LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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Diritto e letteratura tra storia e memoria. Prime riflessioni a partire da due romanzi sulla transizione (di Massimo Meccarelli, Università degli Studi di Macerata)


L’articolo riflette sulla letteratura come fonte per la storia del diritto, prendendo in esame due romanzi – La Chartreuse de Parme di Stendhal e L’Orologio di Carlo Levi – che, pur nella loro diversità, mettono al centro dell’ordito narrativo il problema del tempo e della storia. Nella prima parte del lavoro si osserva il diritto “messo in azione” nella vicenda narrata e dunque restituito nella sua storicità. Nella parte centrale è invece il carattere attributivo del tempo (in particolare della transizione) in rapporto al diritto a costituire l’oggetto di indagine. La terza parte esamina il piano della soggettivazione del passato, considerando il problema della produzione della memoria. Nel suo insieme lo studio mira a dimostrare come il campo di relazioni tra diritto e letteratura permetta alla storia giuridica di guadagnare nuovi margini per svolgersi come sapere critico nel dibattito giuridico contemporaneo e di conseguenza, per offrire un contributo alla oggettivazione del presente.

DOI: 10.17473/LAWART-2020-1-8

Law and Literature amid History and Memory. Some Early Considerations on the Basis of Two Novels on Transition

The article reflects on literature as a source for legal history, considering two novels – La Chartreuse de Parme by Stendhal and L’Orologio by Carlo Levi – that, in their diversity, place the problem of time and history at the centre of the narrative plot. The first part of the essay insists on an observation of the law “put into action” in the story and, thus, restored in its historicity. In the central part is instead the attributive character of time (in particular of the transition) in relation to the law, to constitute the object of investigation. The third part focuses on the issue of subjectivation of the past, considering the problem of the production of memory. As a whole, this study intends to show how the field of relations between law and literature provides legal history of new margins in order to develop a critical discourse in contemporary legal debate and, therefore, in order to offer its own contribution to the objectivation of the present.

«mi memoria, señor, es como vaciadero de basura»

Jorge Luis Borges, Funes el memorioso, Ficciones

 

1. Premessa - 2. Il diritto in azione visto dalla letteratura - 2.1. Un esempio: La Chartreuse de Parme - 2.2. Diritto e letteratura tra storicizzazione del passato e oggettivazione del presente - 3. Letteratura e rilevanza giuridica del tempo - 3.1. Il senso giuridico della transizione visto attraverso la letteratura - 3.1.1. Di nuovo in merito a La Chartreuse de Parme - 3.1.2. L’Orologio di Carlo Levi - 3.2. La transizione e l’esercizio della memoria - 3.3. Tempo, memoria, diritto - Bibliografia - NOTE


1. Premessa

Queste pagine risentono di un punto di vista e partono da un’esigenza. Il punto di vista è quello di un giurista che intende esplorare, tramite la storia, la fenomenologia del diritto; l’esigenza è quella di considerare un livello di tale fenomenologia – la base pre-giuridica di senso del diritto – che sfugge in tutto o in parte dalla rete di categorie analitiche che un giurista è abituato ad impiegare. Visto nella sua storia, infatti, il diritto che cerchiamo di comprendere, non si svolge su di un piano mono­di­men­sio­na­le [1]. Rilevanti sono sempre gli elementi di contesto, le fondazioni assiologiche, lo spazio simbolico sottostante, in altre parole, il «telón de fondo» da cui il diritto attinge selettivamente in determinate situazioni di decidibilità [2]. Se tutto ciò appare parte essenziale del­l’esperienza giuridica che intendiamo storicizzare, come è possibile comprenderla nel nostro discorso? Attra­ver­so quali strumenti o fonti è ricavabile?

L’esigenza di cui parliamo pone, dunque, un problema di metodo su come fare storia del diritto. Questa, del resto, è una disciplina a statuto epistemologico aperto, che necessariamente colloca la riflessione sul diritto all’incrocio tra più saperi; la domanda sul metodo è in qualche misura un momento costitutivo del campo di azione della storia giuridica. Nel seguito non intendo soffermarmi sui tali aspetti e tanto meno ind­gare le molteplici prospettive interdisciplinari che la questione apre [3]. Qui vorrei solo evocarla per soffermarmi su una soglia, quella che riguarda la letteratura vista dalla prospettiva giuridica.

Diritto e letteratura compongono una coppia euristica il cui potenziale è stato indagato e sperimentato già in numerosi studi [4]. Anche dal ver­sante della teoria letteraria è stato evidenziato come, seppure la let­teratura consista solo in «usi non strumentali del linguaggio» [5], attraverso l’interazione con il lettore – o, per dirla con Benjamin, attraverso la ri­cerca del «contenuto di verità» [6] –, essa trovi una ragion d’essere proprio «nell’incremento delle nostre competenze sociali» [7].

Nel seguito vorrei svolgere qualche verifica sulla specifica rilevanza della letteratura come possibile “fonte” per il nostro problema. Prenderò in esame due ambiti tematici. Il primo riguarda la dimensione che po­tremmo chiamare del “diritto in azione” e implica il considerare spe­cularmente due angolazioni, quella del diritto visto dalla letteratura e quella del diritto nella costruzione del discorso letterario. Il secondo è invece riferito al problema della “rilevanza del tempo nel diritto”.


2. Il diritto in azione visto dalla letteratura

Scoprire un problema giuridico o un istituto giuridico, operare all’interno di un ordito narrativo, che guarda alla complessità e pensato senza una finalità immediatamente orientata alla regolazione dei fenomeni sociali – come accade invece per ogni discorso giuridico – offre la grande opportunità di un cambiamento di punto di vista. Il problema giuridico non è qui considerato nella sua autonomia, ma scaturisce dalla sua combinazione con la vicenda narrata, dall’ordito di una storia (e non, dunque, da una speculazione ermeneutica). Da giuristi il nostro sguardo sul diritto diventa la conseguenza di una presa di distanza, deriva da uno straniamento [8], che ci mette di fronte al diritto in azione.

Nella messa in azione del fenomeno giuridico attraverso testi ‘letterari’, si può cogliere, meglio disvelata, la sua storicità [9] e dunque la sua attinenza ai fenomeni sociali; è un profilo che rimane in larga parte nascosto, quando ci affidiamo alla sola analisi fatta con la lente del giurista (la quale, talvolta, tende ad essere più sensibile ai problemi attinenti alla funzione, che a quelli di effettività del diritto).

Quanto affermiamo lo si coglie anche considerando quel secondo punto di vista segnalato sopra, che consiste nell’osservare l’“uso” del diritto nella costruzione del discorso letterario. Se il discorso letterario punta a comprendere o ad alimentare le architetture invisibili che reggono la convivenza civile, il diritto può fungere da strumento per svolgere quel discorso; il problema giuridico si offre allora come strumento per disvelare una certa realtà sociale: lo “stato del diritto” diventa qui un indicatore dello “stato delle cose”.


2.1. Un esempio: La Chartreuse de Parme

Il celebre romanzo La Chartreuse de Parme che Henri Beyle/Stendhal ha pubblicato nel 1839 [10] mi pare un buon esempio di quanto sto affermando. L’Autore, la cui opera può essere ben letta come un tentativo di proporre una storia del tempo presente [11], colloca la complessa vicenda in Italia tra la fine dell’esperienza napoleonica e i primi anni Trenta dell’Ottocento e dunque in un quadro storico di doppia transizione tra l’Antico Regime, l’esperienza napoleonica e la Restaurazione. La trama, che ruota intorno alla vicenda esistenziale del protagonista Fabrizio del Dongo, è ricca di intrecci e si presta a molteplici letture [12]. Quella che qui più interessa svolgere riguarda l’atteggiamento che i personaggi hanno rispetto alla dimensione normativa che regola i rapporti sociali. L’esito delle aspirazioni e dei progetti dei singoli personaggi – in fondo possiamo anche sostenere che un problema comune degli attori principali di questo romanzo, è dare forma ad un progetto di vita – dipende molto dal loro atteggiamento di fronte alle norme.

Possiamo in effetti osservare come i diversi personaggi vengano caratterizzati proprio a partire dal loro rapporto con le regole date. Il diritto qui funge da strumento per costruire l’intreccio narrativo del romanzo, ma, proprio per questo, contemporaneamente, il romanzo si trasforma in un’occasione per riflettere sul diritto, sul senso delle regole, di quelle vecchie e ancora in vigore e di quelle nuove ancora da definire. Scorrendo le pagine de La Chartreuse ecco entrambe le prospettive, che abbiamo evocato sopra, dischiudersi ai nostri occhi. Esse ci parlano di un crepuscolo delle regole, ci mostrano l’emergente problematicità di uno iato tra valori emergenti nella società e quelli presupposti dal diritto, a partire dal problema della libertà. Vi è, da un lato, l’anelito quasi anomico alla libertà che non può essere soddisfatto – così evidente nel protagonista Fabrizio (o in altri personaggi minori, come il rivoluzionario Ferrante Palla) – e dall’altro l’opzione per una rassegnazione malinconica (si pensi a Clelia Conti o per certi aspetti alla stessa Duchessa Gina), o di un disincanto nei confronti di una libertà intuita, ma realisticamente non immaginabile senza regole (qui giganteggia la figura del Conte Mosca).

La Certosa di Parma è, in fondo, un libro che riflette sul valore socializzante del diritto, o per dirla con altre parole, sul problema del diritto come possibile strumento di costruzione della coesione sociale e di sostegno delle ragioni dell’interesse a coesistere. Non possiamo riassumere qui le numerose vicende narrate nel romanzo; si pensi, solo per accennare ad alcune, alle vicissitudini di Fabrizio, dall’abbandono della casa paterna per aderire alle fila dell’esercito napoleonico, al suo complicato rientro, alla scelta di farsi monsignore e a tutti i risvolti legati all’omicidio per legittima difesa, alla fuga che ne è seguita, al processo e alla carcerazione, alla sua relazione con Clelia; stesso discorso si potrebbe fare per le scelte di vita, i modi per tessere le relazioni sociali della Contessa Gina poi Duchessa di Sanseverina, o per le fini strategie del Conte Mosca per tenere insieme le sue ambizioni politiche (in un certo senso anche l’impegno civile) e le sue aspirazioni esistenziali. Ebbene, tali vicende, nel far risaltare insieme la irrinunciabilità e la inadeguatezza delle regole che organizzano la convivenza tra consociati, ci parlano di un disaccordo essenziale: un disaccordo sul diritto. Invece di fungere da fattore della coesione sociale, esso divide. La conservazione del suo valore socializzante – forse questo può essere il monito che si ricava dalla lettura del romanzo – ha bisogno di verifiche e messe a punto continue, che permettano di rinnovare la comune percezione della sua giustezza; dove questo presupposto viene a mancare il diritto entra in crisi.

Ciò si può apprezzare anche concentrando l’attenzione sugli aspetti giuridici evocati nel romanzo proprio in relazione al problema della giustizia. In una fase centrale della vicenda Fabrizio viene sottoposto ad un processo penale; su quel processo i punti di vista dei nostri personaggi si differenziano: il Principe Ernesto IV è pronto ad esercitare le sue prerogative riguardo alla esecuzione della pena; la Duchessa di Sanseverina avverte l’ingiustizia di quella decisione e pone in atto una strategia per sottrarre Fabrizio alle conseguenze di quel processo; il Conte Mosca dà alla rivendicazione della Duchessa il formato giuridico che ritiene. Ciascuno di questi personaggi è mosso da ragioni e impulsi individuali; dal punto di vista narrativo a interessare l’Autore è stata probabilmente la possibilità di usare il gioco di emozioni e sentimenti che il processo mette in moto. Tuttavia è possibile anche soffermarsi sulla dinamica giuridica richiamata dalla situazione o presupposta dagli attori nel loro confronto interpersonale.

Forse può essere utile ricordare brevemente i fatti. Fabrizio viene processato per aver ucciso Giletti; questi lo aveva aggredito in preda ad un raptus di gelosia, per la relazione amorosa che Fabrizio aveva con sua moglie Marietta. Fabrizio aveva agito per legittima difesa, ma nel processo svoltosi in contumacia, la scusante non viene riconosciuta e viene condannato a venti anni di carcere. La Duchessa, in un drammatico colloquio con il Principe (che ne subisce il fascino) lo mette di fronte ad una scelta: se non dichiara per iscritto di non voler dare esecuzione alla sentenza, la Duchessa è pronta ad abbandonare Parma. Ella pretende che la dichiarazione includa anche la specificazione che «cette procédure injuste n’aura aucune suite à l’avenir» [13]. Il Conte Mosca (l’amante, perdutamente innamorato, della Duchessa, ma anche Ministro della polizia), chiamato a stendere il testo della dichiarazione che poi il Principe dovrà firmare, ometterà il riferimento alla iniquità della sentenza e al fatto che il processo non potrà essere ripreso in futuro. «Il suffit, se dit le Comte, que promette de ne point signer la sentence» [14]; eppure l’omissione consentirà al Principe di disattendere l’impegno preso e perseguire di nuovo Fabrizio, una volta che sarà tornato a Parma dopo la latitanza.

Sono evidenti, dicevo, gli interessi personali che muovono le scelte dei diversi personaggi, ma concentriamoci sulle regole giuridiche retrostanti, che permettono il gioco delle parti. Il punto giuridicamente decisivo dell’ultimatum è proprio il riferimento alla iniquità della sentenza. Il Conte Mosca, da giurista, spiega che «il n’avait pu faire signer une absurdité par son prince, qui il avait fallu des lettres des grâce»; per tale ragione omette di scrivere «le mot procédure injuste, le seul qui liât le souverain» [15].

Il problema giuridico a cui allude il Mosca, secondo me, non riguarda tanto il fatto che una decisione di un tribunale possa essere riconosciuta ingiusta dal Principe; al contrario Egli è proprio tenuto ad esercitare il suo potere in armonia con il parametro dell’aequitas. Il problema riguarda lo strumento giuridico con cui esercitare questo compito, cioè il potere di grazia, che infatti il Conte Mosca richiama. L’altro problema grave è poi il fatto che il Principe dichiari ingiusta la procedura, cioè l’insieme di regole in base alle quali si esercitava la giustizia. Sullo sfondo è noto come ci fosse proprio la questione del superamento di quelle regole, proposto dalle ideologie di stampo illuministico e liberale e osteggiato da quelle della Restaurazione. Il quadro politico, per altro, favoriva il persistere di figure giuridiche fondamentali dell’Antico Regime. Solo limitandoci alla questione del processo ingiusto qui discusso oltre all’aequitas, alla grazia a cui ho accennato, si avverte, sullo sfondo, la presenza di dispositivi come l’arbitrium iudicis e l’inquisitio; nella complicata vicenda della carcerazione di Fabrizio emergono anche riferimenti al problema della rilevanza dello status nell’esecuzione della sentenza o all’effetto infamante della pena, giusto per aggiungere altri due esempi.

Anche qui accontentiamoci di brevi cenni per evidenziare come in fondo è la concezione del facere iustitiam tipica della plurisecolare esperienza e cultura di ius commune ad essere presupposta dagli attori che animano questa scena. Non a caso, agli occhi del giurista Conte Mosca, le rivendicazioni della Duchessa Sanseverina rischiano di varcare «une limite que l’on ne doit jamais fanchir» [16]. Le nuove regole però stentano ad emergere e a mostrare effettività, cioè capacità di incidere nella organizzazione delle relazioni sociali. Lo scetticismo con cui il Conte Mosca guarderà ai nuovi giudici («ce gens sont toujours les mêmes, se dit-il» [17]) che poi nel seguito della vicenda, morto Ernesto IV, assolveranno definitivamente Fabrizio, sembra confermarlo.

Nel mettere in scena la schermaglia di tattiche, strategie e sentimenti tra il principe Ernesto IV, la Duchessa Sanseverina e il Conte Mosca, Stendhal fa, dunque, emergere il problema di un “disaccordo” sulle regole fondamentali del fare giustizia. La Chartreuse restituisce il senso di un equilibro crepuscolare su cui poggiano le istituzioni giuridiche in quel tempo storico. I dispositivi giuridici di Antico Regime, forti della loro plurisecolare resilienza, sono ancora, in fondo, il punto di tenuta; costituiscono il nucleo normativo a partire dal quale è possibile articolare una dialettica di relazioni tra i personaggi del romanzo. È un mondo giuridico irrinunciabile, che però è al contempo anche insostenibile. Qui sta il dramma di un romanzo ma anche di un tempo storico.


2.2. Diritto e letteratura tra storicizzazione del passato e oggettivazione del presente

Avremmo forse potuto indugiare sulle pagine de La Chartreuse trovando ancora altri riscontri su quanto emerge dall’analisi dell’episodio del processo a Fabrizio. Quanto abbiamo fin ora osservato, tuttavia, appare sufficiente per individuare qualche punto di sintesi circa il rilievo della letteratura nel fare storia del diritto. L’opportunità euristica offerta dall’interazione tra diritto e letteratura mi pare risieda soprattutto in un effetto emancipatorio. Affidandoci alle categorie della teoria generale tendiamo a pensare la fenomenologia del diritto a partire da due momenti separati: quello della produzione del diritto e quello della sua applicazione. È un atteggiamento che deriva dalla nostra formazione basata sul sapere dogmatico e che difficilmente consente di pensare la dinamica del diritto come “diritto in azione”, cioè come un “diritto vivente” e, invece, la concepisce dicotomicamente o come momento della produzione o come momento della applicazione del diritto. La letteratura, invece, sembra poter favorire un affrancamento da tale impostazione; aprendo una finestra proprio sul diritto in azione, sollecita il giurista a qualche ripensamento, gli offre un terreno nuovo sul quale svolgere quel momento ermeneutico che produce la sua scienza sul diritto. È un terreno che riconduce il giurista a includere la diagnosi conoscitiva del sociale [18] tra le attività utili a dare forma alle categorie che descrivono e definiscono il diritto.

Rispetto alla storia del diritto ciò ha l’effetto di restituire la prospettiva di senso (oltre che suggerire delle interessanti piste di ricerca) di trasformazioni e persistenze. Sotto questo aspetto la letteratura si propone come una fonte che a pieno titolo contribuisce al compito di storicizzare l’esperienza giuridica corrispondente alle vicende narrate. Contribuisce al nostro compito, dunque, in modo “diretto”. Non importa qui stabilire se l’autore di un’opera letteraria scriva con tal scopo, o se questa è solo una conseguenza di un modo con cui ci appropriamo della creazione letteraria. Ciò che conta è che, grazie alla «strategia di tematizzazione» [19] con cui possiamo interrogare un testo letterario, si arricchisce la base di fonti per svolgere la storia del diritto come sapere critico [20] e, in tal modo, si rende possibile “oggettivare il presente” attraverso una storicizzazione del passato.


3. Letteratura e rilevanza giuridica del tempo

C’è però un ulteriore livello che la letteratura permette di considerare tra le basi pre-giuridiche di senso, che non consiste tanto nel mettere il diritto in azione e mostrarlo nel quadro del suo contesto, per tematizzare il valore socializzante del diritto, quanto piuttosto nell’evidenziare problemi e atteggiamenti presupposti dai processi di costruzione del diritto. Si tratta di problemi e atteggiamenti che, per il nostro compito di storici del diritto, contribuiscono in modo “indiretto” ad una comprensione delle forme che il diritto assume in una determinata fase storica; ciò però non li rende meno rilevanti.

Se fino a questo punto la prospettiva analizzata ha preso in considerazione, attraverso la letteratura, il problema della storia in rapporto al diritto, quella che si intende percorrere ora insiste piuttosto sul problema del tempo in rapporto al diritto. Non parlo qui del tempo come “misura” dei mutamenti del diritto dall’esterno, cioè del tempo come sequenza cronologica in cui si colloca il diritto. Mi interessa invece il tempo come dispositivo che attribuisce forme e contenuti al diritto. Visto da tale versante il tempo è un elemento interno alla dimensione giuridica che intendiamo studiare. Si tratta di un tempo di tipo “ascrittivo” [21], che determina la “condizione” del diritto. Il tempo che segna un regime di permanenza può dare forma al diritto (si pensi alla consuetudine, all’abrogazione o al potere costituente); ma anche un tempo “impermanente” (si pensi all’emergenza o alla transizione; gli scenari di mutamento giuridico sono spesso collegati con queste condizioni temporali) può avere un effetto attributivo sul diritto.


3.1. Il senso giuridico della transizione visto attraverso la letteratura

3.1.1. Di nuovo in merito a La Chartreuse de Parme

Il romanzo che abbiamo fin ora considerato fornisce qualche apertura anche su questo tipo di prospettiva. La vicenda, infatti, come già osservato si colloca in un tempo di transizione, alla fine dell’esperienza napoleonica, quando l’affermazione del nuovo sull’antico non è più un risultato certo («il s’aggisait alors pour l’Italie d’être ou de n’être pas» [22]); il dopo a sua volta però non è il mero ristabilimento del tempo antico. In verità è proprio l’impermanenza la condizione caratterizzante il tempo storico della vicenda narrata.

Questo nodo ancora irrisolto sul progetto di futuro, che si riflette sulla percezione del presente e sullo sguardo verso il passato, viene bene reso attraverso i personaggi del romanzo. Alcuni, a partire dal protagonista, si lasciano coinvolgere romanticamente [23] dalla promessa di una rifondazione della società sugli ideali di libertà e giustizia e fraternità e su quel fragile progetto per “la felicità del maggior numero”. Ce ne sono altri, come il Conte Mosca, che, invece, pur stanchi di una realtà giuridica non al passo con le evoluzioni sociali e politiche, esprimono disincanto nei confronti delle esperienze rivoluzionarie («il faut cent ans à ce pays pour que la république n’y soit pas une absurdité», commenta a proposito della rivolta fallita a Parma [24]).

Più che la valutazione sugli esiti della modernizzazione rivoluzionaria nell’Italia del primo Ottocento – che certo si propone come un tema forte nelle pagine de La Chartreuse – o la presa di distanza dagli ideali rivoluzionari e dall’annuncio di futuro di cui pretendevano di essere portatori – altro problema rappresentato nel romanzo – ci interessa qui sottolineare un ulteriore aspetto che Stendhal sottopone alla nostra attenzione: la convivenza, il confronto e lo scontro tra diverse percezioni del “regime di storicità”, cioè di quella sintesi del rapporto tra passato, presente e futuro, su cui si basa la convivenza civile [25]. Il disaccordo sul diritto di cui abbiamo sopra parlato sottende, in effetti, un disallineamento (o se vogliamo una moltiplicazione) dei punti di vista sul tempo storico.

Per tali ragioni, dal punto di vista metodologico che ci interessa qui considerare, questo tipo di narrazione permette di guadagnare un’angolazione originale per osservare il diritto in una fase di transizione e per studiare la storia di un mutamento giuridico.

Vorrei ora prendere in considerazione un secondo esempio spostandomi su un’altra fase storica, per verificare questa linea interpretativa. Penso a L’Orologio di Carlo Levi.


3.1.2. L’Orologio di Carlo Levi

Prima di procedere, può essere utile constatare come Levi sia stato attento lettore di Stendhal. È sua la Prefazione alla traduzione italiana, pubblicata nel 1960, delle memorie di viaggio Rome, Naples et Florence (1826); è suo lo scritto ispirato da percezioni stendhaliane, Sostanza e accidente, sempre del Sessanta, poi raccolto nel volume Roma fuggitiva [26]. Egli è colpito dall’attualità «di quelle sue folgoranti considerazioni» sull’Italia, «patria sua e nostra di uomini veri e vivi e di governi anacronistici», su quel «mondo di restaurazione», che Levi vede ancora occupare la scena nel tempo presente [27]. Convinto che il ritratto dell’Italia proposto da Beyle «non ha perduto, oggi, né il suo colore, né le sue verità, ché anzi, riletto ora, si arricchisce talvolta di un senso e di un riferimento attuale e non soltanto retrospettivo» [28], Levi trasmette nei suoi scritti, a sua volta, l’idea di una sospensione transizionale e di una moltiplicazione dei regimi di storicità, come chiave di lettura della fase in cui vive.

L’Orologio è ambientato nel dicembre del 1945, cioè nella fase immediatamente successiva alla fine della seconda guerra mondiale, quando in Italia si è aperta un’inedita opportunità per la democrazia. Anche questo è un tempo di transizione che segna il diritto a partire da una compresenza dei tempi [29]. Si tratta di una lettura retrospettiva di un passato prossimo (il romanzo viene scritto nel 1950), che si è concluso ma, nonostante, è ancora in atto. La storia qui narrata ci si offre come un’appassionata e preoccupata testimonianza di una divisione emergente tra le forze politiche antifasciste. La vicenda si svolge nei giorni della crisi del governo di Ferruccio Parri. Sono giorni decisivi, che segneranno un cambio di equilibrio e apriranno la stagione del primato della Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi.

Il volume ci racconta soprattutto della presa di coscienza di questa nuova fase, scegliendo come punto di vista narrante quello di un direttore di giornale [30], che viene dalle fila dell’antifascismo. A farsi strada, fino a costituire il nucleo centrale delle battute conclusive del volume, è l’idea che la «restaurazione dello Stato» resti l’unica via che possa aprire realisticamente le porte al nuovo [31]. Essa però implica accettare l’archi­via­zio­ne di molti sogni e progetti coltivati nelle fila antifasciste durante la Resistenza; ciò equivale alla presa di coscienza di «un’Italia in cui si ha più il senso della continuità Risorgimento-fascismo-democrazia, che non quella della discontinuità, del fascismo come parentesi» [32]. Nelle riflessioni che agitano i pensieri dei personaggi del libro si coglie ancora l’entusiasmo per una stagione nuova, l’idea di un orizzonte di possibilità per un cambio; ma allo stesso tempo esse trasmettono un senso di cupa preoccupazione per la battuta di arresto nell’attuazione del progetto che era emerso da Comitato di liberazione nazionale (o la Resistenza ha «uno sviluppo nei fatti e rinnova la struttura del paese» oppure è destinata a restare «un’esperienza morale senza frutti visibili», un mero ricordo «rinnegato come attiva realtà») [33]. Il protagonista osserva lo svolgersi dei fatti politici e, contemporaneamente, la società italiana dell’immediato dopo-guerra, vitale e vulnerabile, mossa da speranze possibili e frenata da impedimenti irrisolti. L’Orologio, non diversamente dagli altri scritti di Carlo Levi [34], si costruisce su queste due preoccupazioni principali: la politica e la società.

Centrale – sia da un punto di vista del procedere della narrazione, che del problema di fondo che sta alla base della vicenda – appare la consapevolezza del tempo irripetibile e privilegiato del realizzarsi di una svolta storica. Di questo tempo, che si caratterizza per la sua «infinita contemporaneità» [35], il romanzo – anche grazie all’espediente narrativo dell’io narrante, che osserva e descrive la realtà nel suo percorrere le vie della città o nel viaggio [36] – ricrea soprattutto la condizione di sospensione (ben evidente nelle parole del protagonista in partenza per Napoli che definisce Roma, cioè il luogo di accadimento della vicenda, «tempo non tempo, luogo non luogo» [37]), la constatazione di un irreversibile processo di mise en forme di una fase di transizione [38].

In tutto ciò l’attenzione che questo romanzo rivolge al diritto sembra essere marginale. Significativo, però, è che il diritto entri nel gioco narrativo, proprio quando bisogna dare sostanza alla percezione della transizione. Ad esempio, nel mutevole scenario degli equilibri politici, uno dei problemi è rappresentato dalle prassi e dagli assetti istituzionali, perché a fronte di fatti che «si svolgevano senza precedenti […] tutto era imprevisto, e non esistevano organi, né tradizionali né nuovi, la cui esistenza fosse certa e duratura» [39]. La “problematica provvisorietà”, che innerva tutta la vicenda del volume, viene resa evidente proprio in quelle pur limitate riflessioni sul diritto.

Oltre alla questione istituzionale, che in più punti del libro viene richiamata (si pensi alle pagine che raccontano del Ministero degli interni nella notte della crisi di Governo [40]), il problema della impermanenza del diritto caratterizza anche altre due scene in cui la questione giuridica funge da espediente narrativo: quella del sogno premonitore dove la giustizia viene amministrata secondo regole non chiaramente stabilite; quella dell’arrivo del principe del Foro napoletano in Tribunale dove sono, ancora i vecchi rituali a dominare, in modo stridente con l’idea di una nuova società democratica ed egalitaria. La questione del diritto e della sua giustizia – o se vogliamo della ricerca, ancora irrisolta, di un diritto che sia anche strumento di dimensionamento giuridico della domanda di giustizia espressa dalla società – sembra, in questo senso, costituire il perimetro in cui si colloca tutta la problematica vicenda della transizione politica narrata dal romanzo.

Del resto al nostro Autore, che ricordiamo scrive nel 1950 sui fatti del 1945 [41], non poteva sfuggire che il problema del fare i conti con il passato aveva trovato la sua sistemazione proprio sul terreno giuridico. Penso in particolare alla questione della giustiziabilità del fascismo. Questo problema tipicamente congiunturale, ma assolutamente centrale negli anni dell’immediato dopoguerra per immaginare (e realizzare) il passaggio alla democrazia, viene affrontato in Italia nel segno di un repentino cambio di approccio.

La vicenda è nota [42], ma forse può tornare utile richiamare qui qualche aspetto. Nel biennio compreso tra il 1943 e il 1945 vengono introdotti provvedimenti che prevedono sanzioni contro il fascismo [43] e contemporaneamente provvedimenti di amnistia a favore di reati commessi con motivazione politica di carattere antifascista [44]; la linea scelta per fare i conti con il passato della dittatura, è, dunque, quella di dare forma ad un «atto di giustizia riparatoria di cui la società è debitrice» verso coloro che hanno infranto la legge «per contrastare la tirannia fascista» [45]. Nel 1946 questa linea di politica del diritto conosce una inversione di tendenza: con un nuovo provvedimento di amnistia [46] vengono neutralizzati gli effetti delle norme repressive antifasciste. Partendo dalla constatazione che «col passaggio dalla Monarchia alla Repubblica si è aperto un periodo nuovo nella vita dello Stato italiano unitario» il Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti – lo stesso che nel 1945 aveva sostenuto la linea di una giustizia che sanzionasse il fascismo – spiegava ora che occorreva dare un segno di «pacificazione e riconciliazione di tutti i buoni italiani», che includesse anche colo che avevano sostenuto il fascismo [47]. Ad avviso del Ministro Togliatti con questi provvedimenti si trattava, insomma, di accompagnare un processo di transizione alla democrazia. È una linea che interessa anche la questione delle epurazioni di funzionari fascisti dagli apparati delle istituzioni [48]. Questa nuova politica della pacificazione nazionale è ben distante dall’altra che si era prospettata all’inizio della transizione.

Il cambio di approccio riguardo la giustiziabilità del fascismo, di cui si dà conto espressamente nella Relazione ministeriale che accompagna l’Amnistia del 1946, viene giustificato con il profilarsi del nuovo quadro politico; quello emerso dopo il Referendum a favore della Repubblica e maturato proprio a seguito della fine del Governo Parri e dell’avvio della stagione dei governi De Gasperi.

È esattamente il mutamento di quadro politico che fa da sfondo al romanzo di Carlo Levi di cui stiamo parlando. Ciò va sottolineato poiché le preoccupazioni per il futuro, che Levi esprime attraverso i suoi personaggi di fronte all’aprirsi della nuova fase, sembrano caricarsi anche della consapevolezza di conoscere già gli sviluppi che questa avrebbe avuto.

Dal punto vi vista metodologico, dobbiamo registrare il dato di una circolarità tra la pienezza di fattori sociali e politici (e il loro inestricabile intreccio) che la letteratura riesce a restituire attraverso le sue narrazioni e i fatti giuridici che vogliamo comprendere. E ciò appare quanto più interessante se consideriamo la portata attributiva di questo tempo transizionale; le scelte giuridiche assunte per corrispondere alla fase di impermanenza, producono, infatti, effetti nel lungo periodo.

Con la storia possiamo ricostruire questi effetti strutturali delle transizioni [49], ma in questa sede, più che seguire il percorso giuridico, appare più interessante soffermarci su un profilo ulteriore, che mostra la rilevanza del discorso letterario per comprendere il carattere ascrittivo del tempo. Mi riferisco al problema della memoria.


3.2. La transizione e l’esercizio della memoria

Torniamo, dunque, per un momento ancora, alle pagine del romanzo di Levi. Il problema della memoria, inteso come problema di recupero del passato per il presente, appare centrale.

L’ordito narrativo è costruito in modo che il problema della transizione sia ‘contenuto’ in quello della memoria [50]. Il romanzo si apre e si chiude, infatti, con la vicenda dei due orologi da tasca. Non sono due orologi qualsiasi. Il primo, di cui si parla proprio in apertura, veicola il ricordo del padre del protagonista; gli è stato ceduto dal padre come dono nel giorno della sua laurea. Il secondo orologio (che è uguale al primo) compare alla fine della storia; anche questo è un dono che il protagonista riceve, questa volta dall’amato zio Luca, sul letto di morte. I due orologi, dunque, prima che a misurare il tempo, servono a ricordare; come se il tempo, per orientarsi, abbia bisogno della base di una memoria.

La vicenda del romanzo sta dentro questi due momenti: la rottura irrimediabile del primo orologio apre il racconto e il dono del secondo lo conclude. L’unica scena che segue a quest’ultimo dono, e anche ciò mi pare significativo, è quella del viaggio di ritorno da Napoli a Roma, dove il protagonista assiste al dialogo tra i due Ministri. Essi discutono il possibile futuro scenario che si può aprire dopo la crisi del Governo Parri; quasi a suggerire, che nella complessa transizione, la linea del tempo tenda a ricomporsi, pur nella discontinuità degli eventi e seppure con una sintesi nuova e tante incognite a partire, come si accennava, dalla accettazione di una prospettiva di superamento della originaria unità di intenti dei partiti antifascisti [51].

Soffermiamoci ora, seppur brevemente, a riflettere sull’episodio della rottura del primo orologio. Questa è chiaramente l’evidenza di un tempo interrotto, di una «coscienza fratturata» [52], dove appunto i piani del passato del presente e del futuro non hanno più un orientamento, non sono più ordinati secondo una sequenza («il tempo dell’orologio è del tutto l’opposto di quel tempo vero che stava dentro e attorno a me» [53]). È un equilibrio che non si può recuperare. Ciò viene confermato anche da due dettagli. La rottura dell’orologio sembra un fatto ineluttabile: il protagonista precisa che l’orologio gli era sfuggito inavvertitamente, ma «più che cadermi di mano fece un salto, come una ranocchia che si buttasse nell’acqua» [54]. Inoltre la rottura non riguarda il meccanismo, che resta intatto, ma l’involucro (il vetro, il quadrante, le lancette e la cassa). La sequenza del tempo, dunque, procedeva; era la possibilità di leggerlo, di trovare una sintonia con esso, che era venuta a mancare.

Molto rilevante per il nostro problema è poi il constatare che la rottura dell’orologio viene in qualche modo annunciata al protagonista da un sogno premonitore, in cui si pone un problema strettamente giuridico. Soffermiamoci, seppur brevemente, a riflettere su quelle pagine. La scena del sogno si svolge in un tribunale dove deve giudicarsi della attribuzione dell’orologio; infatti, l’oggetto di cui il protagonista rivendicava il possesso, gli era stato «sottratto» (la parola è in corsivo anche nel romanzo). I profili giuridici evocati dal racconto del sogno riguardano aspetti di natura processuale (chi sono i giudici e come giudicano) e altri di natura sostanziale (che cosa decidono i giudici e sulla base di quali principi).

Quanto agli aspetti del primo tipo: l’Aula sede del Tribunale viene descritta come uno spazio nuovo, ancora non completamente arredato, un po’ caotico (come un «bagno turco») e anche i giudici sembrano nuovi, in effetti non è nemmeno chiaro quali siano effettivamente («tutti erano giudici», solo alcuni di essi erano togati; «i più erano persone qualunque»; il Presidente era invece impersonato dall’autorevole figura di Benedetto Croce [55]). Dalla confusione di quel luogo, dove il protagonista del libro non riusciva a farsi ascoltare, il sogno passa ad una scena diversa, quella di una camera di consiglio, dove il collegio giudicante prende una forma più definita e, finalmente, ascolta il ricorrente per pronunciarsi sulla sua richiesta. L’istanza del protagonista viene accolta; il tribunale lo riconosce come il legittimo possessore dell’orologio. Deciso questo, resta il problema di riottenere materialmente l’oggetto; il nostro protagonista non riesce subito a trovarlo («non si sapeva dove fosse»), ma poi lo vede: in realtà l’orologio è nella stessa stanza in cui il giudizio è stato pronunciato, ma è contenuto in una sveglia, privo del quadrante e della cassa originali, sostituiti appunto con quelli della sveglia [56].

Sembra rilevante considerare per quale ragione, nel sogno, i giudici si convincono che l’orologio debba tornare nel possesso del nostro protagonista. Non è tanto il dato della proprietà dell’oggetto a interessare i giudici (il termine “proprietà” non viene nemmeno utilizzato in quelle pagine). L’argomento decisivo è un altro: l’orologio era un dono paterno, incorporava un ricordo. Il protagonista viene riconosciuto legittimo possessore dell’orologio, dunque, perché quell’oggetto garantiva un diritto all’esercizio della memoria. È questo il bene che quella giustizia intendeva proteggere.

Seguendo la nostra linea interpretativa il problema della transizione e della sua giustizia si pone come intimamente collegato al problema della produzione di una memoria del passato. Del resto il problema della memoria torna anche in altre pagine del libro. Si pensi alla riflessione di Matteo, l’operaio che era vissuto in America e poi è tornato in Italia. Anche qui si presenta il dilemma del rapporto tra memoria e oblio. Matteo nella conversazione all’osteria riflette sul diverso rapporto che c’è con il passato, in quel mondo così lontano che lui ha conosciuto; l’elemento distintivo viene individuato nel fatto che in America, contrariamente a quanto può accadere in Italia, per guadagnarsi il futuro «bisogna dimenticarsi delle cose di prima» [57]. Significativo è poi notare che il problema della memoria venga ripreso nelle pagine finali del romanzo, quando il protagonista, nel rivedere l’amato Zio oramai spirato, ricorda la morte del padre e torna a riflettere sulla «libertà fatta di cose perdute» [58]. Si tratta di passaggi introspettivi ed esistenziali che caratterizzano la narrazione, ma è difficile considerarli del tutto sciolti dagli altri temi forti del libro che riguardano la società e il suo futuro. Il problema della memoria accomuna, ma direi meglio, “lega” il piano individuale e il piano collettivo [59]. Anche la società italiana che l’Autore osserva e descrive attraverso gli occhi del protagonista del romanzo, si trova nel mezzo di un dilemma sulla gestione del passato, per chiudere davvero la stagione della dittatura e della guerra e compiere la transizione per la democrazia.


3.3. Tempo, memoria, diritto

Alla luce di questa esemplificazione, chiediamoci ora quale rilevanza possa avere il tema della memoria per una comprensione dell’esperienza giuridica.

Cominciamo con l’osservare che, se con la storia, come si è detto, intendiamo oggettivare il presente, con la memoria compiamo un’opera­zio­ne culturale diversa [60], che consiste nell’ottenere una “soggettivazione del passato”. Il fare memoria, infatti, corrisponde ad una forma di narrazione volta a stabilire una relazione tra passato presente e futuro, che si basa su operazioni aperte di ricordo/oblio, per fondare e legittimare il presente [61]. Il rapporto con la memoria ha due livelli: quello del “ricordo attivo”, del “canone” (che è funzionale alla costruzione dell’identità soggettiva e collettiva); quello dell’ “archivio” (risultato di un dimenticare conservativo; trattiene tracce oltre il ricordo attivo: tra un “non più” e un “non ancora”). C’è uno scambio continuo tra questi livelli: il risultato è la memoria culturale [62]. Per questo la memoria è descrivibile come un palinsesto, cioè come una sovrapposizione di testi che si ricombinano e si risignificano continuamente [63].

Al contrario della storia che permette di ottenere un punto di vista critico sul passato e dunque sulla realtà, la memoria è una selezione del passato che serve a fondare e legittimare, giustificare il nostro presente. Per questo, quando fare memoria corrisponde ad un esercizio collettivo, esso funge da momento costitutivo della identità di una società. La produzione di una memoria culturale, così come il conflitto intorno ad essa, corrispondono dunque ad un momento politico, volto a stabilire un certo equilibrio interno tra le forze sociali e a dare una certa organizzazione della società. Ciò costituisce un possibile oggetto da storicizzare, in quanto base pre-giuridica di senso che possiamo considerare per comprendere il diritto.

Quanto osserviamo è particolarmente rilevante all’interno di un tempo ascrittivo come la transizione e ciò perché la disputa sulla memoria è un momento di determinazione del regime di storicità. Anche per questo il problema della memoria è anche un indicatore del rapporto che si instaura tra tempo storico e forme che il diritto assume. È evidente, per quanto esso sia un livello sottostante, che le opzioni giuridiche adottate nel tempo di transizione dipendono anche dal problema della memoria.

Nella misura in cui il problema della memoria agisce come fattore di certe dinamiche di costruzione della coesione sociale, esso costituisce un dato rilevante per la storia del diritto. Per il nostro compito di storicizzazione del passato può, dunque, risultare prezioso riportare alla luce dinamiche di produzione della memoria collettiva. La letteratura si offre senz’altro come un efficace strumento analitico per accedere a tale ulteriore livello del nostro problema.

Allo stesso tempo occorre però ribadire un punto essenziale: è la capacità di costruire e svolgere un discorso storiografico [64] che ci permette di oggettivare il presente. È questo che rende possibile evitare l’improduttivo senso di smarrimento del Funes di Borges [65], il quale, a causa della prodigiosa memoria, si è trovato a constatare: «el presente era casi intolerable de tan rico y tan nítido».


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NOTE

[1] Sbriccoli (1986).

[2] Paixão (2019), p. 99.

[3] A tale proposito si permetta di rinviare a quanto osservato in Meccarelli (2019) e (2017).

[4] Fra la ricchissima bibliografia in materia, la voce enciclopedica di Weisberg (1993) continua a costituire un punto di riferimento. Si vedano, inoltre, più di recente Mittica (2014); il Dossier pubblicato in Clio@Themis 2014, Droit et litérature: quels apports pour l’histoire du droit?; Vormbaum (2016); Roselli (2018) e (2020); Lacchè (2019).

[5] Barenghi (2020), p. 18.

[6] Benjamin (2014), p. 164.

[7] Barenghi (2020), p. 119. Nella prospettiva persuasivamente illustrata da Barenghi (vedi in particolare pp. 113-120) la funzione strumentale della letteratura emerge dal ri-uso che ne viene fatto, poiché il testo letterario offre spazio all’emersione di «livelli di realtà precedentemente ignorati o negletti» (p. 115).

[8] Ginzburg (2019), pp. 15-40.

[9] Grossi (2006), pp. 97-124 e (2020), pp. 78-99.

[10] Qui si consulta l’edizione parigina del 1839 edita da Ambroise Dupont e la versione in italiano tradotta da Ferdinando Martini con introduzione di Attilio Scarpellini, pubblicata per i tipi dell’editore Newton Compton nel 2010.

[11] Mariette (2017).

[12] Fra i contributi più recenti si veda Tritter (2015). Il romanzo è ben rappresentativo della poetica più in generale riconoscibile nelle opere di Stendhal. Anche in questo caso ci limitiamo a segnalare solo alcuni studi recenti: Crouzet (2015); Corredor (2016); Vanoosthuyse (2017); Ascari (2018).

[13] Stendhal (1839), vol. II, chap. XIV, p. 14.

[14] Stendhal (1839), vol. II, chap. XIV, p. 15.

[15] Stendhal (1839), vol. II, chap. XVI, pp. 71-72 e 83.

[16] Stendhal (1839), vol. II, chap. XVI, p. 83.

[17] Stendhal (1839), vol. II, chap. XXV, p. 364. «Une singulière difficulté s’éleva pour le procès de Fabrice: les juges voulaient l’acquitter per acclamation, et dès la première séance. Le Comte eut besoin d’employer la menace pour que le procès durât au moins huit jours, et que les juges se donnassent la peine d’entendre tous les témoins».

[18] È quel tipo di attività che la svolta del moderno ha escluso dal quadro di riferimento del giurista. Cfr. Grossi (1973), p. 209.

[19] Costa (2019), p. 12.

[20] Hespanha (2012), pp. 13-27; Grossi (2006), pp. 3-96. Con riferimento alle scienze storiche Ginzburg (2019), pp. 203-226.

[21] Si permetta il rinvio a Meccarelli (2018), pp. 18-25; Meccarelli/Solla Sastre (2016). Sul rapporto tra tempo e diritto si veda anche Bertone (2004).

[22] Stendhal (1839), vol. I, chap. VI, p. 163. Questa sospensione tra vecchio e nuovo è ricorrente nell’opera di Stendhal. Cfr. Levi (1990); Lacchè (2002).

[23] Crouzet (1982); Corredor (2016).

[24] Stendhal (1839), vol. II, chap. XXIII, pp. 300-301.

[25] Hartog (2015).

[26] Levi (1990) e (2002).

[27] Levi (2002), pp. 105-106. Cfr. Camilletti (2015), pp. 31-32.

[28] Levi (1990), pp. IX-X. In Stendhal ritrova perfino l’intuizione circa la «contrapposizione dei gruppi di governo e di dominio con la vita che vi si svolge sotto, tanto inesistenti e arretrati i primi quanto ricca di energia e di valore la seconda» (p. XI).

[29] Cau (2018), pp. 147-168; Bernardini/Cau/D’Ottavio (2017). Con riguardo a L’Orologio si veda Faleschini Lerner (2015), p. 107.

[30] L’Io narrante in Levi, come ricorda Marmo (2005), p. 23, è «sempre capace di riferirsi all’oggetto e di includerlo nella costruzione del racconto e della rappresentazione».

[31] Nel viaggio di ritorno da Napoli a Roma il nostro Direttore di giornale condivide il viaggio con due Ministri del governo dimissionario. Essi, ci riferisce il protagonista con atteggiamento tra la sorpresa e il disincanto, non sono preoccupati della crisi di governo: «pareva che entrambi già sapessero perfettamente come si sarebbe risolta [...] non c’era ora che un problema: restaurare l’autorità dello Stato. Bisognava liberarsi di certi residui anacronistici della Resistenza […]. Serbare l’unità a tutti i costi per realizzare quella necessaria Restaurazione…. […] La crisi poteva essere utile: un buon passo sulla via della normalità: non importava se, come era evidente, ciascuno intendesse, con questo, cose diverse: l’espressione era la stessa, pareva, quello che conta, identica» (p. 351, miei i corsivi). Il problema dello Stato nel pensiero di Levi è anche un problema di prospettiva; come ha messo in evidenza Spinazzola (2007), pp. 69-98, in partic. p. 97 e riguarda non solo lo statalismo fascista, ma anche quello liberale e socialista.

[32] Fofi (2005), p. 66.

[33] Levi (2015), p. 56. Poi ancora: «la diagnosi [in relazione alla crisi del Governo Parri] era dura e esatta: ritorno di un vecchio mondo, tentativo di annullare tutto quello che era stato fatto e, infine, la grande parola: colpo di stato» p. 170. Cfr. Acetoso (2015), pp. V-VI; Marmo (2005), pp. 24-25; Gasperina Geroni (2014), pp. 238-239; Leogrande (2016).

[34] Qui ritroviamo oltre che la passione politica e per la storia anche quell’interesse, insieme sociologico e antropologico, che pure emerge da altre pagine dell’opera di Levi. Si vedano a questo proposito Guagnini (2014); Marmo (2005); Leogrande (2016), p. 477.

[35] Levi (2016), p. XVI. Si veda anche Longo (2011), p. 44 e p. 60; Gasperina Geroni (2014), p. 244; Faleschini Lerner (2015), pp. 110-111; Ferroni (2002), p. XV.

[36] Camilletti (2015); Ferroni (2002), pp. XV-XVI.

[37] Levi (2015), p. 280. Cfr. Petrignani (2016).

[38] Sono le stesse impressioni che cogliamo in altri scritti di intellettuali antifascisti, si pensi alle note osservazioni di un giurista come Calamandrei (1947), p. 959: «A dire oggi […] che in Italia c’è stata (e forse non è finita) una rivoluzione, c’è da farsi maltrattare […]: perfino alla Costituente, dove la dimostrazione che una rivoluzione è avvenuta è data […] la parola “rivoluzione” dà un suono falso: ed è regola di buona creanza non pronunciarla»

[39] Levi (2015), p. 160. Miei i corsivi.

[40] Levi (2015), pp. 161-193.

[41] Leogrande (2016), p. 476.

[42] Per una bibliografia si vedano da ultimi i recenti volumi: Caroli (2020); Focardi/Nubola (2016); Bernardini/Cau/D’Ottavio (2017); Bolzon/Verardo (2018).

[43] Si pensi alla l. 28 dicembre 1943 n. 29/B e al decreto luogotenenziale 27 luglio 1944 n. 159, 26 aprile 1945 n. 195, decreto luogotenenziale 22 aprile 1945 n. 142, 26 aprile 1945 n. 149.

[44] Regio decreto 5 aprile 1944 n. 96 e regio decreto 17 novembre 1945 n. 719.

[45] Togliatti (1945), p. 472. Il concetto viene ribadito in Togliatti (1946b).

[46] Decreto presidenziale 22 giugno 1946 n. 4.

[47] Togliatti (1946a).

[48] Melis (2003), pp. 17-52; Galimi (2014); Meniconi (2017); Neppi Modona (2017).

[49] Si permetta a questo proposito di rinviare a Paixão/Meccarelli (2021).

[50] La rilevanza della memoria è, del resto, un tratto che si può rinvenire più ampiamente nella poetica di Carlo Levi. La memoria è il dispositivo che permette di venire a capo della compresenza dei tempi. Si veda a questo proposito quanto osservano Marmo (2011), p. 36; Longo (2011), p. 61; Pagliara (2011), p. 105; Van den Bossche (2011); Gasperina Geroni (2014), pp. 252-254.

[51] Gasperina Geroni (2015), pp. 102-104; Leogrande (2016), pp. 482-482.

[52] Acetoso (2015), p. VII; cfr. Camilletti (2015), pp. 35-37.

[53] Levi (2015), p. 13.

[54] Levi (2015), p. 24; Gasperina Geroni (2015), p. 92.

[55] Levi (2015), pp. 20-21.

[56] «Ecco, il mio orologio era là, attaccato alla sveglia e io giravo quel quadrante fittizio finché lo svitai del tutto, ed ebbi in mano finalmente, la cosa mia. Mancavano il quadrante e la cassa, tutta la parte anteriore dell’orologio: chissà dove erano stati buttati! Ma il meccanismo era intatto e funzionava e io lo tenevo nelle mani, un po’ imbarazzato per la mancanza del vetro, con grande allegrezza»: Levi (2015), p. 23.

[57] «Per vivere là bisogna dimenticarsi delle cose di prima [...]. È un grande paese, tutto diverso [...]. È diverso perché non si voltano mai indietro, non hanno niente dietro le spalle [...] Qui da noi ogni albero, ogni pietra della strada ha una storia [...]. Laggiù un albero è un albero, una pietra è una pietra [...]. Noi abbiamo sempre le spalle coperte: dalla famiglia, dal paese, dal partito, dalle nostre idee, da quello che è capitato prima; ma lì niente: bisogna far fuoco con la nostra legna. Per star bene bisogna dimenticarsi di tutto, gettar via tutto e ricominciare sempre da capo»: Levi (2015), pp. 228-229.

[58] «Pensavo alla morte di mio padre, lontano da me […] al senso amaro della libertà che mi aveva colpito al suo annuncio; alla libertà fatta di cose perdute, di legami troncati, di solitudine; quando non si ha più nulla dietro le spalle e nulla ci viene di fuori»: Levi (2015), p. 345.

[59] «La storia si svolge intera in ogni vita individuale. Quando si svolge, naturalmente, poiché può anche fermarsi, e tornare indietro, o girare a vuoto su sé stessa, come una trottola meccanica»: Levi (2015), p. 275.

[60] Ricoeur (2000); Ginzburg (2019), pp. 204-206.

[61] Paixão (2019), p. 111; Costa (2018), pp. 45-47.

[62] Assmann (2016).

[63] Paixão (2019), pp. 99-113.

[64] Ginzburg (2019), p. 225.

[65] Borges (2009), p. 130.