solo il manufatto non poteva essere inquadrato in alcun modo in quelle categorie edilizie sanzionate dalla L. n. 47/1985 (all’evidenza non determinava né cubatura né volumetria) ma anche in questo caso il Sindaco aveva rilasciato una preventiva autorizzazione già nel 1988 (Fig. 5).


3. … sed lex

Così, un visionario ed un illuminato, quanto raffinato, interprete del diritto, davano luogo a quello che era solo l’avvio di una tormentata vicenda giudiziaria. Già, tormentata, perché la vicenda non si esauriva con le sentenze di assoluzione delle quali abbiamo sin qui detto.

Queste sentenze, infatti, venivano impugnate dalla Procura Generale. La Corte di Appello di Messina davanti alla quale venivano presentati i diversi processi riuniti, riformando le precedenti pronunce, il 25 ottobre del 1993, condannava l’imputato e, come previsto dalla legge, disponeva la demolizione dei manufatti ritenuti ‘abusivi’. Sì, la demolizione, pena accessoria come tale conseguente alla pronuncia di condanna.

Eppure non solo l’imputato aveva donato i manufatti abusivi alle amministrazioni ma queste, a ben vedere, senza bisogno di alcuna donazione in virtù del principio di accessione, avrebbero potuto disporne a piacimento, ivi compreso, ove avessero voluto demolirle.

Certo è che mai prescrizione fu più provvida.

Infatti, alla Corte di Cassazione, nel febbraio del 1994, non restava altro che prendere atto del decorso del tempo e dichiarare la prescrizione, revocando – di conseguenza – l’ordine di demolizione contenuto nella sentenza della Corte di Appello.


4. Tutto è bene quel che finisce bene

Certo leggendo le sentenze mi sono posta degli interrogativi.

Vedendo le imputazioni si evince che i fatti contestati risultano «accertati» tutti più o meno in un periodo compreso tra maggio ed ottobre del 1989. Quasi come fossero state realizzate tutte nello stesso periodo.

Il che non è. Basti pensare che: nel 1986 era stata inaugurata La Materia poteva non esserci e che, al gennaio del 1988, risale l’opera Una curva gettata alle spalle del tempo. Quasi che di queste opere mastodontiche nessuno, compresi tutori delle forze dell’ordine e autorità preposte al controllo del territorio, non si fossero avveduti.

Ma poi un’altra domanda mi è sovvenuta.

Come mai questi reati erano stati contestati solo all’imputato, che era il committente, e non anche a coloro che detti abusi edilizi avevano progettato? Mi riferisco a Tano Festa, a Pietro Consagra, a Paolo Schivocampo, ad Italo Lanfredini, ad Antonio Di Palma, ma ancora al giapponese Nagasawa. Quasi che costoro non dovessero essere chiamati a rispondere di quegli abusi edilizi in concorso con il committente e il finanziatore.

Quest’ultimo, in particolare, era l’artista che, insieme all’imputato aveva realizzato la Stanza di Barca d’oro. Era questa la voluta imprecisione cronologica di cui vi parlavo. Infatti, la prima sentenza di assoluzione risale al 10 ottobre 1990 ed è opera dello stesso Pretore autore di tutte le altre assoluzioni su esaminate, riguardava proprio quest’opera, tacciata di costituire «un deturpamento»[3]. Eppure si trattava di un cunicolo di adduzione ad una stanza nella quale pendeva, capovolto, lo scheletro di una barca, manufatto che veniva totalmente interrato «con la suggestiva motivazione del valore memoriale del futuro reperto espressa dall’autore e dal committente». Dunque, un’opera non visibile, non esteriorizzata e destinata «a distanza di cento anni». Era questo l’impegno. Sarebbe stata riaperta dopo un secolo, evidentemente non da chi l’aveva pensata, realizzata e vista solo il giorno della inaugurazione che coincideva anche con quello dell’interramento (Fig. 6).

Fig. 6 – Hidetoshi Nagasawa, Stanza di barca d’oro, www.ateliersulmare.comFig. 6 – Hidetoshi Nagasawa, Stanza di barca d’oro, www.ateliersulmare.com

Questa è la storia di una moltitudine di abusi edilizi che, nel 2006, veniva riconosciuta, su intervento del Quirinale, quale ‘Primo Parco naturale d’arte Italiano’ istituito come percorso turistico culturale dalla Regione Siciliana, ad oggi noto a noi tutti come Parco di Fiumara d’arte.

In conclusione, se oggi possiamo godere delle opere di Fiumara d’Arte, che armonicamente si sviluppano in diversi comuni della valle dei Nebrodi, è anche grazie a chi[4], andando oltre il rigido schema delle regole del diritto, ci ha dimostrato come il binomio tra arte e diritto, forse, non era poi così tanto inconciliabile, intravedendo in quelli che erano stati ritenuti ‘abusi edilizi’ una forma di arte ‘che non costituisce reato’.


NOTE

[1] Pretura di Mistretta, sent. n. 30 del 2 maggio 1991.

[2] Pretura di Mistretta, sent. n. 71 del 4 luglio 1991.

[3] Pretura di Mistretta, sent. del 10 ottobre 1990.

[4] Quel Pretore di Mistretta, il dott. Nicolò Fazio, poi Presidente della Corte di Appello di Messina che mi ha fornito copia delle sentenze richiamate nel testo e che, per questo oltre che per l’affettuosa amicizia, ringrazio.

Fascicolo 3 - 2022