LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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Mauro Grondona legge: S. Arienta, «Qui m'ascolta o m'uccidi». La rappresentazione della persuasione nelle opere da Mozart a Puccini, Lucca, LIM Editrice, 2020


- Bibliografia - NOTE


1. Questo corposo volume di Sonia Arienta può interessare una varietà di pubblici.

Pubblici, preciserei subito, necessariamente colti, sì; ma non necessariamente colti in senso latamente musicale o strettamente operistico. Al di là della mole, del denso sommario, della bibliografia delle fonti secondarie (in gran parte dedicate al tema dell’argomentazione, a cavallo tra la retorica e il diritto, e che possono pertanto intimorire, almeno prima facie, o al limite stupire, il musicologo), se poi si inizia a leggerlo, questo libro risulta piuttosto scorrevole (anche se, a volte, in ragione della sintassi, i pensieri sembrano volti dal francese all’italiano), poiché lo schema espositivo seguito è molto lineare: ampia citazione delle parole del libretto e analitico commento sotto il profilo retorico-argomentativo, a seconda dello scopo, palese ovvero occulto, della scena oggetto di analisi.

L’autrice (che, mi avventuro subito a dire, ama l’opera più in quanto rappresentazione, e dunque fenomeno socio-culturale, e anche di costume, che non quale egotico luogo d’incontri e scontri vocali, e in questo senso legge, tramite i libretti, l’opera, intesa quale genere musicale, come, auerbachianamente, ‘figura di’ qualcos’altro, che dalla musica, ma soprattutto dalla voce, si allontana, per avvicinarsi invece alle modalità espressive dei personaggi, alla funzione performativa del linguaggio operistico, all’analisi della politicità della scrittura operistica e della sua fruizione da parte del pubblico, alle intenzioni, espresse o recondite, di compositori e librettisti) prende sempre per mano il lettore (forse così confidando di persuaderlo): tutte le situazioni e le scene a cui si fa riferimento sono molto pianamente descritte e illustrate, sotto i diversi punti di vista presi in esame (punti di vista bensì diversi, come appunto il sommario ben attesta, ma pressoché tutti riconducibili, come detto, al versante retorico-argomentativo).

Potremmo forse anche dire: il linguaggio operistico, cioè la lingua, di cui la musica si serve, è studiato nella sua specificità lessicale ed espressiva, come valore non indipendente dalla musica ma autonomo rispetto alla musica; sotto questo profilo, certo l’autrice non condividerebbe l’idea per cui il testo dei libretti d’opera, tendenzialmente standardizzato, ha, almeno in linea di massima, scarso valore intrinseco, non solo poetico, ma anche drammaturgico, appunto perché, almeno secondo una certa concezione del belcanto (oggi, verosimilmente, pressoché estinta), il libretto è effettivamente il pretesto sul quale la musica, ovvero la voce, si appoggia: in questo senso il libretto, e dunque la regia, non già le scene e i costumi, contano assai poco, anche in chiave drammaturgica, poiché la regia è interamente riversata sulla capacità artistica dei cantanti, che in questo senso dovrebbero essere ben lontani da quella standardizzazione testuale, per ricreare, tramite il suono che si riflette nella parola, e che sfocia nel canto lirico, quell’effetto estetico che si esprime sub specie artis [1], e che è pertanto opposto a ogni lettura contestuale e contestualizzante, cioè a ogni lettura che si prefigga di contestualizzare l’opera nella prospettiva del pubblico, della società, dell’attualità. Si tratterebbe, infatti, di una ricontestualizzazione attualizzante in vista della massima fruizione, così, però, procedendo a una decontestualizzazione non solo, in senso lato, storica (ad esempio, recidendo determinati lasciti di una tradizione che, in questo senso, non si vuole neppure ricostruire in chiave della filologica traditio, non solo del testo, cioè della partitura, ma delle prassi esecutive, le quali sono però inscindibili dal testo, posto che esso vive nell’esecuzione e l’esecuzione è resa possibile da un determinato testo), ma anche estetica: dimensione che potrebbe però legittimamente rivendicare appunto la propria autonomia, anche in senso astorico, o trans-storico, volendo così cursoriamente richiamare la questione dell’ 'autonomia del bello'; – ma dicevo: la lingua dei libretti d’opera, in questo volume così meticolosamente analizzata, è quasi un pretesto per ricostruire (o costruire, in chiave di psicologia sociale) un determinato contesto socio-comunicativo, che però conduce subito alla seguente notazione, che spero non spiacerà (o non spiacerà troppo) all’autrice. Questa ricerca, a mio avviso (e, in questo caso, l’ 'a mio avviso' significa: da semplice lettore appassionato d’opera e soprattutto di voci e di storia del belcanto), nobilita molto, e io direi: troppo, quella drammaturgia operistica che, se da un lato oggi (anche se non da oggi) vuole essere molto valorizzata, volta a volta, sotto il profilo, letterario, poetico, psicologico, sociologico, antropologico (questi ultimi due profili, probabilmente, e alla luce di una lettura contestuale dell’ope­ra in chiave di fenomenologia sociale e non già strettamente musicale, rappresentano quelli maggiormente proficui, perché non c’è dubbio che il contenuto dei libretti, soprattutto nel rapporto, un tempo tra i sessi, e oggi anche tra i generi, sia particolarmente rivelatore; così, del resto, aprendo un filone di ricerca senza dubbio floridissimo, e infatti già da tempo battuto [2], che mette in relazione psicologia del personaggio, timbro vocale, identità di genere, con evidenti e molto interessanti ricadute anche in termini di sociologia della cultura, senza dubbio proficui, certo nel segno di una coraggiosa interdisciplinarità, per svecchiare determinate concezioni, sul versante giuridico, che oggi possiamo senza dubbio qualificare retrive, e che principalmente interessano il diritto di famiglia, nella prospettiva di una soggettività autonormativa e di un pluralismo famigliare in costante espansione: soggettività e pluralismo che benissimo mostrano quanto il diritto si trasformi, se non per forza propria, ché il diritto è comunque un apparato ordinatore, e ha il compito di qualificare ciò che potremmo definire una fattualità in transito, così tipica non solo dei rapporti famigliari e personali, ma dell’intera società aperta, in ragione di quegli stimoli che al diritto pervengono, come usa dirsi, ‘dal basso’, cioè dal contesto sociale, che è il fecondo e costante interlocutore della giuridicità [3], a cui però, l’arte ben può opporsi, rivendicando appunto a sé quell’autonomia che ne legittima la ‘fuga dal sociale’ e che la proietta tutta all’interno di un ubi consistam estetico, e dunque necessariamente ideologico – come, del resto, ogni presa di posizione intellettuale –, che salvaguardi quella che potremmo anche chiamare l’autonomia dal transeunte); – ma dicevo: se questa ricerca, da un lato, fin troppo nobilita i libretti e la stessa idea di drammaturgia operistica, ovvero di teatro in musica, per evocare concetti elementari e quindi ben noti a tutti, dall’altro lato lascia nell’ombra proprio l’aspetto vocale, che invece ben potrebbe essere utilizzato proprio per svolgere un’analisi a cavallo tra la sociologia e l’antropologia culturale. Il suono e il canto, dunque l’estetica del canto lirico, come espressione di un contesto estetico che naturalmente muta progressivamente, ma contro il cui mutamento è perfettamente legittima una reazione che, se non può definirsi estetizzante, in deterius, certamente si muove in conformità a ben individuati canoni estetici.

Naturalmente, l’una ipotesi di ricerca non esclude l’altra, e, soprattutto, ogni prospettiva di ricerca è come tale autolegittimata, tanto rispetto agli specifici obiettivi che si intendano perseguire, quanto rispetto alla metodologia di analisi adottata.

 

2. Come evidente, ogni libro significativo nel suo campo intende compiere un’operazione culturale. In questo caso, mi pare che l’autrice la enunci chiaramente a p. 179, quando scrive: «Le informazioni desumibili dal­l’analisi delle scene di persuasione aiutano a ripulire il testo da incrostazioni interpretative accumulatesi nel tempo, sia a livello formale, sia sul piano socioculturale, per pregiudizi diffusi a vari livelli».

Il tema, ovviamente, è di particolare interesse perché tocca la questione, piuttosto delicata, di una filologia musicale che ormai dovrebbe muoversi nella prospettiva più sostanziale che non formale, risolti largamente i problemi di ricostruzione del testo. Ma l’idolatria per il testualismo musicale (che spesso fa trasparire un desiderio di predominanza del direttore d’orchestra, rispetto alle voci; ma sono le voci le protagoniste dell’opera, non la musica, e tanto meno il direttore, che, a ben vedere, più che dirigere, cioè imporre una propria linea interpretativa, dovrebbe concertare, dunque portare a una armonia il complesso vocale-strumentale di cui si disponga in quella circostanza) lascia poi inevitabilmente in ombra proprio quelle prassi esecutive che, appunto in chiave filologica, ben meriterebbero una maggiore attenzione [4], e non già una sbrigativa messa al bando quale strumenti di corruzione del testo: del resto, proprio il preclaro esempio del princeps philologorum, Ulrich von Wilamowitz-Moellen­dorff, depone in favore di quella totalità del comprendere [5] che, declinata rispetto all’opera lirica, volge lo sguardo dell’osservatore che sia interessato alla storia sociale dell’opera al significato sociale dell’arte, così dovendosi necessariamente attingere a quella pluralità di fonti coeve che possano oggi (e dunque retrospettivamente) illuminare, senza incorrere in anacronismi, quei molti aspetti (dallo stile di canto alle modalità di fruizione da parte dei pubblici di allora) che storicamente connotano il mondo dell’opera e che senza dubbio compongono quell’esteso ‘mosaico contestuale’, al quale, da una prospettiva ben circoscritta e ben delineata, guarda Sonia Arienta.

Da questo punto di vista, direi allora che questo volume, in prospettiva di storia delle idee, può essere anche considerato come un lavoro preparatorio a un’indagine tutta impostata in chiave di antropologia musicale, andando cioè alla ricerca del significato latamente culturale dell’ope­ra, grosso modo, nell’Ottocento. E del resto, ne ho fatto cenno anche sopra, la nostra autrice è certamente sensibile alla prospettiva sociologica, cercando infatti di ricondurre (o comunque di connettere) il tema della persuasione e gli effetti operistici della persuasione (pur qui studiati in una prospettiva strettamente formale, come avviene con l’insistita analisi in chiave retorica / argomentativa / giudiziaria delle molte scene prese in esame nel volume, che trasmettono un’immagine probabilmente corretta, in chiave strutturale, ma che risulta essere troppo lontana da una idea vivente di opera, che, se certo cambia nel tempo, non credo possa essere messa in non cale dallo studio delle strutture del discorso operistico) al piano sociologico, ove soprattutto può essere utile e arricchente un’analisi retrospettiva che porti alla luce le differenze, ma anche le continuità, tra l’ieri e l’oggi: «L’analisi delle scene di persuasione, in rapporto al senso generale dell’azione, è spietata nel mettere in luce atteggiamenti conservatori, pregiudizi, chiusure mentali, ambiguità, o al contrario coraggio, visioni aperte e stimolanti, posizioni controcorrente nella lettura del mondo proposta dagli autori» (p. 180).

Ecco che, allora, studiare le dinamiche dei rapporti sociali può essere utile nella prospettiva della dimensione artistica, per mettere in luce certi aspetti dei rapporti sociali che l’opera rivisita, accentuandone talune caratteristiche che altrimenti passerebbero inosservate: «Il discorso pubblico “opera lirica” nel suo insieme ubbidisce ai principi della retorica; mentre, le sue singole scene alternano momenti retorici e dialettici, monologhi e dialoghi trasfigurati dalla musica» (p. 189).

 

3. Da ultimo, bisogna pur chiedersi, dato che chi scrive è un giurista, come, verosimilmente, chi leggerà: quale può essere l’utilità di questo volume per un giurista?

La risposta, apparentemente semplice e piana (è un libro tutto concentrato sull’argomentazione, e quindi è naturaliter consustanziale alla dimensione giuridica), in realtà si connette a quegli aspetti problematici che (spero garbatamente) ho cercato di far emergere in questo mio brevissimo intervento recensorio.

E dunque. Il cardine retorico-argomentativo, tipico del diritto, e soprattutto del diritto oggi, sempre più argomentazione, e quindi ragion pratica, e sempre meno fattispecie, sempre meno nudo testo, e sempre più vivo e vivificante contesto, soprattutto nella prospettiva di un diritto che, appunto argomentativamente, persegua l’ideale di una giustizia contestuale [6], è naturalmente al centro di una ricerca che si prefigge di mettere a fuoco non già l’intreccio argomentativo, ma le strutture argomentative dell’opera: il filo conduttore della ricerca di Sonia Arienta, o uno dei principali fili conduttori, sta nel servirsi dello studio dell’argomenta­zione per far emergere una dimensione in senso lato sociale (e in certa misura anche etico-sociale), ma tutta interna al libretto, in questo senso drammaturgicamente e sociologicamente nobilitandolo, ma lasciando così appunto in ombra il versante strettamente estetico, e peraltro assumendo che in questo senso la musica sia e debba essere servente rispetto al testo; che, cioè, la poetica musicale si prefigga di realizzare la poetica del libretto: una prospettiva eminentemente strutturale, che guarda alla ‘funzione’ del testo, e dunque della struttura di esso, solo rispetto agli scopi del­l’argomentazione, cioè rispetto al testo del libretto, ma così tenendo sullo sfondo quel contesto estetico cui prima ho fatto allusione. Il che significa, nella prospettiva sulla quale mi sto ora soffermando, che l’ap­proccio argomentativo è tutto interno alla struttura drammaturgico-testuale.

In parallelo, e cioè guardando all’ambito giuridico, si potrebbe ragionare in questi termini: l’attenzione fortemente rivolta al versante argomentativo ha prodotto un effetto assai diverso, ampliandosi enormemente lo sguardo del giurista, grazie all’enfasi, non solo teorizzata ma concretamente applicata, posta sulla portata costruttiva dell’’argomen­tazione in diritto’, dunque sulla funzione intesa in senso largo, quale strumento tecnico del conseguimento di una giustizia che, argomentativamente, deve essere tale rispetto alle esigenze del caso concreto, e dunque del contesto.

Un’argomentazione funzionale, quindi, ovvero orientata alle conseguenze, per evocare la ben nota formula; un diritto funzionalmente indirizzato lungo una linea (o più linee) di politica del diritto; una funzione che supera (argomentativamente e quindi costruttivamente) la struttura, che non è naturalmente cancellata ma che è intesa quale mero dato di partenza, dal quale è lecito fuoriuscire, in ragione degli scopi che l’argo­mentazione intende perseguire.

La conseguenza è notevole e conosciuta: l’argomentazione giuridica funzionalmente orientata produce un rilevante ampliamento dell’oriz­zonte della giuridicità, che esce dai testi e si riflette nei contesti. Diritto come argomentazione e come flessibilità argomentativa, non come corpus di regole predeterminate. Diritto come creatività di un interprete culturalmente sensibile e politicamente orientato.

Ecco che, allora, anche sotto questo profilo, l’intreccio tra ‘diritto e arte’ c’è e può essere variamente osservato. In chiusura, basti far riferimento al duplice contesto nel quale si immergono le strutture, del libretto e del diritto: un contesto estetico e un contesto sociale (ma anche il libretto assume un significato diversificato rispetto al contesto sociale che ne è destinatario; ma anche il diritto necessita di un’estetica argomentativa, e cioè di un contesto argomentativo che eviti quegli sbalzi e quegli eccessi, dunque quelle disarmonie, che ne danneggerebbero la tipica funzione ordinante, cioè di raccordo tra contesto istituzionale e contesto sociale). Di qui, un’ampia possibilità di intrecci e di disgiunzioni, tra strutture e funzioni, grazie al ruolo attivo dell’interprete (tanto giurista quanto artista), nel segno di quell’unitarietà culturale dei fenomeni umani che è sempre un sicuro viatico metodologico.

Certo, non sempre i rapporti tra estetica e società, tra struttura e funzione, tra opera e ideologia, e quindi politica, tra musica e costume, sono facilmente individuabili e investigabili, come il volume di Sonia Arienta mostra, ma tra i meriti di questa ricerca vi è senza dubbio la pluralità di spunti che essa offre, soprattutto rispetto alla dimensione antropologica dell’opera, e che altri vorrà percorrere.


Bibliografia

André, Naomi (2006), Voicing Gender. Castrati, Travesti, and the Second Woman in Early-Nineteenth-Century in Italian Opera, Bloomington (IN), Indiana University Press

de Lima Lopes, José Reinaldo (2022), Cultura giuridica e istituzioni in Brasile tra Otto e Novecento. Saggi sulla storia del pensiero giuridico, delle codificazioni e del processo. Presentazione di Italo Birocchi, traduzione di Anna Basevi, Pisa, ETS

Fraenkel, Eduard (1977), Wilamowitz, in «Quaderni di storia», 5, pp. 101-118

Lipari, Nicolò (2021), Elogio della giustizia, Bologna, il Mulino

Zimei, Francesco (2021), Per una filologia del contesto performativo, in «Informazione organistica e organologica», II, pp. 277-281


NOTE

[1] In questo senso resta esemplare (al di là di una sua effettiva attualità, o auspicabile attualizzazione) la ‘lezione di canto’ del 1933 di Giacomo Lauri-Volpi, facilmente reperibile in rete: https://www.youtube.com/watch?v=Y8erukaVLUQ&list=RDY8erukaVLUQ&
index=1.

[2] Cfr. ad esempio André (2006).

[3] In questo senso sono significativi molti dei saggi raccolti ora in de Lima Lopes (2022). Rinvio al seguente passaggio tratto dall’acuta presentazione di Italo Birocchi, il quale osserva: «I confini tendono a svanire: quelli linguistici, quelli disciplinari, quelli culturali. Non perché non esistano le diverse lingue con cui un problema può essere trattato, o le diverse angolazioni scientifiche o metodologiche da cui guardare al tema prescelto. Ma perché lingue e discipline sono appena strumenti con cui accostarsi all’ar­gomento con la consapevolezza che esso è sempre complesso, sicché le singole branche giuridiche hanno ragion d’essere solo nell’unitarietà del diritto e a sua volta il diritto è solo un’angolazione da cui accostarsi al mondo reale. Svaniscono perciò anche le certezze dogmatiche e concettuali, predominanti in altre epoche» (p. 12).

[4] In questa linea, che a me pare la più convincente, cfr. ora Zimei (2021).

[5] Una tra le più belle testimonianze rimane quella di Eduard Fraenkel: cfr. infatti Fraenkel (1977).

[6] Cfr. in particolare, tra i civilisti, Lipari (2021).

Fascicolo 3 - 2022