LawArtISSN 2724-654X
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo pdf articolo pdf fascicolo


A proposito di LawArt, 3 (2022) (di Pietro Costa, Università degli Studi di Firenze)


About LawArt, 3 (2022)

Il 4 ottobre 2023 si è tenuta all’Istituto Luigi Sturzo di Roma la tavola rotonda Linguaggio delle immagini, letteratura e dimensione giuridica. Presentazione del n. 3/2022 di LawArt - Rivista di Diritto, Arte, Storia. L’incon­tro era mosso dall’idea di rilanciare in un dibattito più ampio la riflessione svolta negli articoli pubblicati nell’ultimo numero della rivista (la cui sezione monografica è stata dedicata in particolare al tema Il Visual Turn negli studi giuridici). Con questo stesso spirito pubblichiamo qui la relazione presentata in quella occasione da Pietro Costa, professore emerito dell’Università di Firenze e Accademico dei Lincei, che ringraziamo molto per aver raccolto il nostro invito di condividere, anche sulle pagine di LawArt, le sue impressioni sul nostro progetto editoriale e la sua visione del rapporto tra diritto, arte e storia.

- Bibliografia - NOTE


Il progetto euristico cui LawArt appartiene è chiaro: è il progetto di mettere a fuoco il punto di intersezione fra fenomeni apparentemente lontani, come il diritto, da un lato, e, dall’altro lato la produzione artistica (la letteratura, le arti visive, il cinema, la musica). Quali sono questi punti di intersezione? A me sembra che si diano tre diverse modalità di interazione fra diritto e arte, ormai note e tutte puntualmente presenti nel volume (anzi nei volumi) di LawArt.

La prima modalità. In essa la produzione artistica viene presa in considerazione come un fenomeno socioculturale e socioeconomico: come un fenomeno quindi che, come ogni altro fenomeno sociale, esige di essere giuridicamente disciplinato. In questa prospettiva interessano non i prodotti artistici come tali, ma la formalizzazione giuridica cui l’arte, come fenomeno sociale, ha dato luogo in un determinato contesto (del presente o del passato). Nel nostro volume, due saggi appartengono a questo ambito di ricerca: il documentato saggio di María Encarnación Roca Trías, che studia a fondo il problema della proprietà delle opere d’arte nel quadro della vigente costituzione spagnola, e l’originale lavoro di Giovanni Chiodi, che si interroga sui diritti degli esecutori ed interpreti musicali nell’Italia del Novecento attraverso una serrata analisi delle vicende giudiziarie e delle posizioni dottrinali.

Con la seconda modalità del rapporto fra arte e diritto si apre uno scenario diverso, sorretto da una diversa domanda. Non ci si chiede in che modo il diritto disciplini l’arte, ma ci si chiede come l’arte rappresenti il diritto. Questa domanda presuppone due assunti: che il diritto possa e debba essere studiato come momento della complessiva dinamica socioculturale; e che l’arte (nelle sue varie espressioni) possa contribuire a farci capire il diritto come fenomeno socioculturale.

Per chi condivida entrambi gli assunti i prodotti letterari appaiono uno specchio prezioso per immergere il diritto nella vita complessiva di una determinata società. Tanto per fare un esempio: chi voglia capire che cosa sia stato il diritto nella Francia dell’Ottocento si accorgerà facilmente che studiare il codice Napoleone e leggere le sentenze dei giudici è necessario, ma non sufficiente. Se voglio capire la dimensione esperienziale del diritto, conviene che legga non solo il Code Napoléon, ma anche la Comédie humaine e intraveda il terreno nel quale prodotti testuali pur così diversi affondano le radici. Il mio esempio non è peraltro casuale: proprio a Balzac un amico scomparso, Aldo Mazzacane, ha dedicato pagine suggestive[1] e a Balzac il secondo fascicolo di LawArt, del 2021, ha dedicato significativi contributi: penso ai saggi di Giacomo Pace, di Giovanni Chiodi, di Francesco Gambino[2].

Per chi tenta di raggiungere una conoscenza, vorrei dire, à parte entière, del diritto, una conoscenza del diritto come parte integrante della cultura di una determinata società, le opere letterarie sono ovviamente una fonte importantissima. Accanto a esse, però, possono offrire materiali altrettanto preziosi anche altre espressioni artistiche: la pittura, le arti visive in genere, il cinema e anche la musica (anche se per quest’ultima sorgono problemi specifici che ci porterebbero troppo lontano[3]).

Per quanto riguarda le arti visive, la pittura è ormai da tempo una fonte largamente impiegata per comprendere la strutturazione politico-giuridica di una determinata società. Un caso esemplare, illustrato da una ormai sovrabbondante letteratura, è il ciclo di affreschi senesi dedicati da Ambrogio Lorenzetti al tema del buono e del cattivo governo; ma gli esempi si possono moltiplicare: mi piace ricordare il suggestivo saggio di Mario Sbriccoli dedicato all’immagine della giustizia[4], seguito dal libro di Adriano Prosperi sullo stesso tema[5].

In effetti, tanto la letteratura quanto le arti visive sono un giacimento immane, il cui sfruttamento è appena iniziato. È benvenuta dunque l’ini­ziativa di LawArt che raccoglie saggi documentati, suggestivi, importanti che lavorano in questa direzione: ricordo il saggio di Stefania Gialdroni, dedicato alle istituzioni giurisdizionali riflesse nel prisma della pittura tardo-quattrocentesca; il lavoro di Giacomo Pace Gravina, che stabilisce un felice cortocircuito fra la rappresentazione iconica di un giurista del Settecento e il suo ruolo nella società del tempo; e infine il contributo di Diana Natermann sul ruolo delle immagini (fotografiche, in questo caso) nella costruzione del discorso coloniale. Se poi volessimo estendere lo sguardo al cinema (di autore e di consumo), ci troveremmo di fronte a un materiale altrettanto inesauribile: uno storico di Chicago, Julius Kirshner, mi diceva che, a suo avviso, Law and Order – un serial televisivo americano degli anni Novanta – era impagabile per capire il sistema giudiziario del suo paese. E proprio nell’ultimo numero di LawArt Francesco Gambino offre una penetrante analisi comparativa delle rappresentazioni – rispettivamente, giuridico-kelseniana e teatrale e cinematografica – del singolare caso dello pseudo-capitano Voigt.

Possiamo dunque moltiplicare i termini del confronto fra l’esperienza giuridica e le manifestazioni artistiche, ma non cambia la domanda di fondo: nello scenario euristico cui mi sto riferendo – lo scenario originariamente compendiato nella formula law and literature – ciò che congiunge i due ambiti, il loro punto di intersezione, è il riflettersi del diritto nello specchio della produzione artistica, assunta come testimonianza privilegiata dell’immaginario, dei valori, delle aspettative di una determinata società. Law and literature, in questo senso, viene interpretata e realizzata come law in literature: il diritto come esperienza riflessa-rappresentata nella letteratura, nella pittura, nel cinema, nelle arti in genere.

È facile intendere come un siffatto programma euristico, fondato su un serio impegno interdisciplinare, richieda la condivisione di un atteggiamento di fondo nei confronti dei fenomeni considerati: occorre insomma che il ricercatore (giurista o letterato che sia) coltivi nei confronti tanto del diritto quanto della letteratura un interesse che vorrei dire kulturgeschichtlich. In questa prospettiva, lo storico della letteratura dovrà cogliere delle opere letterarie non soltanto il profilo estetico e stilistico (per intenderci, ‘formale’), ma anche e soprattutto il contenuto storico-culturale e lo storico del diritto prenderà in considerazione il diritto non soltanto come un insieme di norme formulate e applicate, ma anche come funzione e momento della dinamica sociale complessiva. Non è necessario che il giurista sostenga teorie giuridiche antiformalistiche e antinormativistiche. Basta che egli sia interessato non soltanto alla struttura-logico prescrittiva del discorso giuridico, ma anche al funzionamento delle norme in un concreto contesto storico sociale (né si dimentichi peraltro che il più illustre campione del formalismo giuridico – Hans Kelsen – è stato anche l’autore di brillanti saggi sociologico-realistici sulla democrazia).

Il diritto ‘nelle’ arti, dunque: il diritto in quanto esperienza rappresentata dalla letteratura, dal cinema, dalla pittura. Un siffatto programma euristico non esaurisce però lo spettro delle proposte riconducibili alla formula law and art. Sono infatti ormai numerosi gli approcci che intendono instaurare un rapporto più stringente fra le arti e il diritto assumendo un obiettivo diverso da quello prima ricordato: non studiare il diritto nelle arti, bensì studiare il diritto come arte.

Si apre uno scenario diverso e complesso che sta e cade con il senso che intendiamo attribuire alla congiunzione ‘come’. Se affermiamo che il diritto è ‘come’ la letteratura (‘come’ il cinema, ‘come’ la fotografia ecc.) e se prendiamo sul serio la congiunzione ‘come’, iniziamo un viaggio avventuroso che ha come presupposto e come tramite uno strumento tanto potente quanto delicato: l’analogia.

Che uso viene fatto dell’analogia e della metafora quando law and literature viene declinata come law as literature? Come è noto, le modalità di impiego delle metafore nella costruzione del discorso sono molto varie. Le metafore possono essere lessicalizzate e fossilizzate (e in questo caso la loro rilevanza è ridotta al minimo), oppure possono creare effetti stilisticamente ed esteticamente importanti incrementando l’efficacia retorica, persuasiva del discorso. Ciò che però preme sottolineare è che la metafora può svolgere un ruolo ancora diverso: almeno a partire dagli anni Cinquanta del Novecento (penso in particolare a Max Black e poi a Mary Hesse) e poi con la crisi del neopositivismo novecentesco, ha preso campo la convinzione che la metafora ha un ruolo primario nella rappresentazione del mondo e produce effetti non solo stilistici e retorici, ma anche cognitivi.

Concepita da Black come elemento di raccordo e di interazione fra contesti diversi e apparentemente lontani, la metafora «seleziona, enfatizza, sopprime, e organizza caratteristiche» di un ambito di esperienza facendo leva su tratti caratteristici di un ambito diverso [6]. È un’idea feconda, ripresa e sviluppata anche in tempi più recenti. Penso, ad esempio, alla cosiddetta Conceptual Metaphor Theory[7], secondo la quale la metafora concettuale opera mettendo in rapporto due domini diversi, il primo dei quali (il dominio source) offre la ‘mappatura’, lo schema orientativo per il dominio assunto come target. E non posso esimermi dal ricordare che proprio in Italia ha visto la luce, nei lontani anni Sessanta del Novecento, un grande e appassionante libro sull’analogia e sulla metafora (La linea e il circolo, di Enzo Melandri)[8], che, trascurato per decenni, è stato finalmente rimesso in circolo da una provvida riedizione dovuta alla casa editrice Quodlibet di Macerata[9].

Non posso addentrarmi, nel tempo disponibile, in questo difficile ma fecondo terreno e mi limito a ribadire un punto: che per il programma euristico che conveniamo di chiamare ‘law as literature’ è decisivo interrogarsi sulla portata euristica e cognitiva dell’analogia. Insomma: hic Rhodus, hic salta. Se vogliamo decifrare l’oggetto ‘diritto’ mettendolo in relazione con altri ambiti di esperienza, non possiamo evitare di interrogarci sullo statuto dei procedimenti analogico-metaforici volta a volta impiegati per ‘mappare’ il dominio assunto come target (appunto, l’esperienza giuridica). Ho tuttavia l’impressione che proprio questo momento, per così dire, metodologico-riflessivo, sia spesso trascurato e che spesso e volentieri la connessione metaforico-analogica fra arte e diritto sia presupposta, piuttosto che esplicitata e problematizzata. Certo, conviene introdurre un caveat. Non dobbiamo sopravvalutare l’importanza della riflessione metodologica: possiamo cucinare ottime torte anche senza essere laureati in chimica alimentare. È però anche vero che un’accurata tematizzazione delle strategie analogico-metaforiche potrebbe servire da fondamento e da stimolo per gli studi di law as art.

Da questo punto di vista, il saggio di Douglas Rocha Pinheiro è interessante e istruttivo. Esso, infatti, si sofferma su un elemento che può operare come termine medio e ponte fra esperienze distanti e in questo modo offrire un sostegno agli accostamenti analogici: mi riferisco alle sue considerazioni antropologico-culturali sul ruolo centrale della vista nelle culture occidentali. Il suo rilievo è pertinente. Pensiamo al linguaggio che impieghiamo per dar conto delle prestazioni cognitive del discorso. Quando ci riferiamo alla dimensione epistemica di un discorso, quando parliamo di un ‘discorso di sapere’, attribuiamo a esso la capacità di ‘rappresentare’ il mondo, di mostrarci la struttura profonda della realtà: appunto di renderla ‘visibile’. I discorsi di sapere sono tali in quanto capaci di vedere oltre il visibile, di vedere realtà che sfuggono al nostro senso (la vista) e che tuttavia, in quanto conosciute, divengono ‘vedute’. La conoscenza è comprensibile soltanto come estensione, oltre il visibile, del vedere (sfidando l’apparente ossimoro).

Riteniamo di poter vedere oltre il visibile, ma sappiamo che non possiamo vedere tutto. Pinheiro ci ricorda il carattere inevitabilmente parziale della visione rinviando a Walter Benjamin, che sottolineava la necessaria compresenza del vedere e del non vedere, l’impossibilità di cogliere la ‘totalità’. Peraltro, il carattere prospettico e parziale della rappresentazione è una delle caratteristiche essenziali che anche Thomas Kuhn attribuisce al paradigma scientifico. Il paradigma è, per Kuhn, l’insieme degli elementi che permettono a un sapere di rappresentare il proprio oggetto, di ‘vederlo’; ma questa visione è non già totale, bensì parziale; presuppone un osservatore, rectius, una comunità di ‘osservatori’, socialmente, culturalmente, insomma, storicamente, situata.

I discorsi, i discorsi di sapere, quindi anche il discorso giuridico, ‘vede’, ma la visione di cui i discorsi sono il tramite non è totale e incondizionata: è una visione sorretta e guidata da interessi, aspettative, valori; è una visione segnata dalla dinamica e dal conflitto sociale di cui è parte; è una visione che produce un effetto, al contempo, di rischiaramento e di occultamento. È con questo gioco di luci e ombre che il lettore dei testi (dei testi prescrittivi come dei testi di sapere) deve fare i conti. È questa la strategia raccomandata dall’optical constitutionalism di Pinheiro: decostruire una tradizione testuale portando alla luce quei presupposti che, sottaciuti ma condivisi, hanno impresso a quella tradizione la peculiare ‘parzialità’ della sua visione. Pinheiro, nel case study di cui si occupa (la formazione e la successiva interpretazione della vigente costituzione brasiliana), si riferisce (sulla scia di Sedgwick) alle convinzioni omotransfobiche che hanno inciso sul processo di redazione e di applicazione del testo costituzionale impedendo la ‘visione’ (e quindi anche il riconoscimento) delle minoranze vulnerabili.

È appunto con questo gioco di luce e ombra che deve confrontarsi qualsiasi lettura critica di un testo. Interpretare criticamente una tradizione significa mettere in discussione i presupposti sottaciuti della received view da essa veicolata, pur nella consapevolezza che il compito critico-ermeneutico è un compito interminabile, data l’impossibilità di ‘vedere’ l’oggetto nella sua totalità. Possiamo chiamare ‘optical’ il programma di un’ermeneutica critica? Lo possiamo (e possiamo servirci delle metafore impiegate da Pinheiro, quali «optical unconscious» e «inclusive parallax») proprio perché, a partire dall’assunto antropologico-culturale prima ricordato, facciamo leva sulla fondante esperienza del ‘vedere’ per intendere la dimensione epistemica delle nostre formazioni discorsive.

Resta dunque ferma l’importanza del nesso fra ‘diritto’ e ‘visione’. Questo nesso è messo a fuoco anche nelle pagine di Stolk e Vos, che si occupano delle organizzazioni internazionali come meta di turismo: il legal sightseeing, indicato nel titolo del loro saggio. L’espressione inglese sightseeing evoca, direi con ridondanza, la centralità del vedere. Qui però il linguaggio del vedere è impiegato in una direzione in qualche modo opposta rispetto al saggio di Pinheiro. La semantica della visione non serve più a evocare la drammatica contrapposizione fra ciò che un testo mostra e ciò che nasconde né allude allo sforzo necessario a evitare la epistemology of closet (per usare l’efficace espressione di Sedgwik ricordata da Pinheiro). Il diritto, infatti, non ha qui la volatile esistenza di un testo prescrittivo sul cui senso ci interroghiamo. Il diritto si presenta come un insieme di istituzioni incarnate in oggetti sensibili, ‘visibili’, anzi visitabili: esemplificativamente, il palazzo di vetro dell’Onu, l’aula di un tribunale internazionale, l’ufficio di un ambasciatore con tutti i suoi arredi.

Vedere, in questo caso, non è vedere-rappresentare un oggetto incorporeo: è vedere con i nostri corporei organi di senso cose molto solide come palazzi, aule, oggetti. È allora scomparsa la visione come epicentro di una costruzione metaforica? Non direi. Semplicemente, il diritto in questo caso non è l’oggetto, ma è il soggetto della visione: il tema è il ‘farsi vedere’ del diritto, la sua mondana incarnazione nei più diversi e solenni apparati, al contempo inequivocabilmente ‘materiali’ e potentemente simbolici. Il farsi vedere del diritto, la sua mondana incorporazione in edifici, stanze e corridoi, non è l’abbandono della metafora: è la valorizzazione di un nesso ab antiquo presente nella semantica della visione; il nesso fra ‘vedere’ e ‘potere’ (un nesso centrale nell’antropologica politica dell’Occidente, e forse non solo dell’Occidente; un nesso di cui occorrerebbe considerare anche la dimensione apertamente o cripticamente teologica: Dio è onnipotente perché onnivedente – e viceversa – e analogamente onnipotente e onnivedente è il piccolo dio secolarizzato del panopticon benthamiano).

Stolk e Vos sottolineano l’importanza che per le istituzioni riveste il rapporto con il pubblico. Hanno ovviamente ragione. Un politologo americano degli anni Sessanta del Novecento – Merriam – parlava dei credenda e dei miranda del potere: non solo le dottrine, ma anche le immagini, i riti, le liturgie, che mettono in rapporto il potere con i soggetti e lo rendono (almeno parzialmente) visibile, sono dispositivi indispensabili per la sua legittimità e quindi per il suo funzionamento.

Vedere il diritto (il tema del saggio di Pinheiro) e il farsi vedere del diritto (il tema del lavoro di Stolk e Vos) sono prospettive, in qualche misura, eguali e contrarie: per il primo, la metafora della visione è un incentivo per cogliere, del diritto, le zone in ombra, la polvere sotto il tappeto (potremmo dire le realtà rimosse, dal momento che anche il lessico psicoanalitico può aver molto a che fare con la metafora della visione) e conduce a una critica puntuale degli ordinamenti; per i secondi, il farsi vedere del diritto coincide con un’efficace strategia di autolegittimazione degli ordinamenti stessi, essendo difficilmente ipotizzabile che possa condurre al disvelamento degli arcana imperii (la trasparenza delle istituzioni è, per Bobbio, una delle mancate promesse della democrazia).

In ogni caso, la metafora del vedere sembra implicare il tentativo di raggiungere, oltre il diritto, il flusso di esperienze di cui il diritto è una provvisoria e fragile formalizzazione. Le letture che Massimo Meccarelli e Cristiano Paixão offrono di Sebald vanno, a mio avviso, in questa direzione. Meccarelli e Paixão non leggono Sebald come altri hanno letto Balzac o Rabelais, per capire l’immagine del diritto riflessa nello specchio della letteratura (law in literature). La loro aspettativa è diversa: usare l’opera letteraria non come uno specchio, ma, vorrei dire, come un XR viewer, come un visore di una extended reality, come un dispositivo che permetta l’accesso a un’area esperienziale su cui il diritto riposa pur senza coincidere con essa.

Massimo Meccarelli si chiede che cosa si attenda Sebald dalla letteratura: semplicemente, che dica la verità sul mondo; che non si arresti alla superficie delle cose ma colga, come scrive Sebald, «the metaphysical underside of reality». The underside, appunto: il lato nascosto, celato delle cose. Di nuovo, è in gioco la pervasiva metafora del vedere: in questo caso, però, la letteratura non è l’oggetto del vedere, ma un suo medium; si vuole non già vedere la letteratura, ma vedere per mezzo della letteratura: vedere, grazie alla letteratura, l’altra faccia della luna, la faccia nascosta del diritto.

Che cosa può mostrare Sebald sul ‘non visto’ del diritto? Tanto Paixão quanto Meccarelli traggono dalle opere sebaldiane un preciso e impegnativo invito; l’invito a ripensare il rapporto fra diritto e tempo riflettendo su uno dei temi centrali della produzione sebaldiana: l’uso della memoria. Il tema della memoria è fondamentale: per il singolo, ovviamente, ma anche per le istituzioni, che trovano nell’uso politico della memoria un tramite decisivo per la loro legittimazione (basti pensare al ruolo delle storie nazionali nella costruzione dei vari Stati europei e, più di recente, al grande, anche se spesso infruttuoso, tentativo dell’Unione Europea di costruire una ‘memoria condivisa’ che ne rafforzi la sempre claudicante legittimità).

Politica della memoria, per le istituzioni, significa instaurare un complicato regime di ricordo e di oblio. La giustizia di transizione – presa in considerazione da Meccarelli – è un caso interessante. Un paese è costretto a confrontarsi con laceranti fratture che hanno spezzato i principali vincoli sociali e occorre, in qualche modo, voltar pagina, e ricostruire i legami interrotti. Occorre ricordare, ma anche dimenticare. Serve mettere in contatto carnefici e vittime e cercare difficili mediazioni fra memorie, interpretazioni, esperienze opposte. Si può far molto in questa direzione; ma si può anche prendere sul serio il monito di Sebald, che sembra andare nella direzione opposta assumendo come irrinunciabile e inestinguibile il ‘risentimento’ della vittima: un risentimento che riposa su un’istanza di giustizia assoluta, non sacrificabile alla logica della composizione del conflitto; per l’appunto quella composizione del conflitto che sembra essere uno dei principali obiettivi delle istituzioni politico-giuridiche.

Forse il diritto ha buone ragioni per porre limiti al tempo e contemplare la possibilità dell’oblio; forse il diritto al risentimento è un elemento socialmente pericoloso. È però anche vero che il diritto al risentimento di Sebald ricorda molto l’indignazione valorizzata da Diderot: che proprio nell’indignazione – nell’indignazione di fronte alla diseguaglianza e alle prevaricazioni – vedeva la fondazione originaria dei diritti. In questa prospettiva allora – come ricorda Paixão – la delimitazione del tempo e la politica dell’oblio, cui gli ordinamenti inclinano, devono arrestarsi di fronte alle violazioni dei diritti umani fondamentali.

In ogni caso, storia e memoria (l’oggettivo svolgersi del processo interattivo e la soggettiva rappresentazione che di quel processo i singoli attori mettono in scena) incidono in modo determinante sulle soluzioni politico-giuridiche volta a volta prospettate (e al tema della memoria LawArt si è mostrata sempre sensibile: penso al bel saggio di Marco Fioravanti su Gary, ospitato nel secondo volume della rivista[10]). Storia e memoria, insomma, non sono un lusso ‘letterario’, ma sono dimensioni essenziali per comprendere ciò che Massimo Meccarelli ha efficacemente chiamato «il terreno magmatico» da cui gli ordinamenti traggono la loro linfa vitale.


Bibliografia

Black, Max (1962), Models and Metaphors: Studies in Language and Philosophy, Ithaca (NY), Cornell University Press

Costa, Pietro (2020), Il diritto «come» la musica, la musica «come» il diritto: il fascino discreto di un’analogia, in Roselli, Orlando (a cura di), Le arti e la dimensione giuridica, Bologna, Il Mulino, pp. 229-270

Fioravanti, Marco (2021), Educare all’umanità, custodire la speranza. Resistenza, diritto e memoria nell’opera di Romain Gary, in «LawArt», 2, pp. 129-161

Lakoff, George, Mark Johnson (1980), Metaphors We Live by, Chicago, Chicago University Press

Mazzacane, Aldo (2014), Diritto e romanzo nel secolo della borghesia. Le Colonel Chabert di Honoré de Balzac, in «Giornale di Storia costituzionale», 28/II, pp. 187-213

Melandri, Enzo (1968), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, il Mulino

Melandri, Enzo (2012), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata, Quodlibet

Prosperi, Adriano (2008), Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagi­ne, Torino, Einaudi

Sbriccoli, Mario (2009), La benda della Giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo all’età moderna [2003], in Sbriccoli, Mario, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi ed inediti (1972-2007), Milano, Giuffrè, pp. 155-208


NOTE

[1] Mazzacane (2014).

[2] Balzac e il diriitto. Discussione intorno a G. Guizzi, Il 'caso Balzac'. Storie di diritto e letteratura, Il Mulino 2020, in «LawArt», 2 (2021).

[3] Mi permetto di rinviare a Costa (2020).

[4] Sbriccoli (2009).

[5] Prosperi (2008).

[6] Black (1962), p. 44.

[7] Lakoff/Johnson (1980).

[8] Melandri (1968).

[9] Melandri (2012).

[10] Fioravanti (2021).