Il testo esplora il rapporto storico tra guerra, diritto e arte, evidenziando come, nella società occidentale contemporanea, la guerra possa essere vista come il sintomo di un ritorno a dinamiche tipiche delle “società religiose” antiche, che usavano la violenza ritualizzata per gestire conflitti interni. Nell’ottica dell’analisi proposta, questo ritorno della violenza non deriverebbe unicamente dalla pressione esercitata da potenze esterne, ma rifletterebbe un’involuzione culturale dell’Occidente: le moderne democrazie liberali, pur tecnologicamente avanzate, sembrano essere incapaci di rinunciare alla guerra come strumento di regolazione delle dinamiche sociali. L’articolo invita quindi a ripensare la cultura occidentale alla luce delle sue radici storiche, cercando di opporsi al ritorno di una mentalità religiosa e all’uso della violenza come principio regolatore della vita sociale, promuovendo invece il razionalismo e il dubbio, principi che hanno storicamente guidato lo sviluppo della civiltà occidentale.
The text explores the historical relationship between war, law and art, showing that, in contemporary Western society, war can be seen as a symptom of a return to dynamics typical of ancient “religious societies”, which used ritualized violence to manage internal conflicts. From the point of view of the proposed analysis, this return of violence would not only derive from the pressure of external powers but would reflect a cultural involution of the West: modern liberal democracies, although technologically advanced, seem incapable of renouncing war as an instrument to regulate social dynamics. The article therefore calls for a rethinking of Western culture in the light of its historical roots, seeking to oppose the return of a religious mentality and the use of violence as a regulating principle of social life, promoting instead rationalism and doubt, principles that have historically guided the development of Western civilization.
CONTENUTI CORRELATI: arte - diritto - Guerra - finzione - religione - art - law - war - fiction - religion
1. Il problema della guerra rispetto all’arte e al diritto - 2. Il diritto e l’arte nella “società religiosa” antica - 3. Il diritto e l’arte nella “società politica” antica - 4. Le condizioni di possibilità cognitive di una razionalità giuridica e artistica - 5. Di cosa è il sintomo la guerra nella società occidentale contemporanea? - Bibliografia - Note
Sebbene i rapporti tra guerra e diritto rappresentino un nodo storico assai complesso, ricco di sottili interconnessioni – dal diritto che limita la guerra alla guerra che, paradossalmente, contribuisce a generare nuove norme giuridiche – non è fuori luogo affermare che, sul piano normativo-prescrittivo, il diritto si ponga fondamentalmente in antitesi alla guerra. In questa prospettiva, la guerra può essere interpretata come la negazione della ragione d’essere della maggior parte degli ordinamenti giuridici: assicurare la convivenza pacifica della società[1]. Ogni volta che una società precipita nella guerra, le leggi civili vengono infatti violate e con esse svanisce la possibilità di risolvere pacificamente i conflitti attraverso la parola[2]. Solo i barbari, diceva Aristotele, sono «ἄνευ λόγου», cioè, letteralmente, «privi di parola». Non perché siano effettivamente incapaci di parlare ma perché tendono a risolvere ogni conflitto con la violenza, piuttosto che con la parola[3]. Estranea (nei limiti già discussi) al diritto, la guerra lo è ancor più all’arte, soprattutto se si ammette, come abbiamo teorizzato altrove[4], che non possa darsi arte, nell’ambito di una società razionale, se non in accordo con i fini sottesi a questo tipo di società. Rispetto ad altri possibili assetti sociali, ciò che caratterizza una società razionale è l’impegno a ripensare criticamente le norme alla base del vivere sociale, al di fuori di ogni ripiegamento dogmatico sulla tradizione. Nell’ambito di queste società le forme d’arte che verranno maggiormente privilegiate saranno dunque quelle che, assecondando questo ideale di perfezionamento dei criteri normativi del vivere sociale, favoriscono un ripensamento critico delle norme che influenzano la condotta umana, siano esse giuridiche, morali, politiche o religiose[5]. Ora, nella misura in cui la guerra abolisce brutalmente i principi più essenziali che tutelano la vita umana, condannando l’umanità a precipitare nella barbarie, nell’anarchia e, talvolta, nel caos primordiale, essa non problematizza affatto le norme sociali, ma si limita a sovvertirne i fondamenti, eliminando qualsiasi possibilità di dibattito o revisione.
Nonostante il diritto e l’arte, come abbiamo visto, siano fondamentalmente antiviolenti, sarebbe inesatto – ripetiamolo – considerarli del tutto estranei a ogni forma di violenza[6]. In un’epoca precedente al passaggio dell’umanità da un modello sociale religioso (e prerazionale) a uno politico (e razionale), sia il diritto che l’arte obbedivano infatti a strategie ben diverse da quelle che oggi ci sono più familiari[7]. Prima di essere parte integrante di un comune dispositivo di prevenzione della violenza, il diritto e l’arte, nelle loro forme embrionali, partivano dal presupposto che la violenza fosse un dato imprescindibile della natura umana[8]. Sintetizzando la mentalità delle società a cui qui si sta facendo riferimento, lo studioso René Girard ha scritto: «è possibile ingannare la violenza solo a condizione di offrirle uno sfogo, solo fornendole qualcosa da mettersi sotto i denti»[9]. Non potendo essere estirpata dall’uomo, la violenza deve essere “gestita”, consentendo una parziale liberazione della sua carica distruttiva, con la sola precauzione di indirizzarne gli effetti verso obiettivi che non compromettano l’esistenza della comunità. «La società cerca di canalizzare verso una vittima relativamente indifferente, una vittima “sacrificabile”, una violenza che rischia di colpire i propri membri, coloro che essa vuole, ad ogni costo, proteggere»[10]. La guerra faceva parte di questo complesso sistema di gestione della violenza, nella misura in cui la violenza che essa scatenava era diretta verso l’esterno e preservava dunque la comunità dal rischio di auto-annientarsi a causa di conflittualità intestine[11].
È alla luce di un parallelo con questo sistema di gestione della violenza che vorremmo tentare di leggere, in questo scritto, il riaffacciarsi sull’orizzonte della storia occidentale, dopo un lungo periodo di pace relativa, dello spettro della guerra. Ciò che ci interessa analizzare è il modo in cui i paesi occidentali si rapportano alle guerre che stanno attualmente infuriando poco oltre i loro confini. Di cosa è il sintomo l’incapacità politica occidentale di trovare una via d’uscita pacifica a queste guerre? Da cosa dipende questa inerzia nel trovare una soluzione diplomatica? Cosa c’è dietro l’assuefazione generale della società nei confronti di conflitti che tendono a protrarsi oltre ogni limite sopportabile?
Senza trascurare altre spiegazioni di un fenomeno così complesso, l’ipotesi che vorremmo mettere alla prova nel presente studio è che questa situazione di stallo possa essere ricondotta al riemergere (sebbene in forme non consapevoli) di un modello di gestione della violenza che sembrava essere stato definitivamente superato ma che è (probabilmente) ritornato in auge all’insaputa di coloro stessi che lo hanno risuscitato. In altri termini, l’ipotesi da cui partiremo suggerisce che il prezzo pagato dall’Occidente per accedere agli attuali livelli di benessere materiale sia stata la regressione culturale verso stadi di sviluppo prerazionali, cioè il ritorno a una concezione della società basata sull’ineluttabilità della violenza[12] piuttosto che sull’idea di un suo possibile trascendimento razionale[13]. In questa prospettiva, i recenti venti di guerra che imperversano ai confini dell’Occidente potrebbero essere visti come uno dei tanti “paradossi” che costellano la storia umana: anziché favorire l’emergere di una società più pacifica e razionale, il progresso tecnologico avrebbe, in un certo senso, riportato indietro l’orologio della storia, assuefacendo l’umanità alla costante presenza della guerra e reintroducendo forme di gestione della violenza molto lontane dalle pratiche “razionali” dell’arte e del diritto. Trattandosi di un’ipotesi che concerne un fenomeno in corso di sviluppo, ogni verifica empirica è da rinviarsi a tempi più maturi. Resta comunque possibile chiedersi, in un’ottica kantiana[14], se sussistano le condizioni per ammetterne la possibilità teorica. È con questo obiettivo che ci accingiamo a condurre la nostra ricerca.
Le condizioni di possibilità della razionalità non sono solo psicologiche ma anche sociologiche[15]. È solo nell’ambito di un ordine sociale specifico che gli individui possono sviluppare competenze psicologiche compatibili con l’esercizio del pensiero razionale. L’ordine sociale in questione è quello che non fonda più le proprie “leggi” su una «tradizione ancestrale» incomprensibile[16], ma su un “consenso” derivante dalla società stessa, la quale si impegna a sottoporre le proprie norme di comportamento all’approvazione o alla disapprovazione di tutti i suoi membri. L’emergere di un ordine sociale di questo tipo segna il passaggio da una “società religiosa” a una “società politica”[17].
Chiameremo “religiose” le società che modellano la vita collettiva su una legge che coincide con la «consuetudine» [custom], cioè con un ordine tradizionale da conservare e perpetuare scrupolosamente[18]. L’uomo religioso “raccoglie” (relegit) l’ordine tradizionale, ne preserva la natura “intemporale” opponendosi a chiunque tenti di riformarlo o, peggio ancora, di affrancarsene[19]. Ricostruendo l’etimologia del termine religio a partire dal verbo relegere, Cicerone sottolineava la cura scrupolosa con cui l’uomo religioso eseguiva gli atti di culto. Gli scrupoli dell’homo religiosus non riguardavano tanto il contenuto dei riti, quanto il modo in cui venivano eseguiti[20]. Egli non si interrogava sul significato dei riti, ma sulla correttezza della loro esecuzione. Il legame con la divinità dipendeva da questa scrupolosità, poiché l’ordine tradizionale che la società era chiamata a incarnare esigeva da tutti i cittadini una rigorosa osservanza della legge: ciascuno si impegnava così a compiere i propri doveri religiosi con attenzione scrupolosa e a pretendere che anche gli altri facessero lo stesso. Oltre a rafforzare la «tradizione ancestrale» (vetustas pro lege semper habetur), la funzione di questi riti era, in un certo senso, di offrire alla società un risarcimento compensatorio per il carattere “violento” della legge. Il connubio tra violenza e legge, nel contesto delle società religiose, non è infatti accidentale ma sostanziale[21]: la violenza inerisce alla sostanza della legge perché l’uomo religioso sembra incapace di ammettere che ci si possa assoggettare alla legge per motivi diversi dalla violenza (accettare supinamente la tradizione ancestrale non implica forse una resa incondizionata alla legge piuttosto che un vero assenso razionale ad essa?)[22]. Siccome non capisce la legge a cui si sottomette (credo quia absurdum)[23], l’uomo religioso interpreta l’autorità derivante da essa come un atto di violenza. Tuttavia, se accetta di sottostare a questa violenza, non è per rassegnazione o masochismo, ma perché tale legge, pur violenta nei suoi confronti, lo autorizza a compiere anch’egli atti di violenza (come i riti sacrificali e orgiastici che scandivano la vita delle società antiche). Da soggetto passivo, egli si trasforma quindi in soggetto attivo di violenza. Ed è proprio questo mutamento che, alla fine, lo riconcilia con la legge[24]. Non ci si può adattare all’ordine esistente se non perché le leggi che hanno modellato questo ordine prevedono dei “momenti di trasgressione ritualizzata” nei quali tutta la comunità è autorizzata a infrangere quegli stessi doveri e divieti che, nei momenti ordinari della vita sociale, esigono da essa il massimo rispetto. Le società religiose sono quelle che iscrivono nel loro calendario un’alternanza di momenti profani e di momenti sacri[25] al fine di compensare l’obbedienza costrittiva dei primi (lavoro, doveri familiari…) con l’esuberanza trasgressiva dei secondi (feste orgiastiche, guerre…)[26]. È così che le società antiche regolavano il loro equilibrio, programmando momenti di violenza ritualizzata che, a intervalli periodici, coinvolgevano tutta la comunità. Non potendo eliminare la violenza, l’uomo religioso vi si adattava, dirigendola verso l’esterno, in particolare verso vittime considerate estranee alla comunità[27].
Le prime forme di arte emergono in questo contesto e si collocano nel solco di questa strategia culturale fondata sulla neutralizzazione della violenza attraverso una liberazione controllata della propria potenza devastatrice. La sola differenza è che l’arte canalizza ormai la violenza verso “sbocchi” che non sono più reali ma simbolici. Le vittime reali dei sacrifici e delle orge rituali cedono il posto a vittime simboliche, immolate sull’«altare» dello spettacolo artistico (il teatro tragico e comico)[28]. Questa innovazione conferisce all’arte mimetica una funzione “catartica” (Aristotele) che ne segnerà a lungo la vocazione sociale[29]. Per purificare le relazioni sociali da ogni traccia di violenza, la società era così chiamata a “immergersi” mentalmente nei contenuti immaginari dell’arte mimetica[30]. Identificandosi con un essere immaginario che compie atti di hybris, la società scaricava le proprie pulsioni aggressive senza sconfinare in atti di violenza reale[31]. La distanza mentale richiesta doveva essere appena sufficiente per evitare che il pubblico cadesse nella follia, alienandosi completamente nelle ombre del mondo fittizio. Fatta salva questa precauzione, l’equilibrio su cui si basavano le prime forme di arte mimetica era regolato sull’«immersione» piuttosto che su una «presa di distanza» mentale dal contenuto rappresentato[32].
Se fosse rimasto a questo stadio, l’uomo probabilmente non avrebbe mai avuto motivo di modificare il proprio atteggiamento nei confronti del diritto e dell’arte: l’immersione gli consentiva di accedere alla purificazione dalle passioni (κάθαρσις τῶν παθημάτων), e quest’ultima rappresentava l’obiettivo finale di un dispositivo consolidato di neutralizzazione della violenza, che accomunava gli spettatori delle tragedie greche ai testimoni dei primi sacrifici antichi[33]. Tuttavia, il processo di razionalizzazione ha trasformato l’uomo e insieme a lui la creatività artistica. Quest’ultima è allora venuta riequilibrando la propria natura intorno a una diversa combinazione di “immersione” e “distanza” – una transizione resa possibile dall’evoluzione della società da religiosa a politica e dalla riconfigurazione dei rapporti tra l’uomo e la legge.
Il logos è, fondamentalmente, la capacità di accettare la legge non perché coercitiva ma perché giusta[34]. Questa capacità implica innanzitutto il rifiuto della tradizione ancestrale, ormai incomprensibile, e la scelta di elaborare ex novo la legislazione a cui la società deve sottomettersi. Nell’atto stesso in cui l’umanità decide di diventare la fonte della propria legge, questa perde ogni carattere dogmatico e sacro, trasformandosi automaticamente in oggetto di un dibattito, talvolta acceso e contraddittorio, tra i membri di una stessa comunità. E tuttavia, lo scopo di questo dibattito non è modellare la legge secondo i conflitti che dividono la comunità, ma promuovere il superamento di tali conflitti attraverso l’adesione a un progetto comune[35]. La legge rappresenta quindi il tentativo di conciliare interessi contrastanti, essa è espressione di una società che rifiuta di soccombere alla discordia (Eris) per unirsi intorno a un progetto solidale (Philia)[36]. L’essenza di questa legge è la parola persuasiva, quell’«arte del convincere»[37] che giustamente è stata riconosciuta come il tratto distintivo di ogni regime democratico (ma che era già osservabile nei regimi aristocratici che soppiantarono, in Grecia, le antiche monarchie micenee)[38]. I dibattiti, le dispute oratorie, le battaglie argomentative che precedevano l’elaborazione, l’attuazione o la correzione della legge avevano come unica ragione d’essere quella di preservare l’unità nella diversità. Ma riflettevano anche un atteggiamento mentale nuovo, tipico di una società che non è più religiosa ma politica: il dubbio. Il motto dell’uomo razionale è che bisogna dubitare di tutto. Non solo dei dogmi religiosi, ma anche delle opinioni diffuse (la doxa) che la maggior parte della società accoglie senza riflettere. De omnibus dubitandum est. Esseri anti-dogmatici e para-dossali, gli uomini razionali sottopongono al vaglio del dubbio tutto ciò che viene accettato dalla società come un’evidenza consensuale. La diffidenza razionale non risparmia nemmeno la legge. Si potrebbe dire anzi che essa si esercita soprattutto sulla legge. Se è vero che la violenza umana deriva dalla sottomissione cieca e irriflessa a una legge mal compresa, è del tutto normale che le società razionali si impegnino a sottoporre le proprie leggi a un esame critico. In società di questo tipo, anche l’arte è tenuta a integrare questo spirito critico, interrogando sia la validità del proprio contenuto immaginario sia le categorie culturali (le “leggi”) che lo rendono intelligibile. Da un lato, il contenuto rappresentato deve essere interpretato alla luce delle stesse categorie culturali che rendono interpretabile ogni situazione analoga della vita reale (da qui la questione di sapere se la finzione sia verosimile, se le situazioni rappresentate siano coerenti con il sistema di aspettative che regola l’atteggiamento della società verso ogni situazione reale dello stesso tipo). D’altro lato, se il suddetto contenuto, senza diventare incomprensibile, riesce a mettere in crisi tali categorie, queste ultime devono poter essere riesaminate (da qui l’impossibilità di continuare a percepire il mondo come prima[39], una volta che l’arte ha messo in discussione i quadri culturali da cui dipendeva la comprensione di tutte le situazioni reali in possesso di una qualche analogia con quelle rappresentate). Si tratta, in altri termini, di sondare la credibilità del contenuto rappresentato (la sua disponibilità a “essere creduto”), verificando prima di tutto se la situazione immaginata assomiglia alle situazioni prototipiche che l’hanno ispirata per poi, una volta accertata questa verosimiglianza, riconsiderare il significato di tutte le situazioni reali che presentino una qualche analogia con quelle immaginate. Il rapporto tra il contenuto rappresentato e le categorie prese a modello non è quindi un rapporto di esemplificazione ma di problematizzazione[40]. L’arte non esemplifica una certa regola di comportamento ma la problematizza.
Il passaggio da un ordine sociale di tipo “religioso” a uno di tipo “politico” ha profondamente mutato il rapporto dell’uomo con il diritto e l’arte, favorendo l’adozione, rispetto a queste sfere culturali, di un approccio cognitivo inedito: il dubbio. Alla base di questa nuova prospettiva c’è un atteggiamento opposto a quello prevalente nelle società religiose: la credenza. Possiamo quindi affermare che le condizioni di possibilità di ogni forma di razionalità giuridica o artistica dipendono dall’acquisizione da parte dell’umanità della capacità di relazionarsi a un determinato contenuto (normativo o immaginario) in modo alternativo alla “credenza” e in modo consono al “dubbio”.
Se risaliamo alle origini della razionalità occidentale e delle diverse manifestazioni culturali (filosofiche, giuridiche e artistiche) che la caratterizzano, ci accorgiamo che esse prendono il posto di forme di cultura analoghe, profondamente intrise di religione[41]. Aristotele definisce i primi filosofi come «coloro che discorrevano della natura» in opposizione ai loro predecessori che «discorrevano degli dei»[42]. Ora, siccome non si dà razionalizzazione del diritto se non in presenza della filosofia[43], è analizzando come i primi filosofi abbiano affrontato il rapporto con gli dei e con la religione che possiamo cogliere le implicazioni storiche, per il diritto, di questa scelta antireligiosa. Va notato a questo riguardo che la nozione che ha permesso alla filosofia – almeno inizialmente – di affrancarsi da una concezione religiosa della legge non è la «ragione» (λόγος) bensì la «natura» (φύσις). La legge delle prime società religiose, come abbiamo visto, coincideva con la tradizione ancestrale, cioè con le «consuetudini» o «maniere» istituite dagli antenati. L’autorità della legge (cioè il suo carattere vincolante per gli uomini) dipendeva allora dalla presunta natura divina degli antenati: solo un dio – così si pensava – o un essere semi-divino (figlio o discepolo) aveva potuto concepire una legge giusta[44]. Ne consegue che l’idea di un “diritto naturale” è potuta emergere solo quando l’umanità è stata in grado di contestare l’autorità degli antenati[45].
Nell’economia del pensiero filosofico antico, il personaggio che assurge a simbolo di questa rottura con la tradizione ancestrale è Socrate:
Quali strumenti usa la tradizione filosofica socratica per contestare l’autorità divina dei sistemi legislativi fondati sulla tradizione ancestrale?
Innanzitutto, il carattere sacro e inviolabile dei codici esistenti viene discreditato mercé un confronto tra un codice e l’altro. Se appaiono discordanze tra i codici legislativi di diverse comunità è perché nessuna di queste comunità detiene la legge perfetta. Da ciò non consegue però che tutte le leggi siano a loro modo giuste, tenuto conto dell’ideale di giustizia – storicamente determinato – della comunità su cui si esercita la loro autorità. Il corollario del riconoscimento che ogni legge è indissolubilmente legata a un contesto determinato non è, in filosofia, il relativismo, ma l’emergenza di una serie di opposizioni che struttureranno, nei secoli successivi, ogni forma di pensiero filosofico: ciò che è contingente si opporrà a ciò che è permanente, l’imperfetto al perfetto, il molteplice all’Uno, l’errore alla verità. Le leggi esistenti stanno alla legge naturale come la contingenza sta alla permanenza, l’imperfezione alla perfezione, il molteplice all’uno, l’errore alla verità. Al di là del diritto positivo esiste quindi un diritto naturale il cui ideale di perfezione funge da modello per tutte le leggi vigenti, benché queste ultime non riescano – e non riusciranno mai – a incarnarlo perfettamente. Le istituzioni esistenti sono, per definizione, «contro-natura» (παρά φύσιν), mentre le istituzioni naturali sono contro i comportamenti più diffusi (παρὰ τὸ ἦθος). Ne deriva una conseguenza paradossale: il presupposto dell’idea di un diritto naturale è il riconoscimento della diversità dei codici giuridici esistenti[48]. La scoperta che esistono concezioni della giustizia diverse da quella che ci è familiare è proprio ciò che dissuade gli uomini dalla tentazione di erigere quest’ultima al rango di giustizia assoluta e universale. È scoprendo leggi diverse dalla nostra che possiamo infatti renderci conto del carattere contingente e, per ciò stesso, imperfetto, delle leggi a cui siamo soliti conformarci. Ora, l’imperfezione non è tale se non perché ammettiamo l’esistenza di qualcosa di perfetto. Dall’idea dell’imperfezione delle leggi positive scaturisce così l’idea di una legge perfetta. La società che modella il proprio ethos su una tale legge era chiamata Πολιτεία, termine che non ha un referente reale, bensì ideale, e la cui traduzione corretta non è “repubblica” ma “utopia”[49].
In sintesi, i filosofi antichi d’ispirazione socratica (Socrate, Platone e Aristotele) giungono al riconoscimento di una legge naturale revocando nel dubbio le diverse leggi esistenti, cioè estendendo alle convenzioni giuridiche del loro tempo l’atteggiamento critico che i primi Φιλόσοφοι (coloro che discorrevano amorevolmente di sapienza) avevano riservato ai φιλόμυθοι (coloro che discorrevano amorevolmente di miti). La quintessenza dell’atteggiamento filosofico che ha promosso l’emergenza delle prime forme di razionalità giuridica è l’esercizio del dubbio attraverso la pratica filosofica per eccellenza: la dialettica[50]. Nulla ci autorizza a pensare che per Socrate la filosofia dovesse oltrepassare lo stadio della disputatio, non perché gli uomini non fossero in grado, secondo lui, di comprendersi, ma perché solo attraverso il confronto reciproco essi possono riconoscere i limiti della loro visione della giustizia e intravedere, dietro il filtro deformante delle consuetudini più diffuse (la doxa), la perfezione di quella verità che rende imperfetto tutto ciò che diverge da essa.
È in modo analogo che, in ambito artistico, la mimesis dispiegata dai primi poeti si affranca dalle forme mitiche dell’immaginario religioso delle origini[51]. La finzione (così chiameremo l’arte mimetica) non è nata quando l’uomo ha per la prima volta immaginato cose inesistenti, ma solo quando le ha immaginate senza crederci veramente, senza aderire incondizionatamente al loro contenuto, senza cristallizzarle nella forma di una credenza dogmatico[52]. È dunque rompendo con l’impostazione dogmatica della religione che l’arte è riuscita ad acquisire una propria autonomia espressiva, dando vita a una forma di comunicazione incentrata sulla rielaborazione delle credenze religiose: la finzione. Le radici delle prime manifestazioni dell’immaginario religioso sono da cercarsi nel mito. Rispetto alle narrazioni mitiche, le società antiche ammettevano un solo atteggiamento possibile: l’adesione dogmatica e incondizionata al loro contenuto. «Se l’assenso alla finzione è libero […], fa opportunamente rilevare Pavel, la fede nei miti della comunità è obbligatoria»[53]. Investiti di sacralità, tali racconti mitici si sono così affermati come il fulcro centrale dell’immaginario religioso. Tuttavia, non appena la loro credibilità sociale è venuta affievolendosi, i miti hanno perso ogni aura sacrale e il loro “materiale” è diventato oggetto di liberi tentativi di riscrittura. Tutte le ricerche che studiano le origini della finzione da un punto di vista antropologico, narratologico e filologico tendono a identificare in queste forme di riscrittura le prime manifestazioni embrionali della finzione. L’ipotesi è stata formulata per la prima volta da Nietzsche nella Nascita della tragedia ma trova un’eco nei lavori di molti altri studiosi. Come ebbe a scrivere Propp: «Un certo modo di vita si estingue, si estingue la religione e il contenuto si trasforma in fiaba»[54]. Sulla scia di questa stessa interpretazione, Walter Benjamin ha riconosciuto nella fiaba uno dei «primi passi compiuti dall’uomo per dissipare l’incubo mitico»[55]. E Marc Augé, più vicino a noi, ha scritto: «…le narrazioni di finzione si allontanano dai miti da cui hanno avuto origine e, in un certo senso, si distaccano dalla religione riproducendola»[56]. Come si vede, benché muovano da premesse epistemologiche diverse, le ricerche in questione convergono su un punto fondamentale: la nascita della finzione avviene nel momento in cui l’umanità riesce ad affrancarsi dagli stereotipi religiosi[57], trasformando la propria sfera immaginaria nel luogo di dissoluzione per eccellenza di tutto ciò a cui le generazioni passate avevano creduto ma a cui le nuove generazioni non potevano più credere. Se la religione chiedeva all’uomo di aderire incondizionatamente a certe rappresentazioni immaginarie (i miti), la finzione, per la prima volta, gli ha chiesto di prendere le distanze da esse, di «metterle in scena secondo la modalità del “come se”»[58], in modo da mettere in scacco i riflessi che inclinerebbero la nostra specie a dare spontaneamente credito a qualsiasi cosa si possa immaginare[59]. Il presupposto della finzione non è dunque la capacità di credere, ma la capacità di prendere le distanze da rappresentazioni che fino a quel momento erano state oggetto di credenza. Ne consegue che la sua precondizione cognitiva non è la «sospensione volontaria dell’incredulità» (Coleridge), ma quella forma sui generis di incredulità che coincide con il “fare finta”, cioè con la capacità di figurarsi mentalmente certe cose ma senza aderirvi, senza trasformarle in credenze[60]. L’acquisizione delle competenze cognitive necessarie a ripensare in termini più disincantati il rapporto dell’umanità con l’immaginario religioso è stata una tappa cruciale nello sviluppo psichico della nostra specie. Se i primi passi della coscienza dell’uomo, non senza sbavature e ingenuità, sono stati segnati dalla religione, la sua evoluzione verso stadi di sviluppo psichico più razionali si è realizzata attraverso pratiche culturali che, come la finzione, hanno progressivamente educato l’umanità a liberarsi dalle catene dogmatiche della credenza ingenua. La finzione ha preparato il terreno per l’avvento del pensiero razionale, allentando la morsa che imprigionava la coscienza umana all’interno di un orizzonte in cui le cose percepite erano quasi indistinguibili da quelle immaginate[61].
Perché l’Occidente si sta lasciando progressivamente risucchiare dal vortice della guerra? Perché le diplomazie occidentali tardano a trovare una soluzione pacifica ai conflitti che furoreggiano poco oltre le frontiere di casa?
Era da queste domande che aveva preso le mosse la nostra riflessione. Sarebbe rassicurante pensare che la colpa dipenda unicamente da potenze esteriori all’Occidente, smaniose di sfidare il dominio atlantista sottraendo territori satelliti come Ucraina e Israele alla sua influenza. Ancorché non infondata, questa spiegazione ci sembra incompleta. La ricostruzione genealogica dei concetti di diritto e arte, ci ha permesso di mettere in luce i rapporti, insospettabili ma tangibili, tra queste due sfere culturali, da un lato, e la guerra, dall’altro. Quest’ultima non è solo il generico corollario di un patrimonio genetico violento[62]. E non è nemmeno la politica continuata con altri mezzi[63]. Oltre a queste definizioni (pertinenti ma un po’ fruste), c’è spazio per un’interpretazione meno scontata: la guerra – così riassumeremo la nostra interpretazione – è stata (anche) un meccanismo rituale che le società di un certo tipo hanno usato per cercare di risolvere i conflitti che minacciavano di distruggerle canalizzando la violenza che ribolliva[64] al loro interno verso obiettivi esterni[65]. È così che le società antiche regolavano il loro equilibrio, programmando momenti di violenza ritualizzata che, a intervalli periodici, coinvolgevano tutta la comunità[66]. Alla stregua delle orge, dei sacrifici e di altre pratiche trasgressive di natura violenta, la guerra offriva una valvola di sfogo catartica a una crisi che si sviluppava all’interno della società. Le società che gestivano in questo modo i loro equilibri interni erano le società di tipo religioso. Il fatto che la società attuale, malgrado l’alto livello di progresso tecnologico, non sia ancora riuscita a farla finita con la guerra e, anzi, minacci di farsi risucchiare con più veemenza da essa, non è forse il segno di una inaspettata e pericolosa involuzione “religiosa” della sua identità?[67]
Certi indizi ci sembrano confermare questa ipotesi.
Innanzitutto, i regimi democratici attuali di obbedienza liberale hanno progressivamente affrancato (disembedded) l’economia da ogni forma di tutela politica o morale[68], promuovendo un modello di vita basato sul culto del progresso e della competitività, il cui obiettivo principale è l’accrescimento della ricchezza. Come già rilevato da Foucault verso la metà degli anni ‘70[69], le correnti liberali del XX secolo, rompendo con l’approccio dei liberali classici, adottano ormai strategie di governo che, attraverso metodi coercitivi, universalizzano quei tratti antropologici “naturali” che erano alla base delle teorie economiche di Adam Smith: l’individualismo egoistico e la propensione al commercio[70]. Lungi dall’essere “naturali” i tratti in questione vengono, in realtà, consolidati in modo artificiale attraverso complessi apparati educativi, giuridici e finanziari. Questi dispositivi non si limitano a stimolare i determinismi economici, ma li trasformano in norme socialmente vincolanti, rafforzando così il loro impatto sulla società. Dall’«ingenuità naturalistica»[71] dei primi liberali si passa così all’incubo di un mondo sempre più artificiale e robotizzato, votato al culto dell’economia, della tecnica e della competitività. In un contesto del genere, sempre più segnato dall’irrazionalità, come sorprendersi se tratti culturali tipici di una “società religiosa” tornano, come abbiamo visto, a riemergere nella storia occidentale?
Ci sono poi le due dimensioni culturali che abbiamo considerato nel corso di questa ricerca. Cominciamo dal diritto internazionale. Difficile resistere alla tentazione di sospettare i suoi esponenti attuali di una certa duplicità. Come funamboli su un filo sottile, i portavoce del diritto, nel corso dei recenti conflitti, hanno dato l’impressione di oscillare tra impotenza e complicità, recitando in queste guerre una parte ambigua e rivelandosi al tempo stesso impotenti nel risolvere i conflitti e intrappolati nelle dinamiche che li alimentano. Da una parte, le sanzioni giuridiche, i mandati di cattura internazionali, la proclamazione dei «crimini di guerra» si sono rivelate iniziative sterili e prive di qualsiasi effetto concreto nel mitigare il conflitto. La loro funzione di deterrente si è dimostrata, in ogni caso, inutile. D’altra parte, la corsa agli armamenti, lo sviluppo dell’industria militare, la creazione di un esercito, la sperimentazione della «guerra per procura» denotano una compromissione del diritto con la guerra. Siamo così giunti al punto in cui la guerra è diventata “routine”, un fatto quasi naturale che i nostri ordinamenti giuridici non riescono più a contenere o di cui si fanno indirettamente complici.
L’arte contemporanea non è da meno. Nel senso che la sua compromissione con la violenza non è meno significativa o preoccupante di quella osservata nel campo del diritto. Non si contano più le finzioni di carattere violento. Crimini mafiosi (Gomorra, The Soprano), omicidi seriali (Dexter, The Killing), atti terroristici (Hatufim), rapimenti (Hostages), spionaggio (Homeland), torture (Game of Thrones), rivolte urbane (The Walking Dead), distopie politiche (The Handmaid’s Tale), pandemie apocalittiche (The Last of Us), invasioni aliene (The X-Files), guerriglia (Fauda, Our Boys), etc., la violenza irriga l’immaginario collettivo attraverso molteplici forme di fiction. In questo contesto, la catarsi è tornata ad essere l’orizzonte culturale che regola le interazioni della società con i generi immaginari. Tuttavia, vi è un diffuso scetticismo sulla capacità della società attuale di ridefinire il proprio rapporto con la finzione in termini catartici e molte sono le voci critiche che denunciano i rischi di desensibilizzazione e banalizzazione delle tematiche violente trattate[72].
Di fronte a questo processo involutivo ci è sembrato indispensabile, in sede di ricerca, reinserire la cultura occidentale all’interno del movimento storico che più ha caratterizzato il suo sviluppo peculiare: la secolarizzazione (Weber). Quest’ultima non coincide solo con l’emancipazione della cultura occidentale da qualsiasi forma di legittimazione trascendente (secondo l’abusata formula nicciana: «Dio è morto»)[73], ma con l’affermarsi di un modello politico razionale che ripudia l’uso della violenza come mezzo di gestione dei rapporti sociali, rinnegando quel legame tra sacro e violenza[74] che aveva caratterizzato le «società religiose» del passato. Pur nascendo in momenti diversi della storia, tutte le più significative formazioni culturali dell’Occidente hanno infatti in comune, come abbiamo visto, la rottura con la religione[75]. Attraverso la filosofia, il diritto e l’arte, l’Occidente ha regolato i conti con la mentalità religiosa, iscrivendo la propria storia all’interno di un orizzonte in cui il verbo credere è stato progressivamente soppiantato dai verbi dubitare (nel campo del diritto) e fingere (nell’ambito dell’arte). Questo cambiamento ha favorito l’emergere di una mentalità più riflessiva, in cui il dubbio e l’incredulità sono diventati le chiavi di lettura di tutte le manifestazioni della realtà prese in esame. Ripensare la cultura occidentale alla luce delle sue origini ci consentirà di resistere al flusso che sta riportando indietro la nostra civiltà, facendola regredire verso epoche remote, intrise di mentalità religiosa e inevitabilmente soggette alla guerra?
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[1] «Le Leggi sono le condizioni, colle quali uomini liberi, ed isolati di questo globo si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla»: Beccaria (2014), p. 5.
[2] «La violenza ha questo di terribile e disumano. Nega il verbo. Interrompe il discorso»: Ferrarotti (1980), p. 9.
[3] Arendt (1983).
[4] Leiduan (2021).
[5] Se l’Occidente è stato la culla, nel campo artistico, di una creatività sperimentale assai più pronunciata rispetto ad altre tradizioni artistiche, ciò non è dovuto soltanto al culto dell’innovazione – secondo una lettura puramente estetica dello sviluppo delle forme artistiche – ma anche alla necessità di promuovere, attraverso le situazioni rappresentate dall’arte, un riesame critico dei doveri e dei divieti che regolano la vita sociale. Il mimetismo artistico non si limita infatti a riprodurre l’esistente, i contenuti rappresentati imitano la realtà allo scopo di problematizzare le categorie concettuali che la rendono intelligibile e, attraverso di esse, anche i criteri assiologici che orientano il giudizio della società nei confronti di certe forme di comportamento.
[6] Crépon (1991); Viaud (1991).
[7] Strauss (1953).
[8] «La guerra è la morte, o quantomeno il rischio costante di morte, ed è anche il completo rovesciamento dei rapporti sociali: il rafforzamento dei legami tra i membri del gruppo, l’abolizione degli interdetti morali del tempo di pace, la liberazione dell’aggressività ed il permesso, anzi, il dovere di uccidere. Per tutte le società organizzate sulla base di una fede religiosa e solidali con i propri dei, la guerra coinvolge dunque radicalmente i rapporti con il divino»: Minois (2003), p. 7.
[9] Girard (1972), p. 14.
[10] Girard (1972), p. 13.
[11] Bataille (1973).
[12] Burkert (1972).
[13] Arendt (1996).
[14] Il principale obiettivo del pensiero di Kant è di identificare le condizioni che rendono scientificamente valida una conoscenza. Queste condizioni non dipendono solo dalla concordanza tra il contenuto di una proposizione scientifica e i dati empirici cui essa si riferisce (verifica a posteriori), ma anche dalla sua conformità con le forme dell’intelletto da cui dipende la possibilità di ascrivere un dato fenomeno empirico alla sfera delle cose conoscibili (verifica a priori). Cfr. Kant (1976).
[15] Vernant (1962).
[16] «Prephilosophic life is characterized by the primeval identification of the good with the ancestral. Therefore, the right way necessarily implies thoughts about the ancestors and hence about the first things simply»: Strauss (1953), p. 83.
[17] La ricostruzione storica che ci accingiamo a elaborare non muove dal concetto e dai metodi della storiografia ma da quelli – ugualmente meritevoli di considerazione scientifica – della filosofia. Ci preme a questo proposito osservare che il concetto greco di ἱστορία, prima di essere usato dagli storici, fu usato dai filosofi. È sotto il titolo di ἱστορία περὶ φύσεως che si classificano infatti i frammenti delle opere dei filosofi presocratici, come Talete, Anassimandro ed Eraclito (Naddaf, 2006). Ἱστορία, nella fattispecie, vuol dire “indagine metodica” della nascita (γένεσις) e della distruzione (φθορά) di un fenomeno naturale. Ancora oggi, studiare un fenomeno in modo scientifico significa esaminare le molteplici forme attraverso cui esso può manifestarsi nel corso della sua evoluzione. Caeteris paribus, questo approccio è pertanto condiviso dalla biologia, dalla chimica, dalla fisica e dalle altre scienze naturali contemporanee. L’epistemologia storiografica, da questo punto di vista, rappresenta un’anomalia, in quanto pretende di cogliere i fenomeni nella loro «irripetibile unicità» (Veyne, 1996), nonostante sia evidente che la scienza possa studiare scientificamente solo l’universale (ciò che si ripete, ciò che è costante) e non il particolare (ciò che è irripetibile, ciò che è unico). È curioso che, nei circoli umanistici, l’approccio filosofico tenda ormai a essere definito «ideologico», mentre i metodi della storiografia, per quanto discutibili, siano elevati a modello insuperabile di «analisi scientifica». Nella nostra indagine imboccheremo una strada diversa (in controtendenza rispetto ai canoni attuali della ricerca universitaria) ma, come crediamo di aver mostrato, non priva di solide e consolidate basi scientifiche.
[18] Strauss (1953), p. 83.
[19] Filoramo (2004).
[20] Contrariamente all’etimologia suggerita nel III secolo dall’autore cristiano Lattanzio, che fa derivare religio da religare per indicare «il legame di devozione che ci unisce a Dio (Divinae institutiones, IV, 28)», Cicerone (I secolo a.C.) fa risalire il sostantivo religio al verbo relegere, che significa «osservare attentamente le cose che riguardano il culto degli dei» (De Natura Deorum, II, 28).
[21] Caillois (1950). Come osserva Filoramo, «secondo la lettura di Caillois, vi è un legame intimo, sarei tentato di dire consostanziale, tra religione e guerra, riconducibile al sacro, un sacro inteso come potenza incontenibile, foriera di vita come di morte»: Filoramo (2004), p. 287.
[22] Se è vero, come suggerito da Thomas G. Pavel, che «la fede nei miti della comunità [era] obbligatoria» (Pavel, 1992, p. 90), non ci sembra così arbitrario interpretare la sottomissione dell’homo religiosus alla legge come un gesto di immolazione intellettuale, che consacra l’autorità non in quanto giusta, ma in quanto violenta.
[23] Potremmo citare anche questa celebre frase tratta dai Pensieri di Blaise Pascal: «Vous voulez aller à la foi, et vous n’en savez pas le chemin ; vous voulez vous guérir de l’infidélité, et vous en demandez les remèdes : apprenez de ceux qui ont été liés comme vous, et qui parient maintenant tout leur bien ; ce sont gens qui savent ce chemin que vous voudriez suivre, et guéris d’un mal dont vous voulez guérir. Suivez la manière par où ils ont commencé ; c’est en faisant tout comme s’ils croyoient, en prenant de l’eau bénite, en faisant dire des messes, etc. Naturellement même cela vous fera croire et vous abêtira. – Mais c’est ce que je crains. – Et pourquoi ? qu’avez-vous à perdre ?»: Pascal (2015).
[24] «Mentre il suo lato “destro”, positivo, lo connette all’ordine sociale, in quanto garante delle regole e delle interdizioni, il suo lato “sinistro”, negativo, lo lega al sovvertimento e alla trasgressione, alla logica parossistica e orgiastica del dispendio improduttivo»: Filoramo (2004), p. 103.
[25] Durkheim (1912). È noto che per Durkheim la religione coincide con l’essenza del sacro, cioè con il sovvertimento delle leggi che modellano la vita sociale e con la susseguente istituzionalizzazione di comportamenti trasgressivi. Donde l’iscrizione del sacro al centro della nozione di religione formalizzata dai due principali allievi di Durkheim: Hubert et Mauss. Per il primo, la religione coincide con «l’administration du sacré». Per il secondo, è la «notion de Dieu qui se résout, en dernière analyse, en la notion de sacré». Cfr. Filoramo (2004), p. 100.
[26] Secondo la tradizione romana antica infatti, Numa, l’istitutore del calendario, dopo aver diviso l’anno in mesi e i mesi in giorni, divise questi ultimi in giorni festivi, consacrati agli dei, nei giorni lavorativi devoluti agli uomini perché amministrassero i loro affari privati e pubblici (Macrobio, Saturnalia I. 16.2). Cfr. Filoramo (2004), p. 226.
[27] Girard (1972).
[28] «Tragedia e commedia servono alla purificazione (ἀφοσίωσις) delle passioni giacché queste non è possibile eliminarle del tutto né d’altro canto è prudente soddisfarle senza condizioni: quindi abbisognano di una qualche opportuna sollecitazione, la quale, soddisfattasi nella semplice audizione di quei generi poetici, ci lascerà poi da esse indisturbati per il rimanente»: Rostagni (1921), p. 24.
[29] Croissant (1932).
[30] Rostagni (1921).
[31] La funzione catartica della finzione permette di «spostare i conflitti reali verso un livello di pura rappresentazione per risolverli in questo ambito» («déplacer les conflits réels vers un niveau purement représentationnel et de les résoudre à ce niveau-là»). L’obiettivo è promuovere «una pacificazione delle relazioni umane attraverso una distanziazione ludica dei conflitti» («une pacification des relations humaines à travers une distanciation ludique des conflits»): Schaeffer (1999), p. 55.
[32] Pavel (1992).
[33] «Se Commedia e Tragedia costituiscono, in sostanza, uno sfogo (ἀπόπλήρωσις) a cui le forze dell’anima assetatamente aspirano, è verosimile che dopo questo sfogo — come accade di altre forze, specialmente nell’ordine fisico — esse si sentano placate»: Rostagni (1921), p. 15.
[34] Arendt (1983).
[35] L’ideale politico più alto cui aspirava la cultura greca antica era infatti l’homologia, cioè l’«accord des esprits»: Robin (1935), p. 37.
[36] «Contemporaneamente potenza di conflitto e potenza di unione, Eris-Philia: queste due entità divine, opposte e complementari, segnano, per così dire, i due poli della vita sociale nel mondo aristocratico che prende il posto delle antiche monarchie» («Puissance de conflit-puissance d’union, Eris-Philia : ces deux entités divines, opposées et complémentaires, marquent comme les deux pôles de la vie sociale dans le monde aristocratique qui succède aux anciennes royautés»): Vernant (1962), p. 41.
[37] Breton (2000).
[38] Cfr. Vernant (1962), pp. 33-43.
[39] «Proprio quel tipo di testo di cui così spesso si è detto che esige la “sospensione dell’incredulità” [la finzione, NdA], stimola il sospetto che l’organizzazione del mondo a cui siamo abituati non sia definitiva»: Eco (1975), p. 342.
[40] La differenza tra esemplificazione e problematizzazione risiede nel modo in cui si articola, all’interno di una finzione, il rapporto tra il narrabile e il narrato: «Dans le premier cas, le narrable s’articule autour d’une série de concepts de nature assertive: «la vengeance est...», «l’adultère est...», «le parricide est...». L’histoire exemplifie ces concepts sans s’interroger au préalable sur leur signification. Dans le second cas, le narrable s’articule plutôt autour de concepts de nature interrogative: « Qu’est-ce que la vengeance ? », « Qu’est-ce que l’adultère ? », « Qu’est-ce que le parricide ? » L’histoire illustre ce que sont tous ces concepts, mais elle le fait de manière ambiguë car leur signification conventionnelle n’a pas été définie de manière unilatérale et dogmatique. Le présupposé de toute histoire problématique est une question, le présupposé de toute histoire aproblématique est l’évacuation de toute question. Les premières histoires affrontent les problèmes que les secondes évacuent»: Leiduan (2021), p. 53.
[41] L’origine “religiosa” del teatro greco antico è confermata da questa celebre testimonianza di Aristotele: «la tragedia trae la sua origine dai cantori del ditirambo, la commedia dai cantori dei canti fallici, i quali sono in uso ancor oggi in parecchie città»: Poetica, 4, 1149 a, 11-12.
[42] Aristotele, Metafisica 983 b 25 sq.
[43] «Where there is no philosophy, there is no knowledge of natural right as such»: Strauss (1953), p. 81.
[44] Platone, Leggi 634 d 7-635 a 5.
[45] «The emergence of the idea of natural rights presupposes, therefore, the doubt of autority»: Strauss (1953), p. 84.
[46] Platone, Repubblica VI, 538 c, d, e.
[47] «In a community governed by divine laws, it is strictly forbidden to subject these laws to genuine discussion; i.e. to critical examination in the presence of young men. Socrates, however, discusses natural right – a subject whose discovery presupposes doubt of the ancestral or divine code – not only in the presence of young men but in conversation with them»: Strauss (1953), p. 87.
[48] «…the variety of opinions about right or justice non only is compatible with the existence of natural right or the idea of justice but is required by it»: Strauss (1953), pp. 124-125.
[49] Strauss (1953), p. 139.
[50] «Philosophy consists, therefore, in the ascent from opinions to knowledge or to the truth, in an ascent that may be said to be guided by opinions. It is this ascent which Socrates had primarily in mind when he called philosophy «dialectics». Dialectics is the art of conversation or of friendly dispute»: Strauss (1953), p. 124.
[51] «C’era l’usanza di uccidere i vecchi. Nella fiaba invece troviamo che un vecchio doveva essere ucciso ma non viene ucciso. Colui che avesse fatto grazia al vecchio al tempo in cui sussisteva tale usanza sarebbe stato schernito e forse rimproverato o persino punito. Nella fiaba, colui che risparmia il vecchio è l’eroe, che ha agito saggiamente. C’era l’usanza di sacrificare una fanciulla al fiume dal quale dipendeva la fertilità. Questi sacrifici erano compiuti all’inizio della semina e dovevano servire a favorire la crescita delle piante. Nella fiaba invece compare l’eroe e libera la fanciulla dal mostro al quale era stata destinata in pasto. In realtà, all’epoca in cui vigevano queste usanze un tale “liberatore” sarebbe stato fatto a pezzi quale responsabile di un gravissimo sacrilegio che poteva minacciare il benessere del popolo, che poteva mettere in pericolo il raccolto. Questi fatti dimostrano che talvolta il soggetto nasce da un atteggiamento negativo nei confronti di una realtà storica anteriore. Questo soggetto (o motivo) non sarebbe potuto intervenire in qualità di fiabesco al momento in cui vigeva un ordinamento di vita che esigeva il sacrificio di una fanciulla. Ma con la caduta di questo modo di vita, l’usanza, un tempo ritenuta sacra, per la quale l’eroe era la fanciulla-vittima che talvolta andava al sacrificio volontariamente, diventò non necessaria e ripugnante, e divenne eroe della fiaba il sacrilego che impediva questo olocausto»: Propp (1970), p. 147.
[52] Schaeffer (1999).
[53] Pavel (1992), p. 90.
[54] Propp (1970), p. 89.
[55] Benjamin (1987), p. 169.
[56] «…nous voyons comment les récits de fiction se mettent à distance des mythes où se situe pourtant leur origine et comment, en quelque sorte, ils se déprennent de la religion en la reproduisant»: Augé (2001), p. 65.
[57] Dall’antico greco στερεο, che significa duro, fermo, rigido, solido. Una società ostaggio di una visione stereotipata della realtà è potenzialmente in grado di sapere che le cose sono diverse da come le dipingono gli stereotipi, ma, di fatto, preferisce ignorare tale verità, aderendo strenuamente all’immagine tradizionale propagata dallo stereotipo, in un atto di autoinganno che non coincide con la menzogna, bensì con il mentire senza sapere di mentire.
[58] Schaeffer (1999), p. 325.
[59] La condizione necessaria per l’esistenza della finzione non è la capacità di credere alla rappresentazione di qualcosa che non esiste, ma la capacità di immaginarsi la cosa in questione senza crederci. «La difficulté n’est pas de nous faire croire que nos représentations ont des objets «réels» qui leur correspondent, mais au contraire de nous empêcher d’apporter une créance spontanée à tout ce que nous voyons, entendons ou imaginons»: Schaeffer (1999), p. 110.
[60] Walton (1990); Currie (1990).
[61] Schaeffer (1999).
[62] Torno (2003), p. 16.
[63] Clausewitz (1997).
[64] Il sacro è un «ribollimento prodigioso della vita che l’ordine delle cose, per poter durare, deve canalizzare»: Wunenburger (1981), pp. 13-14.
[65] Caillois (1950); Bataille (1957); Girard (1972).
[66] «Secondo un codice periodico fisso, ogni settimana, ogni mese, ogni anno, alla stessa data, la comunità, il villaggio, la città, la nazione si ridestano dal letargo del tempo lavorativo e quotidiano per celebrare un evento particolare, un personaggio carismatico, un mito di fondazione»: Filoramo (2004), p. 225.
[67] Girard (2007).
[68] Polanyi (2001).
[69] Foucault (2004), p. 123.
[70] «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la nostra cena, ma piuttosto dalla cura con cui perseguono i propri interessi. Non ci affidiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo»: Smith (1966), p. 19.
[71] L’«ingenuità naturalistica» (naïveté naturaliste) consiste nel credere che il mercato sia «qualcosa che sorge spontaneamente e che lo stato dovrebbe rispettare nella misura in cui si tratta di un dato naturale» («est quelque chose qui se produit spontanément et que l’État devrait respecter dans la mesure même où c’est une donnée de nature»): Foucault (2004), p. 123.
[72] Gratteri/Nicaso (2016).
[73] «Abusata», giacché può darsi religione anche senza Dio (per esempio, il buddismo). Cfr. Durkheim (1971).
[74] Girard (1972).
[75] Propp (1970); Benjamin (1987); Vernant (1962); Pavel (1992); Schaeffer (1999); Augé (2001).