LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

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Sarah Bernhardt e le altre. La physionomie nerveuse des femmes artistes secondo Enrico Ferri (di Francesco Serpico, Università degli Studi del Molise)


A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la sessualità femminile fu al centro di un complesso intreccio tra il discorso medico e quello giuridico al fine di iscrivere il corpo della donna in una fitta maglia di prescrizioni definita dalla sua “naturale” funzione di moglie e di madre. All’interno di questa prospettiva, l’articolo si propone di analizzare un contributo di Enrico Ferri, leader socialista e tra i principali esponenti della Scuola positiva, incentrato sull’analisi della personalità della “divina” Sarah Bernhardt. Lontana dagli stereotipi di genere della passività e dalla sottomissione, la figura iconica della diva sembrava riassumere in sé nuovi e destabilizzanti modelli di identificazione della sessualità e del desiderio femminile contribuendo così a rivelare le ansie ed i timori sottesi al processo di modernizzazione sociale nell’Europa fin de siècle.

Sarah Bernhardt and the Others. La physionomie nerveuse des femmes artistes According to Enrico Ferri

From the second half of nineteenth century, female sexuality was the focal point of a complex story between the medical and legal question at hand so as to catalog a women’s body in a rigid framework of predefined rules of “natural” role of wife and mother. Within this prospect, this article will analyze Enrico Ferri’s contribution, as socialist leader and one of the main advocates of criminal positive school in liberal Italy, focused on analyzing the personality of “divine” Sarah Bernhardt. Far from the gender stereotypes of passivity and submission, the iconic figure of the diva seemed to embody new and destabilizing patterns of sexuality and female desire, revealing the axieties and underlying fears of social modernization in Europe at the end of the century.

«Actrices: La perte des fils de famille.
Sont d’une lubricité effrayante,
se livrent à des orgies, avalent des millions,
finissent à l’hôpital. Pardon! il y
en a qui sont bonnes mères de famille!»
G. Flaubert, Dictionnaire des idées reçues

1. Arte, follia e immagini del femminile tra Ottocento e Novecento - 2. L’attrice geniale - 3. Una «psicosi degenerativa della famiglia delle follie morali» - 4. «Se esistono donne di genio» - 5. L’ombra lunga dell’isteria femminile - 6. Nevrosi urbane - 7. Maternità, “dismaternità” e prognatismo femminile - 8. Conclusioni - Bibliografia - NOTE


1. Arte, follia e immagini del femminile tra Ottocento e Novecento

Edito a New York nel 1972, Women and Madness della psicologa americana Phyllis Chesler rappresenta un testo chiave del pensiero femminista e, allo stesso tempo, uno strumento prezioso per comprendere le complesse relazioni tra malattia mentale ed esperienza femminile[1].

Divenuto ben presto un successo editoriale, il testo fu tradotto in italiano nel 1977, con il titolo Le donne e la pazzia. A curarne la pubblicazione per il nostro Paese fu una delle protagoniste della stagione dei diritti e della “rivoluzione psichiatrica” della seconda metà degli anni Sessanta[2]: Franca Ongaro Basaglia[3]. Quest’ultima accompagnò l’edizione del testo con un’introduzione nella quale, pur non facendo mancare una serie di note critiche, riconosceva alla psicologa americana il merito di aver avviato la riflessione su un dato spesso presente nelle storie cliniche delle pazienti e troppo spesso taciuto, ovvero il ruolo delle aspettative sociali associate al comportamento femminile. A ben vedere, precisava la Ongaro, mentre le regole che attenevano all’agire maschile riguardavano azioni condotte in uno spazio pubblico, quelle concernenti le azioni femminili si concentravano essenzialmente sulla sfera privata e familiare «con una esplicita connotazione morale per quello che riguarda la sua capacità o incapacità di corrispondere all’immagine ideale di ciò che deve essere: la buona figlia e la brava madre»[4]. Non è un caso che il testo della Chesler si aprisse con un capitolo introduttivo destinato ad illustrare le storie di artiste che avevano conosciuto l’esperienza dell’internamento psichiatrico come Zelda Fitzgerald o Sylvia Platt. Femminilità non convenzionali, dai più riconosciute come temperamenti indocili e anticonformisti, semplicemente perché cercarono di evadere dalla gabbia imposta dall’ideario della passività e della sottomissione femminile schierandosi «disperatamente e coraggiosamente contro il ruolo tradizionale della donna», tentando «di sfuggire a quella sorta di semiesistenza “diventando pazze”»[5].

Proprio le storie esemplari di donne che avrebbero pagato un prezzo altissimo per affermare la loro irredimibile individualità consentono di riflettere sul ruolo assunto dai dispositivi sociali, e in particolar modo dalla dimensione giuridica, nel fissare i mobili confini tra inclusione ed esclusione, tra normalità e anormalità[6]. In particolare, questo contributo proverà a concentrare l’attenzione sul fondamentale turning point tra Ottocento e Novecento in cui in Italia la nuova scienza penale, nata sulla scia del positivismo scientifico, avrebbe attinto a piene mani dal linguaggio medico per legare la creazione artistica ai disturbi psichici[7]. Sottotraccia, e solo parzialmente nascosto dall’asserita neutralità del linguaggio scientifico, il dibattito relativo alla relazione tra arte e follia rivelava anche profonde connessioni con un altro tema destinato ad accendere le coscienze dell’Italia liberale: la questione femminile.

Lo studio del disegno o di qualche rudimento di pittura o musica aveva costituito da sempre un elemento presente nella formazione delle donne dell’alta borghesia. Per queste donne la pratica artistica, tuttavia, era in ogni caso legata ad uno svago destinato a riempire le lunghe ore dedicate alle cure domestiche e alla prole[8]. D’altro canto, proprio tra Ottocento e Novecento, il mondo dell’arte avrebbe conosciuto l’avvio di un processo di professionalizzazione destinato ad offrire alle donne una serie di occasioni di riconoscimento e affermazione individuale[9]. Per la scienza del tempo – rigorosamente declinata al maschile – la donna presentava una serie di limiti organici che ne condizionavano la struttura biologica: una debolezza congenita nelle funzioni cognitive ed un’elevata instabilità di carattere[10]. Tali assunti, se da un lato confermavano la sua “naturale” vocazione per la sfera dell’affettività e della cura domestica, dall’altro la escludevano dalle manifestazioni più elevate della creatività. Cionondimeno, l’indiscutibile successo manifestato da una schiera sempre più ampia di donne impegnate nei campi della scrittura, della musica, del teatro sembrava mettere a dura prova questo assunto. Come spiegare allora la vocazione artistica del sesso femminile? Era possibile fornire una motivazione alle ragioni di un talento che sembrava smentire i caratteri del rassicurante immaginario della donna dedita alla cura amorevole della famiglia?

Non è difficile scorgere dietro a queste domande le ansie e i timori aperti dal lento e progressivo processo di emancipazione femminile. In un’Italia dominata dalla «paura della disgregazione»[11], la scienza forniva risposte orientate a leggere ogni fuga dal recinto della domesticity come una forma di minacciosa indisciplina, che rischiava di travolgere le fondamenta stesse della società. Al di là di qualsiasi patologia diretta a classificare queste esistenze «fuori norma»[12], la donna artista possedeva una proiezione pubblica che affascinava, ma che allo stesso tempo inquietava la coscienza della borghesia, perché “pericolosamente” affine alla devianza[13]. Figura dal doppio volto, allo stesso tempo ammirata e disprezzata, essa acquisiva nell’immaginario degli scritti di giuristi, criminologi, alienisti una rappresentazione ambivalente che celava il timore di un rovesciamento dei tradizionali ruoli di genere. Se per un verso la donna artista, e in particolare la donna di spettacolo, assumeva una fisionomia carica di un’autonomia e di una indipendenza che avvicinava la sua personalità a quella maschile, per altro verso essa evocava i «fantasmi delle cattive madri e delle perverse e fatali incantatrici»[14] che avrebbero continuato a nutrire le ansie ed i timori reconditi dell’Italia fin de siècle.

È opportuno, perciò, esaminare più da vicino la costruzione discorsiva dell’artista messa a punto dalla cultura giuridica, puntando il quadrante dell’analisi su un autore che meglio di altri rispecchiava i nodi irrisolti e le contraddizioni sulle quali si avvitava la scienza penalistica italiana sul finire dell’Ottocento: Enrico Ferri.


2. L’attrice geniale

Il 15 dicembre 1896 la Revue des Revues ospitava sulle sue colonne un articolo a firma di Enrico Ferri[15] dal titolo La physionomie nerveuse des femmes artistes[16]. Questi, in apertura del suo contributo, metteva per un attimo da parte l’eloquenza calda ed enfatica che lo aveva contraddistinto in tante battaglie politiche e giudiziarie e si abbandonava ai toni intimi della confessione per rievocare un episodio della sua formazione parigina, allorquando dopo la laurea conseguita all’Università di Bologna aveva frequentato gli austeri corridoi della Sorbona per perfezionare i suoi studi con «l’enthousiasme ardent de la jeunesse». Fu proprio nella capitale francese che, appena ventitreenne, fu testimone di un evento destinato a rimanere ben impresso nella sua memoria, poiché al Théâtre Français ebbe l’occasione di assistere con lo stupore dell’incanto ad una recita di Sarah Bernhardt.


Fig. 1 – Georges Clarin, Ritratto di Sarah Bernhardt (1876), olio su tela, Paris, Petit Palais, Musée des Beux-Arts de la Ville de Paris, PPP 744, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/petit-palais/oeuvres/portrait-de-sarah-bernhardt-0#infos-principales

Prima vera e propria “diva” della scena teatrale tra XIX e XX secolo, nel 1879 la Bernhardt vestiva i panni di Phèdre nell’omonimo dramma di Racine, tappa di una prestigiosa carriera che l’avrebbe portata ad affermarsi nei teatri di tutto il mondo ed in seguito nel nascente cinematografo[17], ricevendo consensi ed entusiastica ammirazione dal pubblico di ogni sesso e condizione sociale, ma anche un’attenzione morbosa dalla stampa per la sua “scandalosa” vita privata scandita in costante sfida ai condizionamenti e ai clichés imposti alle esistenze femminili[18]. Della sua battaglia contro i pregiudizi e gli stereotipi della morale corrente avrebbe recato traccia non solo il suo principale scritto dedicato ai problemi teorici della scena, l’Art du théâtre[19], ma anche la sua intensa autobiografia, Ma double vie[20], destinata a fondare il “mito” della sua personalità ribelle ed anticonvenzionale.

Capace di divulgare di sé un’immagine giocata su una ricercata ambiguità (spesso ritratta alle prese con attività tradizionalmente riservate all’altro sesso, come la scherma e l’equitazione), la Bernhardt fu anche abilissima imprenditrice di sé stessa (ciò che la porterà nel 1899 ad avere una compagnia ed un teatro proprio)[21]. Del pari, Sarah, orgogliosamente legata alle proprie origini ebraiche, non mancò di farsi sentire su temi di grande rilievo: convinta sostenitrice del suffragio femminile, assunse un ruolo di primo piano a sostegno del capitano Dreyfus nell’omonimo affaire che lacerò l’opinione pubblica internazionale[22]. Non c’è da stupirsi che nella Francia della Terza Repubblica, alle prese con la profonda crisi di certezze e di credibilità all’indomani della tragica disfatta di Sedan, la Bernhardt divenisse il bersaglio di critiche nelle quali al più gretto antisemitismo si univa la denuncia dei pericoli ai quali erano esposti la morale e l’ordine delle famiglie[23]. Un personaggio capace di attirare su di sé tutti i lai dei paladini della tradizione, ma anche le frustrazioni piccolo borghesi contro l’èlite culturale della France juive accusata di essere il simbolo del disfacimento economico e morale nel quale il Paese era precipitato[24].


Fig. 2 – Achille Melandri, Sarah Bernhardt in abiti maschili nel suo studio di pittrice, fotografia, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, PH8674, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/portrait-de-rosine-bernard-dite-sarah-bernhardt-1844-1923-peignant#infos-principales


Fig. 3 – Georges Lorin [Cabriol], Caricatura di Sarah Bernhardt, «Les Hydropathes», 5 Aprile 1879, http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k132779f/f31.item.r=l'hydropathe.zoo

Eppure, al di là del carattere divisivo della sua immagine, la Bernhardt avrebbe impresso una svolta decisiva al teatro dei suoi tempi. Nella scena francese tradizionalmente votata al primato della declamazione, Sarah portò in primo piano il corpo. Il suo corpo. Snello, longilineo, dotato di una naturale androginia, rappresentò lo strumento utilizzato dalla Bernhardt per imporre un proprio stile di recitazione – memorabile nei ruoli en travesti – caratterizzato da modulazioni impreviste ed audaci, capaci di rivelare gli aspetti più reconditi della femminilità e di infrangere i tabù della morale borghese[25]. Non solo, perché accanto all’uso del corpo, alla sua straordinaria versatilità, Sarah univa un registro vocale pressoché unico, tale da meritarsi da Victor Hugo l’appellati­vo di voix d’or. Come ricordava un testimone contemporaneo, rapito dalla capacità manipolatoria e dalla perfetta padronanza della phonè:

La sua voce sembrava ondeggiare intorno a lei e i suoi occhi sembravano a volte seguirla. A seconda del testo, cantava, martellava, precipitava la cadenza come in un galoppo che rotolava, cresceva, batteva, si fermava in un silenzio squarciato improvvisamente da un singhiozzo ripetuto. Poi una sorta di melopea volontariamente monotona, che finiva in uno sgomento di un infinito candore o uno scatto di rabbia, di rivolta o di sofferenza[26].

Fig. 4 – William Downey, Ritratto di Sarah Bernhardt «en costume de troubadour»
ne
Le passant di François Coppée (1869), fotografia, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, PH 9020, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/portrait-de-l-actrice-sarah-bernhardt-en-costume-de-troubadour-dans-le#infos-principales

Fig. 5 – Atelier Nadar, Ritratto di Sarah Bernhardt in abiti di scena (1884), fotografia, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, PH24467, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/portrait-de-rosine-bernard-dite-sarah-bernhardt-1844-1923-actrice#infos-principales

Fig. 6 – Malcuit editeur, Sarah Bernhardt nel ruolo del duca di Reichstadt ne L’aiglon di Edmond Rostand, fotografia, cartolina postale, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, CP1221, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/sarah-bernhardt-l-aiglon-0#infos-principales

In sede critica è stato messo in luce come il lavoro tecnico-espressivo di Sarah costituisse il frutto di un processo destinato a coinvolgere «l’intera­zione tra mimica e costume, la modulazione vocale» nonché una personale ed inimitabile «concezione pittorica del quadro scenico»[27]. In tale processo l’assoluta originalità del suo stile – «Nulla è più contrario alla verità di quanto sia la tradizione» – si fondeva con il costante affinamento delle tecniche e del repertorio attoriale:

Ho dovuto seguire una lenta evoluzione, imparare, imparare e ancora imparare […] io stessa mi sono inconsciamente creata una tecnica personale al fine di rendere più sensibile la musica sonora dei versi e la melodia del verbo, così come la musica e la melodia del pensiero[28].

Certamente, come doveva sembrare evidente anche agli spettatori che più l’apprezzavano, «si trattava di un’attrice determinata ad oscurare il testo con la carismatica intensità della sua presenza scenica», con i suoi repentini «cambiamenti d’umore, il ritmo “ostinato” della recitazione, i movimenti spasmodici». Eppure anche i suoi detrattori più convinti non potevano non riconoscerne l’eccezionale statura drammatica e il suo talento inimitabile destinato a combinare all’interno della rappresentazione «le vecchie attrattive della femme fatale con i pressanti dilemmi della don­na moderna»[29].

Fig. 7 – Alphonse Mucha, Manifesto per La Dame aux camélias di Alexandre Dumas fils (1896), litografia su carta, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, AFF1136, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/la-dame-aux-camelias-sarah-bernhardt#infos-principales

Fig. 8 – Alphonse Mucha, Champenois ed., Programma di sala per la rappresentazione de La samaritaine al Théâtre de la Reinassance, litografia, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/theatre-de-la-renaissance-sarah-bernhardt-la-samaritaine#infos-principales

Fig. 9 – Alphonse Mucha, Affiche per la rappresentazione de La Tosca di Victorien Sardou al Théâtre Sarah Bernhradt (1899), litografia, Paris, Musée Carnevalet Histoire de Paris, AFF. 1169, https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/la-tosca-drame-en-cinq-actes-et-six-tableaux-de-mr-victorien-sardou-theatre#infos-principales

Sarebbero state proprio queste sue caratteristiche inconfondibili, il suo personalissimo «je-ne-sais-quoi» ad ispirare Oscar Wilde per la sua Salomè, affascinato come tanti altri esponenti dell’élite intellettuale da una personalità e da una presenza scenica enigmatica, seducente, che dava corpo e consistenza a tutte le sfumature del desiderio femminile[30]. Sensuale, altera, magnetica nella sua recitazione – reine de l’attitude et princesse du geste, l’avrebbe definita Edmond Rostand – la Bernhardt aveva rapito a tal punto l’allora giovane Enrico Ferri, tanto da evocare così l’atmosfera che si respirava quella sera in sala:

la silhouette d’une maigreur transcendantale jusqu’à la voix d’or, semble s’évanouir aux yeux du spectateur fasciné, de même qu’à l’étalage d’un fleuriste des grands boulevards les fleurs luxuriantes, débordantes[31].

Ciononostante, quasi schernendosi per essersi fatto trascinare dalla corrente dei ricordi, nel suo contributo Ferri mutava subito registro. Indossando di nuovo i panni dell’austero giurista, chiariva subito che il suo interesse non era dettato da una istintiva, quanto irriflessa, fascinazione, ma al contrario in lui l’incontro al teatro parigino aveva prodotto un interesse «scientifico», nel senso che, come egli stesso precisava, il trasporto «estetico» dettato dalla visione dell’artista aveva presto ceduto il passo a un interesse di carattere «antropologico»[32].

Sotto questo aspetto, dunque, la personalità dell’attrice francese poteva rappresentare un’irrinunciabile occasione di studio e di analisi. In fondo, un’attrice come la Bernhardt sembrava incarnare l’ideale della “donna nuova” oggetto delle istanze del nascente movimento femminista e suffragista, una donna indipendente e professionalmente affermata, lontana dai tradizionali canoni femminili, capace di esprimere i tratti di una femminilità trasgressiva e destabilizzante per i precetti della morale comune[33]. Soprattutto la Bernhardt era una donna a proposito della quale si adoperava «abitualmente la parola genio», circostanza – quest’ultima – del tutto eccezionale dal momento che ciò avveniva «in un’epoca in cui si riteneva che il genio fosse una potenzialità esclusivamente maschile»[34].


3. Una «psicosi degenerativa della famiglia delle follie morali»

Prima di esaminare nel dettaglio l’argomentazione di Enrico Ferri, è opportuno ricordare che il tema da lui sollevato, in apparenza destinato a suscitare al più la curiosità del pubblico non specialistico e distante dai luoghi dell’accademia, finiva per toccare un nervo scoperto della cultura giuridica, dal momento che esso chiamava in causa direttamente una serie di discorsi centrali nei dibattiti dell’epoca, interessati a comprendere la natura e le manifestazioni della genialità.

Come è noto, uno degli aspetti sul quale maggiormente appuntò il metodo di analisi nato con il positivismo scientifico fu rappresentato dall’in­teresse manifestato per le espressioni artistiche in ogni sua forma[35]. Tale interesse, dettato dalla consapevolezza che l’estetica non appartenesse più (esclusivamente) ad un mondo filosofico universale[36], avvicinava l’ap­proccio all’arte, per usare le parole di Hippolyte Taine «al movimento generale che avvicina oggi le scienze morali a quelle della natura e che fornendo alle prime i principi, le cautele e l’orientamento delle seconde, comunica loro la stessa solidità e assicura il medesimo progresso»[37]. Espressione emblematica di questo atteggiamento proprio della seconda metà del secolo XIX fu l’attenzione riservata dalla nascente psichiatria al problema della genesi della creazione artistica, che trovò uno dei più originali precursori in Jacques-Joseph Moreau con i suoi studi sull’influenza delle neuropatie sull’azione dei meccanismi celebrali che presiedevano all’attività creativa. Come avrebbe chiarito l’autore,

les dispositions d’esprit qui font qu’un homme se distingue des autres hommes par l’originalité de ses pensées et de ses conceptions, par son excentricité ou l’énergie de ses facultés affectives, par la transcendance de ses facultés intellectuelles, prennent leur source ce dans les mêmes conditions organiques que les divers troubles moraux dont la folie et l’idiotie sont l’expression la plus complète[38].

La latenza dei meccanismi che legavano la genialità al complesso multiverso della follia sarebbe stata uno dei sentieri maggiormente battuti dalla neonata antropologia criminale ed in particolare dal suo fondatore Cesare Lombroso. A partire dal suo Genio e follia del 1864, lo psichiatra veronese avrebbe così inaugurato una linea di ricerca destinata ad essere costantemente perfezionata in una continua elaborazione[39], ma soprattutto ad intrecciarsi con lo studio “organico” della devianza e dei suoi presupposti socio-biologici[40].

Secondo Lombroso, l’origine del genio andava rintracciata in una specifica ipertrofia della sensibilità. Più specificamente egli chiariva che

quanto più si procede nella scala morale, cresce la sensibilità, che è massima negli elevati ingegni, ed è fonte delle loro sventure e dei loro trionfi; sentono ed avvertono più cose e più vivacemente, che non gli altri uomini e più tenacemente e più cose ricordano nella loro mente e combinano[41].

Non è questa la sede per l’esame della complessa e assai peculiare tassonomia dei caratteri del genio che Lombroso faceva discendere da tale premessa; ciò che occorre sottolineare, invece, è che nelle sue pagine la reciproca relazione tra genio e follia assumeva le forme di una vera e propria complicazione. Il genio, poiché manifestava con costante frequenza tendenze antisociali, finiva perciò per essere considerato alla stregua «una vera e propria psicosi degenerativa della famiglia delle follie morali»[42] che, in quanto tale, richiedeva di essere normalizzata.

Come è stato efficacemente messo in risalto

il “soggetto” lombrosiano in cui genio e follia si toccano senz’altro è il soggetto cartesiano rovesciato ed interpretato materialisticamente a partire dalla fisiologia e dalla corporeità, orizzonti oramai ritenuti insuperabili delle manifestazioni umane ritenute in precedenza “spirituali”. La questione della genialità del soggetto come della “sua” genialità rinvia ora direttamente alla questione del suo corpo senza che allo scienziato osservatore sia necessario ricorrere ad un ulteriore orizzonte di significatività

dal momento che «la riconduzione della genialità alla manifestazione corporea rinvia alla certezza della misurabilità dell’espressione geniale stessa»[43]. Ciò spiega, dunque, perché lo stesso Lombroso contrappuntasse costantemente il senso delle sue argomentazioni con una serie di esempi tratti dalle biografie di celebri geni del passato. Non si trattava, a ben vedere, solo di una concessione al gusto proprio del naturalismo per cogliere nell’arte le manifestazioni tipiche dell’atavismo e della degenerazione[44], ma una necessità del tutto funzionale al suo ragionamento, diretto ad affermare una relazione tra genio e follia a partire dai dati dell’esperienza e dalla neutralità propria dell’osservazione “scientifica”[45]. Ancora una volta il campionario offerto da Lombroso è assai ricco e suggestivo. Si va dalle (presunte) tare psicosomatiche destinate a trasmettersi anche ai discendenti di artisti famosi – «moltissimi uomini d’ingegno ebbero figliuoli o parenti epilettici, idioti o maniaci» –, alle (supposte) anomalie craniche riscontrabili per esempio in Byron, Foscolo o Donizetti in cui «il genio è accompagnato da anomalie nell’organo stesso che è fonte della sua gloria», oppure determinate da più banali infortuni – «Vico cadde da una scala altissima, nell’infanzia, e n’ebbe fratturato il parietale destro» –, fino alla sovrapposizione tra l’intuizione che porta alla scoperta scientifica con quel particolare stato di semicoscienza propria della condizione onirica:

Goëthe [sic] ripeteva, spesso, di essere una certa irritazione cerebrale necessaria ai poeti, e che molti dei suoi canti sono stati dettati da lui in uno stato simile al sonnambulismo […] Newton e Cardano sciolsero in sogno alcuni problemi di matematica […] Mozart confessava che le invenzioni musicali gli venivano involontarie, come vengono i sogni[46].

4. «Se esistono donne di genio»

La fitta galleria di personaggi celebri nel mondo dell’arte, della scienza e della letteratura evocati dalle pagine di Lombroso potrebbe continuare, tuttavia non muterebbe il senso della sua teoria. Quella della categoria del genio come un territorio nel quale «la percezione corretta e l’allucina­zione, la proibizione e la realizzazione del desiderio, l’adattamento completo al mondo e l’assoluta fuga da esso confluiscono e s’incrociano»[47]. Tuttavia, un dato sembra emergere anche da una lettura rapsodica e cursoria delle pagine dedicate ad illustrare gli esempi di personalità geniali: l’assoluta assenza di figure femminili. È opportuno, a tal proposito, rileggere una serie di passi assai significativi: «Gli è che la donna come la femmina in tutti i vertebrati si mostra inferiore per mezzi ed intelligenza al maschio»[48]. In effetti, egli proseguiva:

il fatto che nelle donne la sensibilità tattile, dolorifica, generale e nei sensi specifici è inferiore al maschio giova spiegarci perché non possano essere né grandi artiste, né grandi poetesse poiché si dipinge bene e si scrive genialmente quando si sente molto. L’arte è un sublime atto riflesso a cui occorre il massimo dell’eccitamento[49].

La citazione poc’anzi menzionata è tratta dall’edizione del 1894 nella quale il suo lavoro su Genio e Follia, giunto ormai alla sesta edizione ed ampiamente rimaneggiato e arricchito (non solo da nuovi dati, ma anche dall’esigenza di rispondere alle controdeduzioni sollevate da più parti che sembravano smentirne gli assunti portanti), veniva edito con il titolo di L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica. Si tratta di un dato tutt’altro che anodino per ricostruire gli sviluppi del pensiero lombrosiano, dal momento che pochi mesi prima dell’edizione in parola lo psichiatra veronese aveva dato alle stampe in collaborazione con il genero Guglielmo Ferrero un testo destinato ad una grandissima notorietà e che influenzò profondamente i successivi tornanti del dibattito sulla devianza femminile: La donna delinquente, la prostituta e la donna normale[50].

Tra i numerosi sentieri argomentativi che s’incrociavano nell’opera relativa alla delinquenza femminile, uno di essi costituisce un aspetto assai rilevante per il discorso che interessa in questa sede. La donna “normale”, sosteneva Lombroso, costituiva il prodotto di un processo evolutivo incompleto, poiché essa

ha molti caratteri che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo e quindi al criminale (irosità, vendetta, gelosia, vanità), e altri diametralmente opposti che neutralizzano i primi ma che le impediscono nella sua condotta quanto l’uomo di raggiungere quell’equilibrio di diritti e doveri, egoismo e altruismo, che è il termine dell’evoluzione morale[51].

Questi assunti offrivano a Lombroso il destro per trattare una questione che da sempre aveva costituito uno dei cardini sul quale veniva edificato ogni discorso relativo alla presunta “natura” femminile, ovvero la sua maggiore sensibilità rispetto all’uomo. A ben vedere, precisava Lombroso, tale considerazione nasceva dall’errata identificazione della sensibilità con l’emotività, propria del sesso femminile. In realtà, egli precisava, i dati biometrici confermavano in maniera “inoppugnabile” che la sensibilità femminile non era affatto superiore a quella maschile, ma che all’opposto la donna “normale” era caratterizzata da una maggiore «ottusità» rispetto all’uomo, testimoniata, a suo dire, dalla minore sensibilità al dolore, dalla limitatezza dei cinque sensi, nonché dallo scarso o assente desiderio sessuale[52].

In tal senso, dunque, la conclusione non poteva che essere obbligata. La donna “normale” non solo era meno sensibile, ma aveva anche raggiunto un livello di sviluppo intellettivo inferiore a quello dell’uomo. Ciò, in definitiva, finiva per confermare lo scarso numero di donne al quale era ascrivibile l’attributo della genialità, ed anche il perché, nei pochi e sporadici casi nei quali tale elemento si era manifestato nel sesso femminile, ciò fosse dovuto alla preponderanza dei caratteri maschili presenti nella loro conformazione psicofisica, tali da rendere la donna di genio poco più che un «maschio mancato»[53].

A tirare le fila del discorso ci avrebbe pensato Giuseppe Sergi, medico antropologo, già autore nel 1889 delle Degenerazioni umane, che nello stesso 1893 aveva trattato diffusamente l’argomento in un articolo dal titolo assai significativo: Se esistono donne di genio. La risposta negativa al quesito era netta e non ammetteva esitazioni:

Morfologicamente e funzionalmente la donna non raggiunge lo sviluppo normale maschile, ma in media resta indietro come vi sia un arresto generale di sviluppo. Quindi, le forme infantili e l’infantilità come stato delle funzioni sono le manifestazioni più comuni del sesso femminile che ricordano l’uomo che non abbia raggiunto lo stato adulto.

Eppure, come precisava Sergi, l’esperienza sembrava deporre diversamente. «Non si può mettere in dubbio» proseguiva «che vi siano donne molto elevate in intelligenza, in energia, in produzioni letterarie ed in arti belle», tuttavia «tali donne, per quanto superiori nei caratteri mentali, non sono geniali mai»[54].

Ancora una volta il discorso “scientifico” si assumeva il compito di smentire il carattere fallace del senso comune. Secondo Sergi, Lombroso aveva potuto

mostrare un fatto caratteristico nelle donne dette di genio, cioè la presenza di caratteri maschili, specialmente nella fisonomia, nella voce, negli atti, anomalie, cioè, che dichiarano una volta di più che la superiorità dei caratteri nella donna è di tipo maschile[55].

Del resto, concludeva, al di là degli studi compiuti da Galton[56], che confermavano univocamente come «le donne che hanno una cultura superiore siano senza attrattiva per gli uomini, riservate e strane nelle maniere», egli stesso aveva potuto «seguire i fatti di qualche donna indipendente, scrittrice, viaggiatrice, ardita, ansiosa di attività», finendovi «per trovarvi l’eccentricità massima, l’irrequietezza, cioè una forma di energia senza scopo»[57].


5. L’ombra lunga dell’isteria femminile

Non è difficile scorgere al fondo dei discorsi relativi al “genio femminile” una serie di timori diffusi aperti dall’inarrestabile processo di modernizzazione che al tramonto del XIX secolo esprimeva con urgenza la necessità di affrontare i nodi dell’irrisolta questione femminile. In effetti, proprio per il loro carattere scientifico le teorie che facevano leva su una sorta di parallelismo tra struttura psicosomatica e comportamento sociale sembravano fornire solidissimi argomenti per combattere il movimento per l’emancipazione femminile, ma soprattutto per asseverare una “naturale” divisione di genere iscritta nel codice genetico della società[58].

Paolo Mantegazza, autore di una fortunatissima serie di opere dirette ad illustrare i meccanismi psichici e fisiologici dell’amore e dei sentimenti, aveva decretato che la donna era “biologicamente” predisposta per ospitare al suo interno un cuore più grande e da tale caratteristica ne aveva dedotto che, proprio grazie alla sua specifica conformazione, essa fosse in grado «di consumare nel silenzio e nell’oscurità i più sublimi sacrifici e a sopportare intrepida le torture morali di una vita di continue punture, senza sospirare e senza insuperbirsi»[59]. Meno dotata intellettualmente, ma anche più esposta all’impeto delle passioni; entrambe queste caratteristiche facevano della donna un essere fragile, bisognoso di protezione, inadatto a ricoprire un ruolo di responsabilità al di fuori delle pareti domestiche. Otto Weininger in Sesso e carattere si sarebbe spinto oltre manifestando il suo sdegno contro le donne che nutrivano un desiderio di maggiore uguaglianza nei rapporti sociali e politici. «Al giorno d’oggi» chiosava «non c’è la vera donna che domanda l’emancipazione, ma generalmente donne maschili che male interpretano la loro stessa natura, né comprendono i motivi del loro agire quando credono di parlare in nome della donna»[60].

Non è necessario indugiare oltre su questo frusto campionario di stereotipi. Piuttosto, puntando di nuovo il quadrante dell’analisi sullo scritto di Enrico Ferri, esso permette di comprendere il senso dell’interesse scientifico che la figura di Sarah Bernhardt aveva destato nel giurista lombardo. La donna descritta dalle trattazioni mediche del tempo appariva come un essere istintuale, fragile, incapace di autodeterminazione. Un soggetto che proprio in relazione alla sua “minorazione” era oggetto dei dispositivi di controllo del discorso medico[61] e di quello giuridico[62]. Invece Sarah Bernhardt si presentava esattamente agli antipodi di questo immaginario. Incarnazione della new woman capace di determinare in maniera libera ed indipendente il proprio comportamento relazionale, appariva come una figura fuori dagli schemi, in grado di rasentare il territorio della genialità perché irriducibile alle categorie proprie della femminilità delineata dai saperi “scientifici”[63]. Una personalità, andrebbe aggiunto, che proprio perché impossibile da classificare nelle tradizionali classificazioni del senso sociale sembrava manifestare più di un’affinità con il territorio della devianza.

Si tratta, a ben vedere, di una storia già raccontata. A venire in rilievo è quel processo descritto in pagine memorabili da Michel Foucault nel quale tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo la sessualità diveniva allo stesso tempo il vettore simbolico e la posta in gioco di una trama di discorsi centrali per l’edificazione dell’egemonia della classe borghese in travolgente ascesa. In particolare, il binomio sapere-potere, fissando un rigido confine tra ciò che è all’interno della “norma” e ciò che è fuori, generava anche la categoria dell’anormalità nella quale iscrivere tutti coloro che assumevano un comportamento non “normato” perché non assimilabile alla griglia delle tipizzazioni e delle convenzioni sociali, un comportamento in ultima analisi sintomo di devianza e disfunzionalità, e come tale passibile di studio, analisi e stigmatizzazione[64].

Ciò che in questo contributo occorre rimarcare è, in modo specifico, la modalità con la quale Ferri ricostruiva i tratti della personalità di Sarah Bernhardt, una lettura che assimilava gli strumenti forgiati per descrivere ed analizzare i ritratti di quel variegato mondo abitato da fantasmi che minacciavano la pace e l’operosità della quiete borghese e che sembrava ricalcare in maniera precisa proprio quella fitta galleria di outsiders che popolavano le opere della scuola positiva[65]. La scienza penale vagheggiata dai positivisti era in primo luogo strumento irrinunciabile di difesa sociale, beninteso non contro il fatto-reato, ma contro l’autore (attuale o potenziale) di un delitto; per questo i criteri assiologici e misuratori della difesa non potevano prescindere dalla produzione di tipologie di soggetti pericolosi[66]. In questa operazione di infinita produzione di categorie per l’esame della personalità della Bernhardt, Ferri ricorreva allo strumento dell’analisi del temperamento inteso come «personalità bio-psichica che vive e agisce in un determinato ambiente fisico e sociale»[67], capace di saldarsi nella sua costruzione concettuale alla stessa nozione di delitto: «Un fenomeno di patologia individuale o sociale, effetto concomitante di tre ordini di fattori antropologici, fisici e sociali, che ne costituiscono la genesi naturale»[68].

Non rappresenta un caso che il primo carattere che Ferri proponeva all’attenzione del lettore fosse rappresentato proprio dalla specifica conformazione «organica» dell’attrice francese. Tale fisionomia nella Bernhardt assumeva le fattezze «de grands yeux, un teint pâle, une taille souple et élancée, des mouvements rapides et secs, ou bien flexueux, comme chez les félins»[69]. Un ritratto che corrispondeva in pieno alla fisionomia tipica del temperamento “nervoso” o “neuretico” descritto da Lombroso e dettato da un fisiologico principio di compensazione giacché, ad avviso di quest’ultimo, «la legge di dinamismo e di proporzione, che tanto sovraneggia anche nel sistema nervoso» comporta che

ad un eccessivo consumo o sviluppo di forze succede un’eccessiva reazione, e rilascio delle forze medesime, per cui niuno dei poveri mortali può consumare una certa quantità di forze, senza pagarne, in altro modo, e duramente, lo scotto[70].

Per Ferri, la magrezza accentuata, la corporatura nevratile della Bernhardt rappresentavano una «predominance des lignes droites» a sua volta dettata dalla circostanza che «l’art exige une dépense exceptionnelle d’activité nerveuse» facendo sì che nella

femme artiste ce tempérament nerveux qui accompagne le type nerveux offre des traits plus marquants chez les hommes, et qu’il atteigne chez elles les limites extrêmes de nervosisme et même de la névrose[71].

Un insieme di caratteri specifici, dunque, che nella donna sembravano deporre nel senso di una specifica correlazione tra l’attività artistica e l’alterazione nervosa a causa, precisava Ferri, «des liens indéniables qui existent entre le génie et la dégénérescence plus ou moins pathologique»[72].

Ma, più in profondità, il discorso del giurista mantovano provava ad istillare un’altra specifica immagine evocata dal corpo dell’attrice. Si trattava di un’associazione larvata che sembrava accreditare una sorta di sovrapposizione tra il temperamento dell’artista, la sua presenza sulla scena e la patologia femminile par excellence, ovvero l’isteria[73]. In effetti, proprio per la capacità di interpretare una pluralità di ruoli, l’attrice veniva percepita come una personalità borderline incapace di distinguere tra realtà e finzione, di sedurre amplificando al massimo le caratteristiche tipicamente femminili della finzione, dell’ambiguità e della mistificazione. Ed in effetti, gli esempi tratti dalla letteratura medica non mancavano: in primo luogo, la definizione del disturbo isterico a partire dal modello “degenerativo” inaugurato da Morel[74] (non a caso citato con approvazione da Ferri) e fatto proprio in Italia da Lombroso[75] e da Leonardo Bianchi[76], ovvero la donna isterica era tale perché possedeva un particolare tipo di personalità: portata alla simulazione, all’enfatizzazione, alla dimostratività; il sintomo esprimeva una sorta di “menzogna” somatica a sua volta favorito da una degenerazione familiare[77].

Non solo, perché proprio sul finire del XIX secolo i tradizionali studi sull’isteria femminile avevano conosciuto la svolta impressa da Jean-Martin Charcot, direttore del reparto riservato alle pazienti isteriche ed epilettiche dell’ospedale parigino di Salpêtrière che aveva descritto la varietà di sintomi presenti nell’attacco isterico come prodotto di un corpo altamente suggestionabile, incline ad un’imitazione irrefrenabile ed un’azio­ne cinetica incontrollata. Legata alla tesi dell’origine non nosograficamente situata dell’isteria, la pratica clinica di Charcot assunse ben presto una notorietà tale da debordare dal perimetro dei discorsi scientifici ed acquisire una grande diffusione anche tra il pubblico dei non specialisti[78].

Intraprendente promotore dei suoi studi, Charcot non solo si affidò ad esperti fotografi per documentare il suo lavoro (frutto di questa collaborazione tra clinica ed arti visuali fu la pubblicazione tra il 1876 e il 1918 dell’Iconographie photographique de la Salpêtrière, un imponente atlante fotografico dell’isteria femminile)[79], ma soprattutto avrebbe accresciuto la sua fama con la celebre Leçons du Mardi à la Salpêtrière nella quale lo “spettacolo” di un attacco isterico veniva rappresentato di fronte ad una folla di medici, cronisti o semplici curiosi. In effetti, non è un caso che la critica storica abbia costantemente sottolineato il carattere performativo e teatrale delle lezioni tenute da Charcot alla clinica Salpêtrière[80]. Convinto sostenitore dei benefici diagnostici e terapeutici indotti dall’ipnosi, Charcot induceva nelle sue pazienti un attacco isterico che sembrava ripetersi secondo una trama prefissata, ben presto codificata nella letteratura scientifica e divulgata attraverso le testimonianze fotografiche. Dopo una fase prodromica, il corpo dell’isterica attraversava diverse fasi, precisamente épileptoïde, clownisme, attitudes passionnelles, délire, destinate a svolgersi sotto l’occhio attento del regista Charcot che ne spiegava i tratti e ne illustrava le manifestazioni più significative[81].

Certamente, non mancavano dubbi sull’autenticità e sull’attendibilità degli attacchi isterici messi in scena da Charcot, cionondimeno fu proprio la natura spettacolarizzata che assumeva nelle sue lezioni la patologia femminile ad incrementare la sua fama, così come quella delle donne protagoniste delle messe in scena alla clinica Salpêtrière[82]. Indipendentemente dalla complicità indubbiamente presente nel rapporto tra medico e paziente e dalla sospetta tempestività per la quale veniva inscenata ad uso e consumo del pubblico la performance di un accesso mentale, non vi è dubbio che le isteriche della Salpêtrière raggiunsero ben presto una grande fama perché capaci di esprimere attraverso il loro corpo, plasticamente destinato alla rappresentazione della malattia, una zona di confine tra realtà e finzione, una frontiera nella quale s’identificava fino quasi a confondersi la manipolabilità del corpo femminile ad opera del sapere medico con l’espressione libera ed incontrollata della propria “essenza corporea” dettata da un attacco isterico[83]. Così, ad esempio, Augustine ricoverata a quindici anni, Blanche Wittman conosciuta come la regina delle isteriche, o ancora Jean Avril – musa di Toulouse-Lautrec – divenuta dopo le sue dimissioni una delle più celebri vedettes del Moulin Rouge con il nome d’arte di Jane la Folle[84].

All’interno di questo perimetro, è possibile dunque esaminare il significato di questo richiamo intertestuale presente nel contributo di Enrico Ferri. Accreditare una omologia tra teatro e rappresentazione dell’isteria femminile non solo finiva per toccare una corda presente nell’immagina­rio dei suoi lettori, ma soprattutto forniva una traccia per decodificare il carattere indecifrato della recitazione di Sarah Bernhardt. Si trattava di un modello di difficile assimilazione perché, come è stato evidenziato, «sempre in tensione rispetto ad un centro (un’anima, una maschera) di per sé mobile ed eccessiva sia come personaggio recitante che nella vita, così come sempre all’insegna dell’eccesso risultavano le sue performances». In fondo, era proprio in questa tensione difficilmente definibile, ma costantemente presente, che risiedeva la sua carica di trasgressione: «in una distanza dalla “norma” che le avvicinava sensibilmente alla sfera dell’ar­te e della sessualità “incerta” e all’“eccentricità” delle attrici charcottiane»[85].


6. Nevrosi urbane

Ancora una volta, la lezione di Michel Foucault rappresenta un punto di riferimento centrale per esaminare le dinamiche che emergono dal com­plesso insieme di suggestioni evocate nelle pagine del discorso scientifico. A ben vedere, la celebrità assunta dal metodo di Charcot e dalle sue attrici costituisce una riprova della tesi avanzata dall’intellettuale fran­cese che legge nelle isteriche le prime vere militanti dell’antipsichiatria, capaci di sfuggire da una classificazione della propria follia come perdita di capacità e come impoverimento della mente. Donne che lottavano contro l’esasperante normatività della psichiatria proprio attraverso l’amplificazione del corteo dei sintomi ed esibendo con magnificenza lo spettacolo della loro malattia[86].

Eppure, la suggestiva assimilazione dell’attrice all’isterica non rappre­sentava l’unico sentiero argomentativo presente nel contributo di Enrico Ferri, volto ad illustrare i caratteri e la fisionomia di Sarah Bernhardt. In effetti, dopo essersi soffermato sul suo temperamento e sulla sua corporatura, il giurista lombardo passava ad esaminare un altro tratto specifico che faceva dell’attrice un singolare oggetto di studio: l’incidenza dei fattori sociali sulla sua personalità. Attraverso un singolare amplia­mento di prospettiva, Ferri riconduceva la fisionomia nervosa della Bernhardt ad una “malattia” del proprio tempo nella quale giocavano un ruolo determinante gli effetti indotti dal processo di urbanizzazione delle grandi metropoli europee. È opportuno cedere la parola a Ferri che, a proposito del temperamento neuretico riscontrato nella Bernhardt, commentava:

Ce type anthropologique, on le rencontre communément dans les grands centres de population, dans les villes où la vie à toute vapeur impose au système nerveux un travail continu, exagéré, conduisant fatalement au surmenage, au nervosisme, à la névrose[87].

Da questo punto di vista, dunque, l’analisi di Ferri segnava un passag­gio dall’isteria come malattia individuale all’isteria come malattia sociale. Al centro della sua disamina volta ad indagare i fondamenti sociali della personalità della Bernhardt, vi era lo spazio urbano come fonte di degene­razione morale e psichica[88]. Tale ricostruzione prendeva le mosse dal ca­rattere caotico dei grandi agglomerati urbani sul finire del XIX secolo, che rendevano il contatto con la massa un’esperienza onnipervasiva e totalizzante, capace di segnare nel profondo le percezioni della realtà. Come avrebbe scritto José Ortega y Gasset in un testo assai celebre, al limitare del nuovo secolo la vita cittadina proiettava i suoi abitanti in una dimensione nella quale emergeva costantemente la sensazione dell’«agglomerazione, del pieno». «Le città sono piene di gente», scriveva,

le case, piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni, pieni di viaggiatori. I caffè, pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici più noti, piene di ammalati. Gli spettacoli, appena non siano particolarmente estemporanei, pieni di spettatori […]. Quello che prima non costituiva un problema, incomincia ad esserlo in ogni momento: trovar posto[89].

Si tratta di parole assai note, che tuttavia sembrano esprimere con chiarezza lo spostamento dell’asse della percezione dell’esperienza urbana come fenomeno capace di modificare la stessa autocoscienza della popolazione. Allo stesso tempo, però, l’identificazione della proprietà della massa come un fenomeno impenetrabile, che muta la fisionomia dei rapporti tra individui, sembrava anche saldarsi con un altro dei tropi discorsivi mag­giormente battuti dalle nuove correnti di ispirazione positivistica della penalistica italiana: il potere di suggestione della folla, l’identificazione della città come regno del disordine, dell’indisciplina, della pericolosità.

Si pensi, ad esempio, ad un’opera come quella di Scipio Sighele (edita per la prima volta nel 1891 con il titolo suggestivo La folla delinquente)[90]. Questi, nella definizione della relazione tra incube-succube, che si realiz­zava nella polarità folla-individuo, aveva tratto numerosi riferimenti dagli studi di Morselli sul soggetto ipnotizzato – significativamente con­notato come un artista drammatico che intende rappresentare diverse parti in commedia o in tragedia[91] – nonché dagli esperimenti d’ipnosi col­lettiva messi in atto a Torino da Alfred D’Hont, al secolo Donato. Come autorevolmente affermato, è possibile ricondurre l’insieme di queste rap­presentazioni a quel particolare interesse, diffuso tra Ottocento e Nove­cento, verso i processi di «eterodirezione» dei comportamenti a favore della perdita di controllo sugli spazi urbani in cui sempre maggiori fasce di popolazione venivano inserite[92].

Del pari, il tema della suggestione esercitata dalla città era presente nella Psychologie des foules di Gustave Le Bon (1895), ma prima ancora aveva segnato profondamente l’opera di un autore capace di influenzare sensibilmente gli indirizzi del positivismo italiano, come Gabriel Tarde[93], in particolare attraverso il concetto di imitazione[94]. In sede critica è stato notato come «la sociologia criminale di Tarde sia attraversata, quasi ossessionata, da una netta dicotomia mondo della città e della campagna, homme de la ville e paysan» poiché è nelle grandi città come Parigi che «il crimine […] si trasforma in professione, e, in un certo senso, si raffina: alla violenza vendicativa e brutale, tipica del delitto rurale, si sostituisce una violenza cupida e voluttuosa»[95].

D’altra parte, la Parigi nella quale si formò ed operò Gabriel Tarde era anche il contesto scientifico e professionale nel quale lo studio della criminalità sembrava assimilare strumenti nuovi e inesplorati che si sarebbero rivelati centrali perché basati sullo studio della dissociazione della personalità dei soggetti. Un esempio per tutti: Alfred Binet, già collaboratore di Charcot alla Salpêtrière, autore di studi sulle personalità multiple, che si avvalse per le sue ricerche di una ricca casistica desunta dall’attività teatrale, arrivando ad affermare che tra il comportamento dell’isterica, debitamente attivata sotto suggestione ipnotica, e l’attrice che recita totalmente immersa nella sua caratterizzazione del suo perso­naggio vi fosse una differenza assai sottile e difficile da individuare con nettezza[96]. Si trattava, è opportuno sottolinearlo, di considerazioni di importanza esiziale per giuristi e medici di fronte alle connessioni che l’antropologia sociale e la psico-patologia andavano scoprendo in quegli anni scrutando i legami che tenevano insieme «fisico e morale, giudizi e sensazioni, coordinazione (e alterazione) di movimenti e d’idee». Come è stato messo in evidenza, utilizzando un lessico tratto proprio dall’opera di Binet, «per la prima volta venivano studiati i rapporti tra l’ “io normale” alla ribalta sul proscenio e l’ “io oscuro” dissimulato dietro le quinte» segnando un tema d’indagine che si collocava «all’immediata preistoria della psicanalisi» dal momento che «Freud darà un senso alla ricerca, organizzerà il materiale, fornirà un vocabolario adeguato, ma lo spazio ermeneutico è già delimitato»[97].


7. Maternità, “dismaternità” e prognatismo femminile

Naturalmente, è opportuno misurare il senso delle osservazioni riportate nel precedente paragrafo dal momento che il riferimento a tematiche che assumeranno per la cultura scientifica i tratti di una svolta epocale a quel tempo era appena percepibile sullo sfondo[98]. Indipendentemente dalla polemica che lo avrebbe opposto a Tarde – accusato di eclettismo[99] – Ferri rimaneva ancorato allo studio e ai tradizionali strumenti d’indagine della sua disciplina perché orientato a leggere i segni della nevrosi impo­sta dalla massificazione della vita urbana con le lenti tradizionali che finivano per esprimere i timori della classe borghese prodotti dalla moder­nizzazione socio-economica incontrollata, dalla pauperizzazione diffusa e capillare, dalla proliferazione di classes dangereuses[100].

Il riferimento a tematiche consolidate sembra confermato anche dall’esame del terzo elemento sul quale Ferri costruiva l’analisi della per­sonalità di Sarah Bernhardt, nel quale il giurista lombardo, esaminando i tratti somatici e frenologici dell’attrice francese, sviluppava una serie di spunti argomentativi ampiamente presenti nel campo disciplinare votato all’analisi della devianza femminile.

In una sua recensione seguita all’edizione del 1893 de La donna crimi­nale, la prostituta e la donna normale, da lui definita un «avvenimento scientifico»[101], Ferri aveva provato ad individuare un elemento capace di collegare l’insieme (in verità in più punti farraginoso e contraddittorio) di dati, tabelle e congetture analizzati e commentati da Lombroso e Ferrero. A suo avviso, l’elemento che sembrava fare da sfondo al tema della crimi­nalità femminile doveva essere individuato nella “dismaternità”, ovvero la scarsa propensione della donna per ciò a cui essa era biologicamente “predisposta”: l’essere madre. Non rappresentava un caso, ad esempio, che nell’analisi di Lombroso la prostituta-nata presentasse una perfetta sovrapponibilità con il tipo-criminale: «la stessa mancanza di senso mora­le, la stessa durezza di cuore in entrambi, lo stesso gusto precoce per il male»[102]. Tali caratteri recessivi nella prostituta finivano per rivelarsi in modo palese proprio nella mancanza di senso del pudore e in una sessuali­tà del tutto avulsa dalla “naturale” missione della maternità e dalle cure di famiglia. Secondo Ferri, l’analisi di Lombroso confermava come la maternità, attraendo gran parte delle energie individuali della donna, modificandone «tirannicamente tutta l’esistenza organica e psichica», do­veva essere considerata il centro d’attrazione in relazione al quale si svi­luppava la sua intera vita sociale. Tuttavia, se nella donna “normale” – che orienta la sua esistenza alla cura coniugale e all’intimità domestica – l’elemento biologico-evolutivo si accordava perfettamente con il suo ruolo all’interno della società, nelle ipotesi di devianza femminile tale coinci­denza si verificava in maniera imperfetta o non si verificava affatto, sot­traendo la donna alla sua vocazione di madre[103].

Al di là dei riconoscimenti tributi da Lombroso, le considerazioni di Ferri sulla maternità, che da lì in poi si avviarono a diventare un «tropo obbligato della minorità femminile»[104] in ambito giuridico, non rappre­sentavano affatto una novità perché attingevano ad una serie di discorsi largamente circolanti nei dibattiti medico-scientifici dell’epoca[105]. Emble­matica in tal senso, l’opera dello psichiatra tedesco Richard Krafft-Ebing del 1886, Le psicopatie sessuali (tradotta in italiano per iniziativa di Lombroso), che fin dalla sua prefazione sottolineava come la (supposta) differenza tra uomo e donna relativa al desiderio sessuale risiedesse in una combinazione di fattori biologici e sociali, essenziale per la stessa conser­vazione della società. «L’uomo» scriveva Krafft-Ebing

[…] ama sensualmente, la sua scelta è determinata da doti fisiche e seguendo l’imperioso suo istinto è aggressivo e impetuoso nella conquista dell’amore […]. Altramente si comporta la donna. Se ha intelligenza normale e buona educazione, il suo desiderio sessuale è languido. Se così non fosse il mondo intero diventerebbe un bordello, e matrimonio e famiglia sarebbero inconcepibili[106].

Ma, a prescindere della questione (per la verità assai dibattuta) tra psi­chiatri ed antropologi circa il minor desiderio femminile, il tema sul quale si manifestava una assoluta convergenza risiedeva nell’assoluta funziona­lizzazione del corpo sessuato femminile al ruolo di madre. Emblematica, ancora, la testimonianza di Paolo Mantegazza:

La donna è madre, e intorno a questo nocciolo o a questo scheletro biologico si raggruppano tutte le sue energie, quasi tutte le sue virtù, quasi tutte le sue debolezze. La donna è tutta imbevuta di maternità, e anche quando è sterile, anche quando muore vergine, tiene in sé latenti tesori di affetto […]. Tutte le altre differenze psichiche della donna, le buone come le cattive, si raggruppano intorno a questa fondamentale missione della maternità e quando le manca è sempre una creatura incom­pleta e anormale[107].

A ben vedere, l’estremizzazione di tali premesse permetteva una facile sponda a chi come lo psichiatra e neurologo tedesco Moebius si sarebbe scagliato, lancia in resta, contro le pretese emancipatorie femminili con (sedicenti) argomentazioni di natura scientifica. A suo dire, il minore svi­luppo del cervello femminile costituiva una connotazione necessaria per la preservazione della società. Una «soverchia attività mentale», egli pro­seguiva, non avrebbe fatto altro che distogliere la donna dalla sua natu­rale missione biologica, ovvero la maternità. Per questo motivo, Moebius, stigmatizzava con accenti critici non solo la donna che, incanalando il proprio desiderio fuori dalla procreazione, «veniva meno al suo obbligo verso la specie», ma anche l’istruzione femminile, quest’ultima colpevole, secondo la sua argomentazione, di sviare le donne dalla loro missione ma­terna e di essere la causa di un preoccupante calo demografico. Non vi è dubbio, questi concludeva, che il femminismo e il diffondersi di una men­talità femminile modern style che ricercava nel campo giuridico una serie di libertà “innaturali”, fossero alla base di quelle particolari forme di de­generazione nervose così diffuse ai suoi tempi[108].

Certamente l’orizzonte di lettura nel quale s’iscrivevano le considerazioni di Ferri a proposito di Sarah Bernhardt era lontano dal dogmatismo unilineare e dalla misoginia straripante dell’opera di Moebius. Cionondimeno, Ferri sembrava condividerne una traccia di fondo: l’esigenza di iscrivere nell’orizzonte della normatività il corpo femminile per incanalarlo nell’unica funzione “necessaria” e compatibile con la sua funzione sociale: l’essere madre. Tale esigenza si traduceva in una necessità di incasellare “scientificamente” non solo le caratteristiche tipiche della “normalità” femminile, ma anche le prerogative ed i limiti dei corpi maschili e femminili, assegnando a ciascuno il proprio posto in società[109]. Non è senza significato che lo stesso Ferri, in una sua successiva conferenza dal titolo suggestivo La donna normale, la donna artista, la donna delinquente, classificasse proprio la donna artista come «una varietà antropologica a sé stante»[110], collocata in una zona di confine tra i due poli destinati a segnare la normalità e l’anormalità dell’esistenza femminile.

Certo, l’attrice, pericolosamente esposta allo sguardo ed al desiderio degli spettatori, sembrava suggerire una specifica assimilazione con la “donna pubblica”, lontana dall’istinto della maternità «nel senso più nobile della sua missione naturale»[111]. Tuttavia, posto di fronte alla personalità di Sarah Bernhardt, il discorso di Ferri prendeva una strada inaspettata ed impegnava l’autore ad inerpicarsi in un tortuoso itinerario argomentativo.

Tale itinerario prendeva le mosse dalla specifica conformazione del viso della Bernhardt, caratterizzata dalla presenza di una “mascella falciforme”. Proprio questo specifico aspetto del viso accumunava la Bernhardt a tante «femmes artistes très connues» a cominciare dalla “divina” Eleonora Duse. Attraverso una minuziosa comparazione biometrica (corredata, tra l’altro, da grafici e tabelle) Ferri sottolineava la «ressemblance de ligne et d’expression» tra le donne di spettacolo, e tale circostanza lo portava a concludere che «la mâchoire falciforme» costituisse «le détail précis et symptomatique spécial à la physionomie nerveuse chez les femmes artistes»[112].

Rifacendosi ad una serie di osservazioni da lui già compiute nel suo studio sull’omicidio, Ferri ricordava come l’originaria funzione biologica della mascella, quella di strumento di nutrizione e di attacco, nel progresso evolutivo avesse profondamente modificato la sua natura, come era comprovato dallo sviluppo dei singoli individui nei quali si registrava un «antagonisme entre le développement du cerveau – en partant de la boîte crânienne – et celui de la mâchoire». Così, egli proseguiva, nell’osservazio­ne dell’uomo «très intelligent» era possibile riscontrare una mascella meno pronunciata, “inequivocabile” segno evolutivo di grande profondità di pensiero, ma anche debolezza fisica e asservimento «dans la mêlée sociale». Per contro, una mascella sviluppata come estensione costituiva l’espressione «d’une puissante activité individuelle contrastant avec celle des autres individus d’un groupe collectif»[113].

Ferri non esitava ad individuare proprio nella «mâchoire en forme de faux» la vera e propria chiave per comprendere appieno i caratteri sfuggenti della donna-artista e ricondurla ad una spiegazione che fosse in linea con la naturale missione della donna in società. «Il faut se rappeler avant tout», scriveva,

que les deux pôles de la vie sont l’individu et l’espèce. La femme a une fonction prédominant dans la vie de l’espèce par son travail miraculeux de la maternité, qui explique tous ses caractères physiques. Elle ne peut, par conséquent, exceller dans la vie individuelle qu’en sacrifiant dans une certaine mesure la vie de l’espèce, et en faisant de celle-ci une moindre dépense que de celle-là.

Ed in effetti, proseguiva Ferri,

dans la société d’aujourd’hui et aussi dans celle du passé, il n’y a guère d’outre voie ouverte à l’activité individuelle de la femme que le talent artistique, au théâtre, dans la littérature, ou dans les beaux-arts proprement dits.

Ciò, dunque, chiariva il significato più profondo della “mascella falciforme” propria delle donne-artiste. Essa era

comme significatif anthropologique, le symptôme extérieur d’une puissante individualité s’éloignant très souvent de la vie de l’espèce, c’est-à-dire de la maternité. Et cette individualité s’exerce dans l’activité artistique parce qu’elle n’a pas d’autre domaine qui lui soit permis, parce qu’elle ne peut pas, par exemple, s’exercer dans l’activité militaire, parce que, si les femmes peuvent devenir de grandes tragédiennes, des grands peintres [...] des grandes musiciennes […], des écrivains célèbres […] elles ne peuvent prétendre à la gloire d’un Napoléon Ier, qui lui aussi, avait la forte mâchoire carrée[114].

Del resto, non è senza significato che lo stesso Ferri, allorquando provava a fornire esempi di donne destinate ad eccellere nel mondo artistico, insieme alla Bernhardt e dopo aver menzionato tra le altre, Clara Schumann per la musica e Rosa Bonheur per la pittura, si soffermasse in particolare su Ada Negri che, con le sue raccolte di poesie, aveva cantato non solo la massacrante realtà del lavoro salariato di braccianti ed operai, ma anche il senso di ribellione femminile di fronte ai preconcetti per i quali l’unica esistenza veramente degna per il sesso femminile fosse quella vocata al matrimonio ed ai figli. Certamente «la poétesse du peuple», impegnata allora in uno stretto sodalizio con Anna Kouliscioff e Filippo Turati, corrispondeva in pieno alla fisionomia nervosa «compris la mâchoire falciforme symptomatique» ed i suoi versi esprimevano un «talent si incontestablement génial»[115]. Eppure, ciò non gli impediva di chiosare al termine del suo contributo strizzando l’occhio al senso comune e ai pregiudizi radicati nella mentalità del suo tempo.

Qu’un critique théâtral me fasse voir les portraits de deux artistes célèbres, l’une ayant les traits de la physionomie symétrique, l’autre ceux de la physionomie nerveuse, je n’hésiterai pas un instant à donner la préférence à ce deuxième type anthropologique, si l’on me demande laquelle des deux l’emporte comme talent. Mais mon choix sera tout autre si, au lieu d’artistes, il s’agit de jeunes femmes à marier

«In tal caso», egli concludeva, «interrogez le miroir de l’âme et prenez pour femme celle qui a une physionomie moins troublant, plus régulière, moins nerveuse, plus maternelle»[116].


8. Conclusioni

Il contributo di Ferri offre il destro per una serie di considerazioni conclusive, dettate dalla necessità di leggere, al di là delle specifiche linee argomentative, il suo significato nei complessi dibattiti che sul finire dell’Ot­tocento s’intrecciavano sulla questione femminile.

Naturalmente, il riferimento al tema dell’anatomia e della differenza sessuale non fu affatto un prodotto originale dell’Ottocento. Tuttavia, proprio nel clima positivistico caratterizzato da una fiducia illimitata nella scienza cui faceva da contraltare un rigido conformismo morale, l’attenzione alle differenze sessuali acquisì un tratto marcatamente ideologico[117]. Avviato l’ormai inarrestabile processo di secolarizzazione delle mentalità individuali e collettive, alla scienza fu attribuito il compito di individuare forme e caratteri dei comportamenti sani e morali. La collaborazione tra medicina, antropologia e diritto risultò determinante non solo per avvalorare le tesi sessiste come predicato di scienza, ma anche per fornire una lettura ipostatizzata dell’esperienza femminile ovverosia fondata da caratteri rigidi e immutabili corrispondenti alla supposta natura delle funzioni femminili nella società[118]. Il complesso dei discorsi che, a partire da questi elementi, si occupavano dell’arte al femminile trovò nella riflessione sulla scena teatrale un terreno particolarmente fertile per mettere alla prova la natura essenzializzata della femminilità, dal momento che la teatralità della donna costituiva uno specifico riflesso di una conformazione naturalmente portata alla mutevolezza, alla fragilità emotiva, alla suggestionabilità. Non rappresenta un caso che lo psichiatra inglese Henry Havelock-Ellis, attentissimo lettore di Lombroso e Mantegazza, dedicasse proprio al teatro una specifica riflessione nel suo Men and Women, sottolineando come la recitazione delle donne fosse in realtà il portato di un riflesso istintuale dettato dalla loro “naturale” eccitabilità emotiva, dalla tendenza alla finzione, così come all’emulazione incondizionata[119].

È possibile auscultare il ritmo delle pulsazioni di questi stereotipi anche nelle pagine che Enrico Ferri dedicava al temperamento “neuretico” dell’artista. Un tentativo che, mirando ad unire la divulgazione con una lettura normativa della società, veniva certamente incontro al gusto dei lettori, affascinati – come intuì Gramsci a proposito delle teorie della scuola positiva – da «quel moralismo astratto, poiché il bene ed il male erano qualcosa di trascendente e dogmatico»[120] che coincideva con il senso comune.

A ben vedere, come avrebbe avuto modo di rimarcare Ferri, se «la donna porta nel delitto il suo carattere sociale e la sua condizione biologica influisce nella sua psicologia», era giocoforza da attendersi che la donna artista, in primo luogo l’attrice, presentasse una serie di caratteristiche dirette a lambire, se non proprio a sovrapporre, due degli elementi riscontrabili come «caratteri emergenti del delitto femminile»: la simulazione e la dissimulazione. Tali caratteristiche, ad avviso del giurista mantovano, «sono rese molto facili dall’autosuggestione alla quale si abbandona la donna. Essa inventa circostanze verosimili, ma non vere. Vi si affeziona in modo intenso e pervicace». Non solo, egli proseguiva, «il fenomeno naturalmente si acquisisce nei casi di nevrosi isteriche. L’isterismo, che è il camaleonte delle malattie nervose, ha per speciale carattere una speciale tendenza alla calunnia, alla maldicenza, alla falsità». Nondimeno, concludeva,

le nevrosi isteriche nelle donne delinquenti hanno determinato la creazione di “donne fatali” […] figura di donna fatalmente terribile, che ugualmente va seminando per forza magnetica il bene e il male, l’odio o l’amore, la gioia o l’infelicità[121].

Da questo punto di vista, dunque, la classificazione di Ferri metteva in rilievo una caratteristica specifica del processo di costruzione della marginalità propria della scienza giuridica[122]. La definizione della donna artista e dei suoi caratteri così diversi dai canoni della rispettabilità borghese riposava implicitamente sulla formulazione e sulla definizione dei princìpi che presiedevano alla “normalità” nelle relazioni tra i sessi. Tale processo, a sua volta, finiva per investire regole informali di comportamento, che tuttavia attraverso il complesso arsenale concettuale ricavato dalla medicina finivano per prospettarsi come necessarie per la conservazione e l’equilibrio del tessuto sociale. Così profondamente diversa dai consolidati tratti di una femminilità debole e remissiva, la donna di teatro incarnava i tratti di un modello incompatibile con gli ideali di decoro e di moderazione, matrice di una promiscuità difficilmente assimilabile al perbenismo borghese[123]. La costruzione tipologica della donna artista permetteva perciò in un significativo contrappunto di asseverare i caratteri della normalità femminile orientata sui tradizionali stereotipi di passività e debolezza[124]. Allo stesso tempo, le complesse istanze emancipatorie che affioravano dal modello della donna di spettacolo finivano per essere così normalizzate, offrendo al pubblico una ulteriore classificazione volta ad arricchire la collezione di tipi e sottotipi, categorie e sottocategorie utili per tranquillizzare una borghesia profondamente turbata e scossa nelle sue certezze di fronte ad un modello femminile così distante dai riferimenti tradizionali.

Si trattava, è il caso di aggiungere, di una costruzione che il giurista lombardo sviluppava da una tribuna internazionale, ma con lo sguardo significativamente rivolto al contesto italiano.

Come si è avuto modo di sottolineare, Sarah Bernhardt forniva una testimonianza emblematica della figura della new woman, orientata nello spazio pubblico e capace di determinare autonomamente le proprie scelte professionali, affettive, relazionali. Cionondimeno l’autointerpretazione di questo modello da parte del pubblico femminile in Italia tra Ottocento e Novecento seguiva una serie di sentieri del tutto peculiari rispetto agli omologhi modelli presenti in Europa e negli Stati Uniti. Come è stato evidenziato, nell’Italia liberale la presenza di una serie di elementi diretti ad ostacolare o quanto meno a rallentare la conversione della modernizzazione economica in una modernizzazione sociale (forte presenza della Chiesa Cattolica, esistenza di profondi cleavages territoriali, saldo radicamento dei tradizionali assetti patriarcali nelle relazioni familiari, minore incidenza dell’istruzione e dell’occupazione femminile) agì in modo assai incisivo sulla formazione dell’autocoscienza delle donne per la recezione e l’elaborazione di un nuovo modello di femminilità libera dai modelli ereditati dal passato[125].

In particolare, tale processo, oltre a generare le richieste volte a colmare le inveterate diseguaglianze sul piano economico e normativo (seguendo un modello comune a tutti i movimenti emancipazionisti), segnò anche una profonda riflessione avviata proprio dalle donne sul piano della vita privata facendo sì che in Italia l’immagine della new woman acquisisse una ulteriore caratterizzazione più intima, basata sulla consapevolezza della differenziazione di sensibilità ed affettività rispetto al mondo maschile[126]. Ciò, contribuisce a spiegare perché soprattutto in Italia un ruolo determinante per la formazione e l’autoelaborazione di una nuova femminilità fosse assunto da modelli esemplari tratti da storie di vita che intraprendevano strade diverse da quelle tradizionali. Tali testimonianze, più che dalla concreta esperienza lavorativa e professionale, venivano recepite dal pubblico femminile attraverso la cronaca giornalistica, la parola letteraria, ma anche e soprattutto il teatro[127].

Non va dimenticato che tra Ottocento e Novecento il teatro rappresentava una delle poche occasioni di svago “rispettabile” permesse alle donne della borghesia fuori dall’ambito domestico permettendo l’incontro e la conversazione con l’altro sesso. Al dì là degli strali dei moralisti che sottolineavano il carattere deteriore di tale promiscuità, così come gli effetti perversi suscitati da uno spettacolo teatrale su un corpo così fragile e suggestionabile come quello femminile, fu tuttavia la scena teatrale a costituire un importante vettore di socializzazione e di confronto, ma anche di conoscenza, raffronto ed elaborazione di nuovi modelli di femminilità per le spettatrici italiane. In effetti, fu proprio grazie all’incontro con storie di vita così lontane dalla quotidianità che le italiane impararono a costruire una nuova grammatica della femminilità e a immaginare nuovi modelli di relazione ed espressione del desiderio[128].

Per questi motivi, l’esempio “scandaloso” di Sarah Bernhardt e la riconduzione del temperamento artistico ad una forma di nevrosi rappresentavano per Ferri due tasselli argomentativi fondamentali per arginare una pericolosa forma d’identificazione, ribadendo alle donne italiane il confine che separava nettamente la finzione scenica e la vita privata. La figura iconica della diva incarnava in un certo senso una forma di fede secolarizzata, ispirata da un irriflesso ed irrazionale bisogno di immedesimazione da parte del pubblico femminile che proiettava sull’attrice il desiderio di una vita libera, intensa, diversa dal quotidiano[129]. Il teatro poteva agire da pericoloso detonatore di sentimenti difficilmente controllabili[130], mentre le passioni dovevano essere oggetto di saperi disciplinari atti a governare le esistenze femminili verso il loro destino biologico e socialmente condiviso: la maternità e la cura domestica[131].

Quasi superfluo sottolineare le profonde implicazioni politiche che si celavano dietro ad una tale argomentazione. Di fronte all’erompere della dimensione sociale nel discorso giuridico della fine dell’Ottocento, Ferri avrebbe intrapreso una strada che cercava di coniugare questione femminile e questione operaia, schierandosi apertamente a favore delle rivendicazioni delle donne in materia di lavoro[132].

Eppure proprio la sua posizione nascondeva una soggiacente ambiguità, perché il tema delle condizioni di lavoro non rappresentava né poteva rappresentare un elemento a sé stante, isolato dal complesso d’istanze presenti nell’invisibilità giuridica del femminile, dal momento che esso costituiva solo un aspetto di un problema più ampio relativo al tema della cittadinanza e della soggettività delle donne[133]. A ben vedere, al di là delle numerose manifestazioni simpatetiche verso la condizione femminile, il discorso di Ferri finiva per asseverare il “naturale” rapporto gerarchico tra i sessi affidando all’uomo la sfera pubblica e quella produttiva, lasciando alla donna il governo della casa e dell’educazione. Da questo punto di vista, la stretta relazione esistente tra differenza sessuale ed ordine sociale risultava un argomento decisivo per respingere qualsiasi argomento a favore di una maggiore libertà sul piano dei diritti civili e politici per il sesso femminile[134]. Non solo, la stessa esaltazione della maternità che ricorreva più volte nelle pagine del giurista lombardo si avvitava su una contraddizione difficilmente superabile. Essa, se da un lato permetteva alla donna di rivendicare una imprescindibile funzione sociale e con essa il diritto al rispetto maschile, dall’altro finiva per riverberarsi in senso deteriore sulle sue capacità, escludendo dal novero della “normalità” ogni attività che non fosse legata al ruolo materno[135].

I caratteri profondi di questa dissociazione avrebbero continuato ad alimentare i dibattiti sulla questione femminile; eppure, indipendentemente dai tentativi di medicalizzazione del desiderio nonché dall’esigenza di fissare i tratti di una pretesa normalità attraverso l’irrefutabile strumentario della scienza, il teatro avrebbe continuato a nutrire la coscienza e la sensibilità delle donne italiane per affermare nuovi modelli di affettività e di autorealizzazione, contribuendo per questa via alla costruzione della complessa, e per molti aspetti irrisolta, modernizzazione dell’Italia liberale.


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NOTE

[1] Tra i numerosi contributi volti ad illustrare il ruolo del movimento femminista nell’analisi critica dei paradigmi tradizionali della psichiatria, ci si limita a segnalare, da ultimi: Pitts/Kawahar (2018); Richert (2020); Maitra/Mc Weeny (2022).

[2] «Libertà di comunicazione, tendenza a distruggere il rapporto autoritario e la rigida gerarchizzazione dei ruoli, eliminazione del carattere oppressivo-punitivo dell’istituzio­ne: questi possono ritenersi i punti fermi nell’azione di smascheramento delle strutture manicomiali», Basaglia/Ongaro Basaglia (2008), p. 11. Per un’analisi delle principali istanze del movimento di Psichiatria democratica in Italia: Basaglia (1968); Basaglia (1973); Basaglia/Ongaro Basaglia (1975); Basaglia/Tranchina (1979). Per l’esame critico e la discussione del contesto socio-politico che avrebbe portato l’approvazione della legge del 13 marzo 1978 n. 180: Crainz (2003); Babini (2009); Foot (2016), pp. 56-59.

[3] Giannichedda (1982) nonché Valeriano (2022).

[4] Ongaro Basaglia (1977), pp. XI-XII. Il tema sarebbe stato ripreso dall’autrice anche nella sua prefazione al libro inchiesta di Morandini (1977).

[5] Chesler (1977), p. 17. Sul punto, diffusamente, Forgacs (2014), pp. 260-265.

[6] Migliorino (2008); Colao (2011). Nel panorama storiografico non mancano i contributi che hanno esaminato i processi di manicomializzazione femminile, ricostruendo con dovizia di particolari la trama di esistenze in cui l’etichetta della follia avrebbe rappresentato il marchio per contrassegnare condotte di vita non improntate al rigido conformismo imposto dalla comune morale sessuale e familiare. Tra i diversi lavori, oltre all’analisi di De Bernardi (1982); Scartabellati (2001); Bell Pesce (2003); Molinari (2003); Salviato (2003); Fiorino (2002) e (2011); Starnini (2014); Valeriano (2014); Re (2015); Carrino (2018).

[7] Per un’analisi del campo disciplinare psichiatrico in Italia tra Otto e Novecento: Giacanelli (1975); Castel (1980); Babini (1982) e (1989); De Peri (1984).

[8] Soldani (1989); Martin-Fugier (2001).

[9] Imarisio (1986).

[10] Tagliavini (1986a).

[11] Stewart-Steinberg (2011), p. 184.

[12] Canguilhem (1998), p. 37.

[13] Musumeci (2015), p. 147.

[14] Pescarolo (2020), p. 181.

[15] Grossi (2000), pp. 14-15; Costa (2003), pp. 373-409; Sbriccoli (1974-1975), (1990), (1998) e (1999); Miletti (2003), pp. 20-24; Bisi (2001); Petit (2007); D’Amico (2008); Stronati (2012) e (2013); Sigismondi (2013); Colao (2013), (2015) e (2016a); Birocchi (2014); Musumeci (2016); Latini (2017) e (2018); Passaniti (2022), pp. 80-91.

[16] Ferri (1896a). Il testo sarebbe di lì a poco riapparso anche in una delle raccolte dei suoi scritti: Ferri (1901a). Del pari, il contenuto dell’articolo sarebbe stato riprodotto (solo parzialmente) in lingua italiana nel suo contributo dal titolo La donna normale, la donna artista e la donna delinquente. Tale ultimo scritto è oggi riedito in Ferri (1979). Sul tema, anche Colao (2016b), p. 205.

[17] Duckett (2015).

[18] Taranow (2015). Sul cruciale punto di passaggio tra Ottocento e Novecento nelle forme teatrali, tra i numerosi studi: Alonge (1988); Angelini (1988). Per lo studio del teatro materiale: Meldolesi (2010). In ordine al mutamento del ruolo attoriale: De Marinis (2000), pp. 101-126.

[19] Bernhardt (2012).

[20] Bernhardt (2013).

[21] Gidel (1991); Gold/Fitzdale (1991).

[22] Brandon (1991); Reef (2020).

[23] Roberts (2002); Marcus (2019); Duckett (2023).

[24] Il riferimento nel testo è al notissimo pamphlet di Édouard Drumont La France Juive, che contribuì a diffondere in Europa i (nefandi) germi dell’antisemitismo tra Otto e Novecento. È significativo che tra i numerosi bersagli delle accuse di Drumont un posto di rilievo fosse stato riservato al teatro, un luogo simbolico della presenza culturale della minoranza israelitica nella società francese. A partire da classici del teatro d’opera come La juive (Ferrero/Giani Cei/Riberi, 2023) fino al successo di un’attrice come Rachel (che rivendicava con orgoglio la propria origine ebraica e che non a caso sfoggiava come nome d’arte quello dell’eroina dell’opera di Halévy), paladina delle virtù civiche nazionali durante l’esperienza della Repubblica del 1848 di Adolphe Crémieux, la presenza ebraica aveva contribuito ad alimentare l’immaginario politico della Francia dell’Ottocento diffondendo una visione inclusiva e universalistica della cittadinanza. Per una attenta disamina dell’atmosfera culturale della Francia fin de siècle nonché per l’esame degli attacchi subiti dalla Bernhardt nei quali «se rejoignent l’antisémitisme et antiféminisme», Meyer-Plantereux (2009) (citazione a p. 36).

[25] Glen (2000); Mariani (2016). Non è possibile in questa sede soffermarsi in modo analitico sui lavori teatrali e sulla fittissima galleria di personaggi interpretati da Sarah Bernhardt nella sua carriera. Tra i numerosissimi ruoli destinati ad accrescere la sua popolarità oltre Fedra, Doña Sol in Hernani di Victor Hugo, Mrs Clarkson e Marguerite Gautier rispettivamente ne L’étrangère e ne La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio, Adrienne Lecouvreur nell’opera di Ernest Legouvé e Eugène Scribe, i personaggi nati dalla collaborazione con Victorien Sardou come Fédora, Théodora, Gismonda e Tosca. Accanto ad essi una menzione spetta ai ruoli maschili come il cantore Zanetto ne Le passant di François Coppée, Napoleone II ne L’Aiglon di Edmond Rostand nonché la sua famosissima interpretazione dell’Amleto shakespeariano (Taranow, 1996). Del resto, come è stato messo in luce, la sua capacità di portare sulla scena tratti della psicologia maschile sarebbe stata sempre rivendicata con orgoglio da Sarah: «It’s not that I prefer male roles, it’s that I prefer male minds». Sul tema, diffusamente, Taranow (2015); Gottleib (2010), pp. 121-210 (p. 142 per la citazione).

[26] Cit. da Allegri (2014), p. 67.

[27] Degli Esposti (2023), p. 138.

[28] Bernhardt (2012), pp. 148, 101.

[29] Stokes (1991), pp. 47-48.

[30] La straordinaria prova d’attrice di Sarah in Phèdre sarebbe comparsa in uno dei passi più suggestivi di quella sconfinata œuvre cathédrale che è la Recherche proustiana, allorquando il protagonista narratore si recava a teatro per assistere allo spettacolo de la Berma. «Quel genio di cui l’interpretazione della Berma non era che la rivelazione, era dunque unicamente il genio di Racine? […] Capii allora che l’opera dello scrittore era per l’attrice soltanto la materia pressoché indifferente per creare il suo capolavoro d’interpretazione»: Proust (2018), p. 1205. Accanto a Wilde e Proust, la lista dei grandi della cultura rimasti folgorati dal talento della Bernhardt sarebbe assai lunga e suggestiva. Al di là delle parole di Mark Twain («Esistono cinque tipi di attrici. Ci sono le attrici cattive, quelle passabili, quelle buone, quelle grandi. Poi c’è Sarah Bernhardt»), il fascino esercitato dalla sua recitazione avrebbe recato un’impronta indelebile. Freud ne rimase talmente colpito da tenere una fotografia dell’attrice nel suo studio di Vienna, George Bernard Shaw l’aveva ammirata estasiato in Gismonda, tanto da commentare: «the show belonged to Bernhardt, an art noveau vision in serpentine robes and a headdress of a rare orchids». David Herberth Lawrence, che ebbe modo di assistere ad una sua rappresentazione londinese, confidò di essersi trovato di fronte ad un’esperienza allo stesso tempo «meravigliosa e terribile», poiché Sarah sul palco rivelava «the primeval passions of women and she is fascinating to an extraordinary degree» Gottleib (2010), pp. 196-197 per le citazioni. Sul tema, anche Gold-Fitzdale (1991); Rader (2018).

[31] Ferri (1896a), p. 513; Ferri (1901a), p. 478.

[32] Ferri (1901a), p. 478.

[33] Roberts (2002), pp. 178-232.

[34] Re (2002).

[35] Manesco (1981); Drudi (1995).

[36] Vercellone/Bertinetto/Garelli (2003), pp. 160-161.

[37] Taine (2001), p. 14.

[38] Moreau (1859), p. V. Sul complesso rapporto tra follia e psichiatria nel panorama positivistico, Hagner (2008); Jefferson (2015).

[39] Giacanelli (2000); Palano (2002), pp. 76-77.

[40] Sui caratteri del genio lombrosiano, Villa (1985); Frigessi (2003), pp. 291-326; La Vergata (2010).

[41] Lombroso (1877), p. 410.

[42] Lombroso (1877), p. 410. Sul tema, Vercellone/Bertinetto/Garelli (2003), p. 163.

[43] Moretti (1998), p. 160.

[44] Rondini (2001). Come è noto, la ricerca di Lombroso sul rapporto tra arte e criminalità avrebbe inaugurato un filone assai fecondo della scuola positiva, così ad esempio negli interventi dello stesso Ferri (1896b); Niceforo (1898); Leggiardi-Laura (1899); Portigliotti (1907), nonché la celebre opera di Sighele (1911).

[45] Hiller (2013).

[46] Lombroso (1877), p. 5.

[47] Bodei (2015), p. 40.

[48] Lombroso (1894), p. 252.

[49] Lombroso (1894), p. 253.

[50] Lombroso/Ferrero (1893). Occorre precisare che il testo dedicato da Lombroso all’analisi del tema della genialità e della follia, che, come osservato, avrebbe costantemente attraversato la sua produzione, aveva assunto il titolo L’uomo di genio in relazione alla psichiatria, alla storia ed all’estetica già a partire dalla quinta edizione del 1888. Tuttavia, la sesta edizione edita nel 1894 si arricchiva di una specifica trattazione (segnatamente il cap. VIII della Parte seconda, pp. 251-274) dal titolo La genialità nella donna, diretto a ripercorrere ed illustrare le conclusioni tratte nella sua opera dedicata specificamente alla criminalità femminile: La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893). In quest’ultima opera, il medico e psichiatra veronese, con dovizia di argomenti, illustrava come la mancanza di originalità e di estro creativo rappresentasse una caratteristica tipica della mente femminile: «Le donne mancano d’una inclinazione speciale per un’arte, una scienza, una professione: scrivono, dipingono, ricamano, suonano, fanno le sarte, le modiste, le fioriste successivamente, buone a tutto ed a niente, non portano che raramente l’impronta della propria originalità in nessun ramo» (p. 161 per la citazione).

[51] Lombroso/Ferrero (1893), p. 157. Sul tema, diffusamente Musumeci (2019).

[52] Lombroso/Ferrero (1893), p. 49. Sulla tematica del genio femminile in Lombroso, Colao (2016b), pp. 187-188.

[53] «Le donne di genio presentano frequentemente caratteri maschili, onde il genio potrebbe spiegarsi nella donna come Darwin spiegò il colorimento delle femmine uguale al maschio in certe specie di uccelli per una confusione di caratteri sessuali secondari prodotto da incrocio dell’eredità paterna e materna»: Lombroso/Ferrero (1893), p. 161. Del pari, lo stesso Lombroso nella sua argomentazione non esitava a far riferimento all’ope­ra di Max Nordau (seguace dei suoi studi sul genio e divulgatore della sua opera in ambiente tedesco) e ai suoi Paradossi dai quali largheggiava in citazioni per desumere in primo luogo la scarsa originalità caratteriale del sesso femminile «fra una principessa ed una lavandaia corre poca differenza: l’essenza comune all’una e all’altra è la natura muliebre, ovvero l’involontaria ripetizione del tipo generico» (Lombroso/Ferrero, 1893, p. 162), nonché lo spiccato carattere di chiusura alla novità, un misoneismo che la rendeva, a suo dire, per costituzione «nemica del progresso» (Lombroso/Ferrero, 1893, p. 163). Sullo sviluppo in ambito europeo del pensiero lombrosiano, Papa (1985). Sul rapporto tra Nordau e l’ampia rete tessuta da Lombroso in ambito internazionale, da ultimo, Sansone (2022), pp. 24-26, p. 62, n. 13.

[54] Sergi (1893), p. 168.

[55] Lombroso/Ferrero (1893), p. 410.

[56] Galton (1892), p. 318.

[57] Sergi (1893), p. 169.

[58] Babini (2011).

[59] Mantegazza (1879), p. 285.

[60] Weininger (2012), p. 97.

[61] Babini (1986) e (1999).

[62] Si tratta di un tema spesso sottolineato dalla storiografia giuridica attraverso opere dirette a illustrare ed analizzare i diversi aspetti della minorità femminile dell’Italia liberale. Tra i numerosi contributi, ci si limita a ricordare: Cazzetta (1999); Chiodi (2004); Passaniti (2011); Pignata (2012); Valsecchi (2004); De Giudici (2016); Tita (2018); Fusar Poli (2021).

[63] Dottin-Orsini (1993); Glenn (2000); Showalter (2009).

[64] Foucault (1978).

[65] Pifferi (2007); Marchetti (2008) e (2009); Musumeci (2012) e (2016); Cernigliaro (2013).

[66] Velo Dalbrenta (2004) e (2012).

[67] L’esame del temperamento come fattore essenziale della criminogenesi era stato discusso dal giurista mantovano al IV Congresso internazionale di antropologia criminale tenuto a Ginevra dal 24 al 26 agosto 1896: cfr. Ferri (1901b). La relazione presentata è edita con il titolo di Temperamento e criminalità nei suoi Scritti sulla criminalità, pp. 423-428 (p. 426 per la citazione).

[68] Ferri (1901b), p. 423.

[69] Ferri (1896a), p. 516; Ferri (1901a), p. 481.

[70] Lombroso (1877), p. 18.

[71] Ferri (1896a), p. 517; Ferri (1901a), p. 481.

[72] Ferri (1896a), p. 518; Ferri (1901a), p. 481.

[73] Minuz (1986); Tagliavini (1986b); Roccatagliata (1990) e (2001); Fiorino (1998) e (2000); Scull (2011); Micale (2019). Nel panorama degli studi di storia del diritto: Marchetti (2014); Musumeci (2015), pp. 91-92; Latini (2023).

[74] Morel (1857).

[75] Lombroso (2011).

[76] Bianchi (1905).

[77] Roccatagliata (1992) e (2001).

[78] Bonduelle/Gelfand/Gœtz (1995); Gasser (1995); Bogousslawsky/Walusinski/ Veyrunes (2009): originariamente «Charcot considered hysteria as a “neuroses” with an organic basis, but with no demonstrable cerebral damage and where a “dynamic lesion” of the brain was responsible for the “stigmata” (sensory dysfunction, hyperexcitability, visual field narrowing) i.e. permanent clinical features in patients who were also prone to paroxysmal fits (gran crises d’hystérie)» (cfr. p. 194 per la citazione). Per l’evoluzione di tale modello nel pensiero di Charcot e per i suoi successivi sviluppi: Bogousslawsky (2020).

[79] Edito in tre volumi a partire dal 1876, l’Iconographie photographique de la Salpêtrière terminò le sue pubblicazioni nel 1880. A partire dal 1888 lo studio dell’isteria fu oggetto della Nouvelle iconographie de la Salpêtrière clinique des maladies du système nerveux (1888-1918). Nel primo numero la pubblicazione veniva edita sotto la direzione scientifica di Charcot e si avvaleva dell’opera di Paul Richer, chef de clinique, e Gilles de la Tourette, chef de laboratoire, nonché della collaborazione di Albert Londe, direttore del servizio fotografico. La serie terminò con il tome vingt-huitième (1916-1917), edito nel 1918 per i tipi dell’editore Masson. Sulla diffusione dell’opera di Charcot, e la sua profonda influenza anche sulle arti figurative (Paul Klee, Gustav Klimt, Egon Schiele, tra gli altri): Erghbut (2010).

[80] Didi-Huberman (2008), pp. 238-239.

[81] Israel (1996).

[82] Trasforini (1982); Didi-Huberman (2008).

[83] Wilson Smith (2017), pp. 130-156.

[84] Marquer (2008).

[85] Colopi (2019), p. 14. Non è possibile sapere se Ferri fosse a conoscenza di un dettaglio tutt’altro che trascurabile (spesso ripreso nelle tante biografie della diva francese), ovvero che Sarah fosse fra le più assidue frequentatrici delle lezioni-spettacolo che si tenevano alla clinica Salpêtrière. È opportuno sottolineare come la specifica associazione della figura della Bernhard all’isteria costituisse un argomento assai diffuso sulla stampa d’opinione francese. Nel 1884, in occasione di una sua visita alla clinica parigina diretta da Charcot, Sarah rilasciò un’intervista a Le cronique médical, subito ripresa da altri importanti giornali parigini. Nel suo colloquio con l’intervistatore, la Bernhardt spiegava che il motivo della sua presenza alla Salpêtrière era dettata dalla necessità di perfezionare ai fini della pratica teatrale la gestualità, la mimica e la postura attraverso lo studio delle movenze delle pazienti ricoverate al nosocomio parigino. Il suo intervistatore aggiunse che la Bernhardt si era recata presso la Salpêtrière in vista del suo prossimo debutto ne La dame aux camélias di Alexandre Dumas, per ispirarsi alle ricoverate al fine di interpretare la spaventosa agonia di Marguerite Gautier. Favorito anche dal battage alimentato dalla stampa, lo spettacolo registrò un successo straordinario e contribuì in modo determinante ad accreditare l’immagine della Bernhardt e ad associare in modo, più o meno consapevole, il suo personaggio con l’immaginario della patologia nervosa (Marshall, 2020, pp. 69-70; Timpano, 2021, pp. 40-41). Va ricordato che Sarah non avrebbe mancato di esprimere il proprio punto di vista, come sempre assai brillante ed originale, sugli accostamenti del suo stile recitativo all’isteria. Nell’Art du théâtre avrebbe teorizzato la “natura” femminile dell’atto del recitare di per sé connaturato al desiderio di piacere, alla capacità di esaltare i propri pregi e dissimulare i difetti, mentre in Ma double vie, nel riflettere sul concetto dell’astrazione da sé come strumento essenziale per l’interpretazione di un personaggio rivendicava con orgoglio la maggiore attitudine femminile basata sulla capacità di assimilazione propria della donna. Lungi da essere un elemento deteriore, rivelatore di una supposta natura passiva dell’animo femminile, questa capacità permetteva all’attrice di elaborare un’immagine di sé per gli altri, finendo così per sottolineare, in contrasto con chi teorizzava lo “sdoppiamento” isterico delle donne, il carattere assolutamente volontario e consapevole della performance teatrale. Sul punto: Colopi (2019), p. 15; Mariani (2016), p. 66.

[86] Foucault (1969), (1997) e (2004).

[87] Ferri (1896a), p. 516; Ferri (1901a), p. 481.

[88] Il tema del disordine urbano come fòmite di degenerazione e matrice di tare e disturbi nevrotici è un tema ampiamente circolante nella complessa rete di discorsi nella cultura europea tra Ottocento e Novecento. Al di là del richiamo ad un’opera assai significativa di Georg Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (La metropoli e la vita dello spirito), che tuttavia verrà pubblicata solo nel 1903, era ancora una volta Max Nordau a fornire una traccia di lettura utile per inquadrare il fenomeno. Nel suo Entartung (Degenerazione) Nordau, oltre a scandagliare la produzione artistica dei suoi tempi per ricercare forme patologiche di gusto e sensibilità degli artisti (a finire sotto il suo implacabile vaglio critico erano, tra gli altri, Tolstoj, Wagner, Wilde, Baudelaire), individuava nella città il perverso fattore scatenante di fondamentali disordini psico-comportamentali, come il nervosismo e la sovraeccitazione. Approfondiscono la figura di Nordau, Pick (1989), pp. 223-224; Pelloni (2008).

[89] Ortega y Gasset (2001), pp. 47-48.

[90] Sighele (1891).

[91] Morselli (1886), p. 235.

[92] Gallini (1983), p. 207. Su questi temi anche Guarnieri (1990).

[93] Tarde (1890).

[94] L’impulso imitativo, considerato da Tarde alla base di tutti i fenomeni sociali (Les lois de l’imitation, 1890), avrebbe caratterizzato non solo la sua celebre distinzione tra folla e pubblico (L’opinion et la foule, 1891), ma anche la sua peculiare teoria della responsabilità. In particolare, quest’ultima recuperava la nozione di responsabilità morale (negata dalla scuola positiva italiana ed in particolare da Ferri) basandola, in concorso con altri requisiti, sulla nozione d’identità personale intesa come «que l’acte ait pour cause saisissable une personne, c’est-à-dire qu’il ait été voulu, et que cette personne n’ait point subi d’altération trop profonde, au point de vue de ses rapports avec ses semblables, pour être demeurée la même dans le sens social du mot»: Tarde (1891), p. 856. È peraltro assai significativo che Tarde polemizzasse in maniera assai accesa contro l’iperdeterminismo socio-biologico della scuola positiva, nonché contro lo stesso Ferri – «esprit d’ailleurs des plus virils – (Tarde, 1891, p. 852), rappresentante, a suo dire, di quell’«esprit italien qui joue effectivement, dans le grand salon de l’Europe, le rôle de la femme supérieure enthousiaste, agitatrice, très radicale d’allures, très diplomate au fond, un peu prompte à exagérer la nouveauté à la mode pour se l’approprier» (Tarde, 1891, p. 852). Sul problema penale in Gabriel Tarde: Petrucci (1988); Bisi (2004).

[95] Petrucci (1995), p. 125.

[96] Binet (1891).

[97] Petrucci (1995), p. 122.

[98] Martucci (2002), p. 13; Migliorino (2016).

[99] Ferri (1900), pp. 657-668.

[100] Lacchè (1990) e (2019); Meccarelli (2009) e (2011); Lacché/Stronati (2011) e (2014).

[101] Ferri (1893).

[102] Lombroso/Ferrero (1893), p. 571.

[103] Ferri (1893).

[104] Alessi (2006), p. 136; Sbriccoli (2004).

[105] Diffusamente sul punto: Colao (2016a), pp. 203-204; Cavallo (2019).

[106] Krafft-Ebing (1889), p. 11.

[107] Mantegazza (1893), p. 265.

[108] Moebius (1904), pp. 84-86.

[109] Gibson (2019); Gadebusch Bondio (1996).

[110] Ferri (1979), p. 295.

[111] Ferri (1979), p. 297.

[112] Ferri (1896a), p. 518; Ferri (1901a), p. 482.

[113] Ferri (1896a), pp. 519-520; Ferri (1901a), pp. 482-483.

[114] Ferri (1896a), p. 520; Ferri (1910a), p. 483.

[115] Ferri (1910a), p. 483.

[116] Ferri (1896a), p. 521; Ferri (1901a), p. 484.

[117] Wanrooij (1990), p. 177; Govoni (2006).

[118] Wanrooij (1990), p. 178.

[119] «There is [...] one art in which women may be said merely to nearly rival but actually to excel men: this is the art of acting». Ciò, secondo lo studioso inglese. era dimostrato dall’esperienza del passato, per il quale «there are more good actress than good actors», ma anche del presente: «France at all events, can shows no male rivals of Sarah Bernhardt». In effetti, ad avviso dell’autore «it is not difficult to find the organic basis of women’s success in acting. In women mental processes are usually more rapid than in men; they have also an emotional explosiveness much more marked than in men possess, and more easily whitin call. At same time the circumstances of women social life have usually favoured an high degree of flexibility and adaptability as regard behaviour, and they are, again more trained in vocal expression both those emotions which they feels and those emotions which it is considered their duty to feel. […] It is probable also that women are more susceptible than man to the immediate stimulus of admiration and applause supplied by the contact with the audience»: cfr. Havelock Ellis (1897), pp. 324-325.

[120] Gramsci (1975), p. 327.

[121] Ferri (1979), pp. 289-290.

[122] Cernigliaro (2013).

[123] Gibson (2004a).

[124] Pasi/Sorcinelli (1995).

[125] Pelaja (1994); Barbagli/Kertzer (2003).

[126] Babini (2015).

[127] Guidi (2004); Betri/Maldini Charito (2002).

[128] Mitchell (2015); Pietrini (2004) e (2021).

[129] Mariani (1991).

[130] Pullen (2005).

[131] Schettini (2011).

[132] Pieroni Bortolotti (1974); Rossi-Doria (2007). Significativo come lo stesso Ferri nella sua conferenza diretta ad illustrare le tipizzazioni femminili di donna “normale”, artista e delinquente, dopo aver biasimato il destino della donna del popolo che «lavora ovunque e soffre ovunque», aggiungesse con tono ispirato: «Quando la società avrà reso alla donna tutta la dignità della sua condizione sociale, non certo nel senso del femminismo più o meno eccentrico – che dimentica le naturali ed incancellabili differenze organiche e psichiche tra donna e uomo […] – ma nel senso vero e profondo di tutela dalla maternità, tutta la psicologia della schiavitù della donna è destinata ad attenuarsi progressivamente fino a scomparire» Ferri (1979), p. 292.

[133] Costa (2001), p. 345.

[134] Gibson (2009).

[135] Wanrooij (1990), p. 180; Gibson (2004b).